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La democrazia non serve più, si governa con la polizia

Tanti segnali, tutti pessimi. A metterli in fila ci vuole ormai un’enciclopedia, perché si va dalla modifica governativa della Costituzione allo svuotamento radicale delle garanzie (a tutti i livelli e in tutti i campi, dal penale alla sanità), dall’impossibilità accertata di introdurre nel codice penale il reato di tortura all’altrettanto accertata impossibilità di apporre un numero identificativo (non un nome!) sulle divise di poliziotti e carabinieri.

Tra questi segnali, nei giorni scorsi, l’”avviso orale” rivolto dalla polizia romana a un dirigente sindacale “notato” in diverse… iniziative sindacali! Sarebbe una provocazione semplice, se non fosse avvenuta utilizzando i poteri di un decreto antimafia; come se la libera associazione dei lavoratori per contrattare collettivamente fosse equiparabile – in un delirio giuridico da secoli bui – a un’associazione di natura affaristico-criminale.

Qualcuno può aver fatto spallucce davanti a questo “fatto minore” (“l’iniziativa solitaria e intempestiva di un commissario o di un qeustore, mettete un buon avvocato e facciamola finita…”), ma l’assuefazione all’obbedienza si realizza appunto come una successione quotidiana di fatti minori, nessuno di per sé tale da costringere a prendere una posizione netta, a schierarsi o indignarsi. Un po’ come avviene nell’addestramento di un cane, giorno dopo giorno, una punizione lì, un bocconcino là…

Senza neanche scomodare casi clamorosi ormai ben noti ai nostri lettori, come gli omicidi di “fermati” o arrestati per futili motivi, vi proponiamo qui una testimonianza pubblicata ieri sul per nulla sovversivo magazine Internazionale, dove una scrittrice si imbatte per caso in una delle tante scene di intimidazione che vedono come protagonisti poliziotti (e militari, ormai una presenza fissa nelle stazioni e nelle metro) e immigrati.

Il racconto è paradigmatico perché naturalmente la scrittrice non porta addosso nessuna delle stigmate sociali che saltano agli occhi di un poliziotto (look trasandato, colore della pelle un po’ strano, abiti sdruciti o sporchi, ecc); è una persona che parla ovviamente un ottimo italiano (diciamo molto migliore di quello di qualsiasi agente o funzionario di polizia) e che, anche per la professione praticata, viene normalmente inquadrata nella upper class. Anche se ovviamente non tutti gli scrittori sono benestanti, anzi…

Un piccolo fatto quotidiano, una stonatura nello storytelling governativo. Una prassi che chiunque di noi conosce bene. E che sta diventando procedura normale, seriale, di routine. La democrazia formale si va svuotando in questo modo, silenziosamente.

Non dite poi che non ve ne eravate resi conto, che non potevate capire, ecc. E’ già avvenuto quasi un secolo fa. Di nuovo ci sono solo le tecnologie, non il senso politico.

*****

Vi racconto la brutta aria che tira a Milano

Violetta Bellocchio, scrittrice

Verso la metà di aprile sono stata fermata dalla polizia in una stazione di Milano. È stata una decisione precisa, personale. Loro stavano lavorando e io gli ho fatto una domanda.

Milano Rogoredo è una stazione molto frequentata da pendolari e studenti, alla periferia sud della città, che spesso scelgo come punto di partenza e di arrivo: ci passa la linea 3 della metropolitana, poche fermate e sei in centro. Comodo. C’è un’edicola, un bar. Dall’altro lato dei binari, i palazzi di Sky.

Il mio treno parte alle cinque. Ho appena fatto il biglietto all’automatico. Alle mie spalle, un poliziotto sta parlando a un uomo. Non puoi stare qui senza biglietto, gli dice, è vietato. Stai aspettando qualcuno? Stai partendo? No? Allora te ne devi andare. L’uomo ha la pelle scura, un cappello con la visiera, una tuta da ginnastica, pulita. Parla poco, a voce bassa. Non riesco a capire se le sue risposte sono evasive o se non conosce bene l’italiano. Il poliziotto alza la voce. Vattene, vattene. Al suo fianco ci sono due militari in tuta mimetica. Lui indica un punto del soffitto, dice, lì sopra ci sono le telecamere, sparisci. L’uomo si allontana, se ne va.

Io mi guardo intorno. La stazione è affollata, il tabellone annuncia una ventina di treni nella prossima ora. Mi avvicino al poliziotto – mantenendo una certa distanza: tra me e lui ci sarà un metro – e gli chiedo cos’è successo.

Buongiorno, dico, posso chiedervi cos’è successo? Cos’aveva fatto quel ragazzo?
Il poliziotto mi dice, lei chi è. (Me lo dice, secco, non è una domanda).
Sono… italiana?, dico.
Il poliziotto mi guarda, zitto. Mi sta valutando. Mi faccia vedere i documenti, dice.

Sto attenta a tenere le mani fuori dalle tasche, dopo che ho aperto e chiuso la borsetta. Lui prende la mia carta d’identità, la scruta, guarda più volte il documento e la mia faccia. Ci sono davvero le telecamere?, chiedo. Vengo spesso in questa stazione, mi piacerebbe saperlo. Lui mi restituisce la carta d’identità.

Signora, vuole venire con noi?, mi chiede.
No, dico.
È tutto molto lento. Loro mi squadrano, io resto ferma.
Signora, non è una domanda retorica.
Devo prendere il treno, dico.
Non glielo facciamo perdere, dice il poliziotto.

Io ho detto “no” perché il mio documento è già stato controllato, e perché non voglio seguire tre uomini sconosciuti e armati in un posto non meglio precisato. Ma quali alternative ho, adesso? Cosa potrei fare: scappare, gridare? Non mi viene nemmeno in mente.

Tra l’ingresso della stazione, con il tabellone degli orari, e l’ufficio della polizia ferroviaria ci sono una ventina di metri. Cammino accanto a tre uomini in divisa. So che uscirò da quella stanza dopo un po’ di tempo. So che tutto sarà sgradevole, in una maniera che non mi è familiare. Penso che non andrà così male perché sono le quattro di pomeriggio. È ancora giorno, c’è luce. Il poliziotto mi chiede che lavoro faccio.

La scrittrice, dico.
Ah, si vede.
Da cosa?, chiedo.
Lei fa molte domande.

L’ufficio è una stanza piccola e senza finestre. La porta dà sul binario 1. Mi fanno stare in piedi davanti a loro. Il poliziotto si mette dietro una scrivania – non ricordo se c’è un vetro tra me e lui, ma credo di no – e comincia a trafficare con il mio documento. Sulla scrivania c’è un computer, forse lui sta controllando i miei dati. Comunque non mi dice cosa sta facendo. I due militari osservano la scena, leggermente in disparte. Non aprono bocca. È il poliziotto il capo. È lui che parla. “Viene spesso a Milano? Dove sta andando? Perché è qui oggi?”.

Tra una domanda e l’altra, silenzio. Io rispondo in maniera troppo dettagliata. Me ne rendo conto mentre parlo, ma voglio fargli capire che so cosa sta succedendo. Conosco la teoria, se non la pratica. “Vengo spesso a Milano a trovare la mia famiglia, i miei genitori sono residenti qui. Prendo spesso il treno delle 17 che parte da Rogoredo. Questa stazione mi piace più di Milano Centrale, qui mi sento più sicura”. Porto un cappotto nero, un cappello, prima ha piovuto, sulle spalle ho uno zainetto con il portatile, le cuffie, il caricabatterie, ho una borsetta con le chiavi di casa. Conto i miei privilegi.

La mia pelle, in Italia, viene considerata bianca: parlo italiano come prima lingua, viaggio con un documento rinnovato lo scorso autunno, sono sobria, sono maggiorenne, ho un regolare biglietto del treno, e anche se nella foto sulla carta d’identità sbarro gli occhi e non sorrido – mi manca solo un quotidiano rivolto all’obiettivo – somiglio alla persona davanti a loro. Non ho niente da nascondere.

Non chiedo il nome, o un numero di riconoscimento, a questi uomini. I militari sono altissimi, forti, grandi il doppio di me. Sono armati. Forse tutti e tre. Non ho guardato bene. Non sono capace, a un’occhiata, così, di riconoscere un’arma da fuoco carica.

Una volta finita la verifica al computer, il poliziotto comincia lentamente a scrivere il mio nome e il mio indirizzo su un foglio. Non riesco a leggere bene, a distanza, ma vedo comparire i miei dati – il mio nome, il mio indirizzo – subito sotto un nome maschile, italiano, e un anno di nascita, 1985. Penso che questa stessa identica cosa oggi è successa anche a un ragazzo. Il poliziotto continua a scrivere. Va molto piano. Gli chiedo cosa sta facendo.

Il poliziotto mi guarda e dice, lei è molto curiosa, vero.
Sì, molto.

Sono costretta a stare in piedi da tre estranei che mi chiamano “signora” e mi dicono che faccio molte domande, in una stanza senza finestre, dove non arriva nessun rumore dall’esterno, mentre loro si segnano il mio nome e il mio indirizzo di casa.

Dopo dieci minuti mi lasciano andare. Posso andare a prendere il treno. Arrivo perfino al binario con un po’ di anticipo. Ci sono due uomini, italiani. Dico cos’è appena successo. Uno mi chiede, ma adesso? Allora ti ho visto, eri tu? Un quarto d’ora fa? Ho pensato che eri straniera e avevi chiesto un’informazione. No, gli dico, mi hanno fermato. Che merde, dice lui. L’altro scuote la testa. Succede spesso, in questa stazione? È legale? Nessuno sa niente.

Lo chiedo al controllore, a bordo del treno: lui dice che può capitare, che si è trovato anche lui in una situazione piuttosto tesa; la polizia ferroviaria, dice, reagisce male quando si sente interrotta o contestata nell’esercizio delle proprie funzioni. Io dico che non ho interrotto niente, ho solo fatto una domanda. Mando un messaggio a un amico giornalista. Lui dice che è tutto legale, ma che è stato comunque un abuso di potere, che in certi ambienti c’è troppo testosterone e una gran voglia di appoggiare il cazzo sul tavolo. Vuole sapere se sto bene, mi dice di stare attenta alla polizia ferroviaria, in futuro.

L’ultima volta che sono stata fermata avevo diciott’anni e stavo partendo per una vacanza in Danimarca. L’accusa era di aver fumato marijuana in una sala d’attesa dell’aeroporto di Linate. Mentre aspettavamo, io e i miei amici, in una stanzetta senza finestre, con due guardie di finanza che aprivano la sigaretta di A., per ispezionarne il contenuto (niente da segnalare: solo tabacco), ero spaventata e allegra. Ero molto piccola, viaggiavo con due ragazzi maschi. Non avevo niente da nascondere.

Durante il viaggio mi sforzo di non pensarci. Sto tornando a casa mia, a 300 chilometri di distanza, in una piccola città dove la stazione non ospita un ufficio della Polfer, e dove, al limite, posso sempre andare dai carabinieri. Arrivo a casa, faccio la doccia e vado a dormire.

Sono una privilegiata

Nei giorni dopo vado avanti. Lavoro. Però ci penso. Io ho solo fatto una domanda. Ho chiesto cosa stava succedendo. Non ho interrotto un arresto o una perquisizione. Mi ritrovo a rivivere l’episodio come farebbe una ragazzina: mi hanno fatto brutto; mi hanno trattato male, ma non mi hanno messo le mani addosso. Il mio nome, il mio indirizzo, la mia data di nascita, sono scritti in una piccola stanza senza finestre nella stazione di Milano Rogoredo. “Lei è molto curiosa, vero”. Erano armati? Com’erano vestiti? Li riconoscerei, se li vedessi in fotografia? Ricordo la voce del poliziotto; uno dei militari aveva gli occhi azzurri, sembrava molto giovane. A un certo punto ho pensato che potevo essere sua madre.

Sono una privilegiata, penso.

Priorità, penso: mentre le forze dell’ordine facevano brutto a me, per dieci o quindici minuti, cosa succedeva nel resto della stazione? Non ho visto altri poliziotti o militari in giro: chi si stava occupando del bene comune?

Conto i miei privilegi, di nuovo: non mi hanno violentato, non mi hanno picchiato, non sono stata arrestata, non dovrebbe esserci un procedimento penale a mio carico.

Priorità: se è successo a me, in pieno giorno, cosa può succedere a qualcun altro? Come viene trattata una persona che non viene considerata bianca, non parla un italiano perfetto, non sembra del tutto lucida, o padrona di sé, qualunque sia la ragione?

 

La tentazione, per un po’, è alleggerire. La storia è piccola, non ha conseguenze. Nelle settimane successive non ricevo visite – o telefonate – dai rappresentanti locali delle forze dell’ordine. Mi hanno lasciato andare. Gli è bastato depositare un avviso nell’aria: “Signora, fatti i cazzi tuoi”.

Milano Rogoredo è una stazione tranquilla e ben illuminata. Come Milano Porta Garibaldi. Alcune persone, tra cui me, preferiscono andare lì a prendere il treno, dopo quello che è stato raccontato come “il grande recupero della Stazione Centrale di Milano”: un’operazione per cui oggi, come a Roma Termini, ci sono i gate, e l’accesso ai binari è consentito solo a chi mostra un biglietto.

Trasformando tutto il resto della Stazione Centrale in una lunga, ininterrotta sequenza di Snowpiercer, per cui appena si scende dalla metropolitana si comincia a correre a testa bassa con le braccia strette ai fianchi, dai cazzo, verso la terra promessa dei binari (potrebbe interessarvi che i binari non sono diventati comunque un posto sicuro: la gente con il biglietto si urla vaffanculo, si spintona). La tentazione è alleggerire, appunto. Dare un titolo alla storia. Trappola di cristallo, Fuga di mezzanotte. Distretto 13. Signora, vuole venire con noi.

Il problema è che io, anche volendo, i cazzi miei non me li posso fare. A parte che non voglio: è proprio che non posso. Viaggio molto spesso da sola, e la sicurezza, per me, non è un’idea o una promessa elettorale. È questione di sapere dove ci si trova e come regolarsi. Sai dove stai andando? Se qualcuno ti segue, sai cosa fare? L’importanza dell’autocontrollo, del chiedere aiuto, del non sottovalutare un pericolo. Fare domande è importante. Tenere gli occhi bene aperti, non lasciarsi prendere dal panico ma non correre rischi inutili. Più ci si isola, più è facile mettersi nei guai. Di questo, le forze dell’ordine sono consapevoli.

Negli ultimi tempi, a Milano, come altrove, tira una brutta aria. Alcuni tratti del passato recente – il disprezzo verso chiunque non sia ricco e alla moda, l’insistenza con cui si ammirano i forti, il privato, e l’incapacità di credere che esistano stili di vita diversi dal proprio – sono stati portati avanti in maniera non prevista.

Faccio solo un esempio, il più recente: nelle stazioni e sui mezzi pubblici della città molte persone chiedono cibo. Attraversano i vagoni della metropolitana spiegando che non hanno una casa, e chiedono non i soldi per comprare da mangiare, ma proprio il cibo. A maggio, sulla linea 3, una ragazza molto giovane offre a un mendicante una confezione di plastica – forse un’insalata – spiegando che la scatola è stata sballottata nello zaino, ma il pasto dovrebbe essere ancora buono. Un uomo adulto, seduto di fronte a me, assiste alla scena, e rivolge alla ragazzina uno sguardo di odio. Che schifo, vergognati. La prima volta che vedo una cosa simile penso di aver incrociato un matto. Poi succede di nuovo. Allora capisco che è quello il nuovo normale in città: l’odio verso chi chiede cibo e acqua, ma soprattutto l’odio verso chi offre cibo e acqua.

La carogna specifica e particolare di Milano – la rimozione di tutto quanto stonasse con la narrazione di una pseudocapitale europea, operosa e all’avanguardia – è uscita allo scoperto, è diventata visibile e materiale. Ed è cambiata. È diventata, per certi versi, una forma di militanza attiva.

“La Madonna che angoscia”, penso, tutte le volte. “Meno male che tra un po’ me ne vado”. Io non abito qui. In fondo qui ci sono soltanto la mia famiglia, il mio medico, la mia agenzia, i miei vecchi amici, le redazioni di alcuni giornali per cui scrivo. Posso farne a meno.

Ho raccontato la storia, a voce, soltanto dopo un breve viaggio in un altro paese: ho preso il treno in stazioni dove non circolavano uomini armati, dove nessuno mi ha chiesto o imposto di seguirlo, pur essendo, io, all’estero, una donna di pelle non bianca, una straniera, che parla inglese ma non la lingua del posto.

E comunque c’è il lieto fine, perché non solo io sono uscita da quella stanza senza finestre del cazzo, ma subito prima di essere rilasciata, quando la catena di umiliazioni poteva considerarsi chiusa, mentre il poliziotto mi stava allungando la carta d’identità e diceva “bene signora lei può” , io mi sono mossa troppo in fretta e dalla tasca del cappotto mi è scivolato fuori il cellulare, che è volato a terra spaccandosi in due, e ha fatto un rumore pazzesco, come uno scoppio. Ho alzato le mani sopra la testa e le ho tenute sollevate e ho ripetuto “non ho fatto niente, è caduto il telefono”, e almeno uno dei due militari stava facendo uno sforzo immane per non mettersi a ridere. Proprio come me. È per quello che mi ricordo di lui, aveva gli occhi azzurri.

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2 Commenti


  • Alberto Capece

    Ma che noia questo raccontino, questa specie di grande avventura sociale per la benestantissima “scrittrice” per meriti familiari, che scopre come vanno le cose nel mondo di sotto quasi fosse Alice nel Paese delle meraviglie. Dopo averci inflitto la sua personale ricostruzione dopo il periodo da alcolista nelle sontuose dimore milanesi, ci voleva questo bagno nella realtà comune . Certo si dà da fare o almeno così ci fa credere, fa domande ai poliziotti e ai capitrenonon e solo alle amiche e conoscenti dei quartieri alti sui porblemi esistenziali, con quelle movenze dello pseudofemminismo liberista. Ma poi pubblica da Mondadori perché noblesse oblige,e perché la figlia di Marco Bellocchio e Lella Ravasi non merita di meno, abcge sapesse fare solo le aste, perché alla fine bazzica peopeio quell’ambiente…E voi ci ammannite questo compitino patetico con un brillante stle liceale, l’ideale appunto per L’internazionale che purtroppo è espressione dell’elitarismo capiitalista più futile, ancorché pensoso. Ma per carità si poteva negare nientemeno che a Violetta Bellocchio ritornata da Marte una tribuna? Deus non vult.


    • Redazione Contropiano

      L’interesse del “noioso racconto” non sta nell’identità della protagonista, ma in quel che accade nonostante lei. L’attenzione va insomma rivolta al comportamento della polizia, che risalta per quel che è proprio perché si esercita su un soggetto “insolito”. In altri termini in questo caso non si può rovesciare sul “fermato” la responsabilità del comportamento vessatorio dei poliziotti. Punto. Aiuterebbe molto la capacità di distinguere cosa è centrale, in qualsiasi episodio, e cosa è secondario…

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