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“A Genova volevano il morto, ma doveva essere un poliziotto”

Il dott. Sabella, magistrato e attuale assessore della giunta comunale di Roma, ha rilasciato oggi una intervista a La Repubblica. L’intervista prende spunto dalla recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, che ha condannato l’Italia per l’uso della tortura sulla base di quanto avvenuto ai manifestanti massacrati nella scuola Diaz nel luglio 2001 a Genova. Ma, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, ancora più grave è quanto accadde in quei giorni nella caserma di Bolzaneto, dove i manifestanti presi nelle piazze o alla Diaz venivano condotti e sottoposti a violenze allucinanti “in stato di fermo”. In questo caso il reato di tortura si è manifestato ancora più chiaramente che durante il massacro alla Diaz.

 

Al dott. Sabella, che allora era responsabile dell’Ufficio Ispettorato del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria al quale venne assegnato il compito di gestire i fermati nella caserma di Bolzaneto, probabilmente fischiano le orecchie e forse ha deciso di “vuotare il sacco” prima che qualche tegola gli arrivi sulla testa.

 

Sabella parla di “un piano lacunoso modificato in corso d’opera” sulla gestione degli arresti ma soprattutto afferma che dietro quanto accaduto a Genova nel luglio 2001 c’era “una regia politica”. Alla inevitabile domanda su di chi fosse questa regia politica Sabella risponde: “Di preciso non lo so. È possibile che qualcuno a Genova volesse il morto, ma doveva essere un poliziotto, non un manifestante, per criminalizzare la piazza e metterla a tacere una volta per sempre”.

 

Dall’intervista viene confermato lo scenario inquietante – anche se niente affatto soprendente – su quanto pianificato e avvenuto a Genova. Ma delle due l’una: o Sabella continua ad omettere chi fu l’ideatore o gli ideatori del piano oppure è un incompetente non in grado di gestire il compito che gli era stato assegnato dai vertici della sicurezza di Stato in occasione del G8 di Genova.

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Qui di seguito il testo integrale dell’intervista di Sabella a La Repubblica di oggi

G8, Sabella nella bufera. “Io vittima di una regia, la politica cercava il morto per demonizzare la piazza”

Di Giovanna Vitale

“A Genova sono successe cose molto strane”. Nel suo stanzino a Palazzo Senatorio l’assessore Alfonso Sabella divora una sigaretta dopo l’altra e torna con la mente a quel G8 di 14 anni fa che non ha mai smesso di tormentarlo. “Io ho avuto il torto di rivelare ai pm il piano, secondo me folle, degli arresti preventivi. E i servizi me l’hanno fatta pagare cancellando i tabulati del mio cellulare”.

“Il gip Vignale ha poi fatto il resto”, prosegue Sabella. “Con un’ordinanza infamante ha archiviato la mia posizione, nonostante io sia l’unico del G8 che non solo ha rinunciato alla prescrizione ma si è anche opposto alla richiesta di archiviazione. Ecco perché adesso spero che qualcuno mi denunci: fra gli indagati di allora io sono il solo ancora processabile. Così potrò finalmente cancellare questa macchia che ha devastato la mia vita e bloccato la mia carriera di magistrato”.

Cominciamo dall’inizio. Ci spiega cos’era questo “piano degli arresti preventivi” e quali erano le sue mansioni a Genova?
“In quell’estate del 2001, io ero capo dell’Ufficio Ispettorato del Dap. Una ventina di giorni prima dell’inizio del G8 mi chiamano e mi illustrano il piano degli arresti preventivi. Gli obbiettivi  –  mi spiegarono  –  erano due: respingere alla frontiera quanti più malintenzionati possibile, sulla scorta delle segnalazioni dell’intelligence; cominciare ad arrestare, già da lunedì 15 luglio, tutti i manifestanti che avessero con sé cappucci neri, mazze da baseball e ogni tipo di arma, propria e impropria. E trattenerli in stato di fermo, prima, e in attesa della convalida del gip, dopo, sino alla fine del summit. Vietando per di più i colloqui con i difensori, che dovevano essere differiti”.

Perché era un piano folle?
“Intanto perché non si può portare la gente in carcere senza prove. Oltretutto avevano deciso di chiudere i due penitenziari della città, che stavano nella cosiddetta zona gialla, e di creare due prigioni provvisorie a Forte San Giuliano e a Bolzaneto. È ciò che mi rimprovero di più: accettare un piano che faceva acqua da tutte le parti, tentando di correggerlo in corsa. Piano che in realtà non è mai scattato”.

E che avrebbe poi scatenato i massacri?
“Il piano fu modificato in corso d’opera forse proprio per soffiare sul fuoco e far esplodere gli scontri. Fino a venerdì pomeriggio, alla morte di Carlo Giuliani, non era stato fatto nemmeno un arresto: il primo, il fotografo Alfonso De Munno, arrivò a Bolzaneto pochi minuti prima dell’omicidio. Mi sono fatto l’idea che dietro ci fosse una regia politica”.

È un’accusa grave, assessore. Regia di chi?
“Di preciso non lo so. È possibile che qualcuno a Genova volesse il morto, ma doveva essere un poliziotto, non un manifestante, per criminalizzare la piazza e metterla a tacere una volta per sempre”.

Torniamo a lei. Per le torture a Bolzaneto è stato indagato, poi stralciato e infine archiviato, ma secondo il gip lei è stato negligente nei controlli, imprudente nell’organizzare il servizio, imperito…
“Ma allora se così è, perché non mi ha rinviato a giudizio per lesioni colpose? La verità è che mi volevano incastrare. Per due motivi: aver rivelato il piano aberrante degli arresti preventivi; per il fatto che fossi un magistrato e dunque perfettamente funzionale alla logica craxiana del “tutti colpevoli, nessun colpevole””.

Lei però era responsabile del carcere di Bolzaneto.
“Si ma non ero lì quando i pestaggi si verificarono, ma a Forte San Giuliano, dove non è successo niente. Lo dimostrano i tabulati dei 4 telefoni cellulari che usavo quel giorno. Chiesi ai magistrati di Genova di controllare i miei spostamenti, perché ogni sospetto fosse dissipato. Ma quando dopo 9 mesi furono finalmente acquisiti, il traffico relativo alla ‘cella’ territoriale che io occupavo durante le violenze era sparito (cancellato su quattro cellulari!) e dunque era impossibile affermare dove mi trovassi”.

E chi è stato?
“Posso pensare ai servizi. Perciò mi sono messo da solo a ricostruire tutti i miei movimenti attraverso i tabulati delle chiamate in entrata, cioè delle telefonate ricevute. E dimostrai che quando ero a Bolzaneto, non c’era stata alcuna violenza. Ma, nonostante questo, il giudice se n’è infischiato e ha emesso un provvedimento di archiviazione che mi ha devastato la vita e la carriera”.

All’indomani dei massacri lei ha difeso i suoi uomini.
“Pensavo fossero stati corretti. Quando ho scoperto cosa avevano fatto, mi sono sentito uno schifo”.

E ora, pensa alle dimissioni?
“No. Io qui in Campidoglio sto dando parecchio fastidio. Perciò non me ne vado. Non intendo dargliela vinta”.

da La Repubblica del 10 aprile 2015

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