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Fermo, il razzista della porta accanto

Alla fine Amedeo Mancini l’ha anche ammesso: «Mi assumo la responsabilità morale, ma non quella giuridica» della morte di Emmanuel Chidi Namdi. Insomma, la battaglia legale sull’omicidio di Fermo avrà un suo sviluppo – com’è naturale che sia – ma quella politica pare essere arrivata ad un punto fermo: è lo stesso aggressore ad ammettere la natura del suo gesto.

A parità di razzismo, in pratica, Mancini si è dimostrato intellettualmente più onesto dei suoi improvvisati fan, quelli che stanno riempendo Twitter di #IoStoConAmedeo, quelli che continuano a cavillare sulla dinamica dei fatti, quelli che improvvisamente sono tutti diventati esperti anatomopatologi (tra l’altro, in assenza di perizia: l’autopsia non l’ha ancora resa nota nessuno, si sa solo quello che hanno fatto trapelare gli investigatori), quelli che se “Emmanuel non fosse mai venuto in Italia tutto questo non sarebbe mai successo”.

I problemi, si sa, cominciano sempre quando si mischia il punto giudiziario con quello politico: la storia non si scrive con le sentenze, la realtà è una cosa troppo importante per lasciarla a un dibattito tra Pm e avvocati nel nome delle procedure. Non che tutto questo sia di poca importanza – ci mancherebbe –, soltanto che bisognerebbe prendere atto del fatto che nei tribunali la verità è sempre parziale e molto spesso contraddittoria, visto che si parla di segmenti di tempo, di dimostrazioni, di indizi e di prove.

Al momento si dà per certo che Emmanuel e Mancini si siano picchiati, non si sa bene chi abbia cominciato ma si sa perfettamente che l’italiano ha esordito dando della «scimmia» alla moglie del nigeriano. Anche questo ha ammesso, dicendo di averlo fatto perché aveva pensato che i due stessero rubando una macchina.

Si sa anche che l’italiano indossava una maglietta degli Zeta Zero Alfa (il gruppo musicale di Casapound) e che esistono sue foto mentre partecipa ai banchetti organizzati a Fermo del Blocco Studentesco, organizzazione giovanile neofascista. Militanza nei gruppi di estrema destra conclamata e ragazzo africano morto. Il lettore attento avrà tutti gli elementi per capire da sé, sia nel caso in cui si parlerà di omicidio preterintenzionale (probabile) sia nel caso in cui si andrà a processo per eccesso di legittima difesa. In entrambi i casi la natura razzista del gesto violento rimarrà.

La scomparsa dei fatti non può coprire un’atmosfera pesantissima, un’aria fetida che siamo stati costretti a respirare nell’ultima settimana più che nelle precedenti. Perché sì, quell’aria c’è sempre stata: il razzismo è una di quelle cose che ci sono sempre «da prima». Non è che da martedì scorso – data della morte di Emmanuel – improvvisamente la placida provincia italiana s’è riscoperta razzista: il seme dell’odio c’è sempre stato, a Fermo come altrove. L’uomo nero viene dipinto a reti unificate come un terrorista, un invasore, un ladro, uno che porta via il lavoro e il welfare agli italiani. Carne da campagna elettorale, tanto gli africani nella maggior parte dei casi mica votano. Perché peggio di un fascista che ammazza un nigeriano c’è solo chi trova sempre un modo, un cavillo, un argomento per assolverlo o giustificarlo.

 

Mario Di Vito

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