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Germania vs resto d’Europa. Chi “exit” prima?

Lasciamo perdere le profezie e cerchiamo di disegnare degli scenari attendibili. Il proposito di fine-inizio anno è pressoché identico per molti analisti – noi compresi, in un certo senso – ma ovviamente divergono moltissimo sia le assunzioni di base che la valutazione del peso specifico dei diversi elementi concorrenti al mosaico. Ancora di più differiscono le “vie d'uscita” proposte per dare una soluzione a una crisi (globale) che dura da dieci anni, all'impasse dell'Unione Europea e al degrado inarrestabile dell'economia italiana.

Abbiamo preso a spunto l'articolo di Giovanni Pons – direttore dell'edizione italiana di Business Insider e firma di Repubblica – per evidenziare come alcuni temi presenti anche nella nostra riflessione e proposta siano oggettivamente al centro della riflessione che occorre compiere per delineare una credibile “linea antagonista” al potere della Troika e del capitale multinazionale, oggi strabordante.

In particolare, il tema dell'”exit” e dell'euro su cui tanti – da autorevoli esponenti della ex sinistra radical-parlamentare come da molti “antagonisti” decisamente più combattivi – hanno fin qui preferito ragionare in modo ideologico oppure strumentale, evitando accuratamente di misurarsi col problema concreto.

E' ormai chiaro a tutti che l'Unione Europea è una struttura sovranazionale che svuota di “sovranità” le popolazioni, prima che gli Stati. Lo si è visto nel caso della Grecia, dove un referendum contro i diktat della Troika, vinto con percentuale identica a quella sulla riforma anticostituzionale in Italia (60 a 40, grosso modo), è stato bellamente ignorato sia dai vertici dell'Eurozona (ed era scontato), sia dal governo Tsipras (e per qualcuno è stato una sorpresa, ma non per tutti).

Quello che è molto meno chiaro, perché meno studiato, è il sistema di meccanismi che regola questa sovra-istituzione antidemocratica e soprattutto l'articolazione degli interessi difesi ferocemente dalla burocrazia brussellese o francofortina (lato Bce). Al solo pronunciare la parola Italexit o fuori dall'euro la maggior parte preferisce recitare giaculatorie ideal-astratte sulla “comunità europea”, “i populismi”, “i vantaggi dell'Unione”, e via narrando. O addirittura “queste cose le dicono i populisti di destra”. Sbagliando, perché il blocco sociale dei Salvini o dellle Lepen non intende affatto rompere l'Unione, ma al massimo recuperare sovranità monetaria (nell'illusione che questo basti a far ripartire le esportazioni nazionali, come spera la piccola impresa di entrambi i paesi) e ovviamente incolpare gli immigrati della scarsità di posti di lavoro (a tutti consigliamo di leggere in proposito https://contropiano.org/news/news-economia/2016/12/30/killer-del-lavoro-nel-lungo-termine-non-la-cina-la-robotizzazione-087467). Cercano insomma un compromesso migliore con il capitale multinazionale e/o finanziario, non la rottura del meccanismo capitalistico.

Cosa ci dice l'articolo di Pons?

Secondo Soros la Germania ha reagito in maniera errata alla crisi finanziaria del 2008, imponendo un periodo di austerity invece che di rilancio economico, come fecero gli americani dopo la seconda guerra mondiale con il Piano Marshall. “Il Piano Marshall ha portato allo sviluppo della Ue mentre Berlino ha imposto un programma di austerità che ha servito solo il suo ristretto interesse particolare“. E ciò è sotto gli occhi di tutti: la Germania sta beneficiando costantemente di una moneta svalutata in quanto l’euro è più debole di come sarebbe oggi il marco. Così le merci tedesche sono più a buon mercato e guadagnano quote di mercato sui mercati esteri. Al contrario per l’Italia l’euro è più forte di come sarebbe la lira. L’area a cambi fissi può tenere solo se i surplus tedeschi venissero reinvestiti nelle aree più in difficoltà ma i tedeschi si guardano bene dal farlo così come non investono il loro surplus di bilancio per rilanciare i consumi interni alla Germania. Inoltre la politica espansiva di Draghi sta avvantaggiando in primo luogo proprio la Germania visto che le aziende tedesche possono finanziarsi a tassi vicini allo zero (le banche erogano credito poiché sono state risanate con 250 miliardi di soldi pubblici quando ciò era consentito dall’Europa) e spingere le produzioni. L’ultimo dato sull’inflazione tedesca, in crescita all’1,7%, benché spinta dai prezzi del petrolio sta a dimostare che è la Germania la maggiore beneficiaria dell’eurozona: i Paesi dell’area euro chiudono il 2016 con un timido +1,1%, mentre l’Italia ha salutato l’anno in deflazione per la prima volta dal 1959.

I trattati hanno stabilito regole solo teoricamente “uguali per tutti”. Le differenze storiche ed economiche tra i paesi europei, una volta stabilite certe regole, si trasformano in un moltiplicatore di vantaggi e svantaggi, ossia un moltiplicatore di disparità. Il tenore di vita delle varie popolazioni si andato perciò polarizzando – su base nazionale – esattamente come le differenze di reddito su base di classe: i poveri si impoveriscono, i ricchi si arricchiscono.

La moneta comune, lungi dall'essere solo una misura di valore uguale per tutti (non è questo il momento di addentrarci sulle molte funzioni della moneta), è diventata rapidissimamente un trampolino per l'economia tedesca e un ostacolo mortale per tutte le altre. Soprattutto per quelle euromediterranee, Francia compresa. Con la crisi, dal 2008, la dinamica si è drammaticamente divaricata, ma era visibile anche prima, sia pur su scala dimensionale e rapidità minori..

Di fatto, la narrazione che presentava l'Unione Europea come l'occasione per accorciare le distanze di benessere tra le diverse aree dell'Europa viene scardinata dalla realtà: quelle distanze stanno diventando voragini. E il peggio è che sono sono accorte anche le popolazioni, ormai…

E ancora:

Stando così le cose la mossa più sensata vedrebbe la Germania uscire dall’euro per tornare al marco tedesco, una valuta più forte rispetto all’euro a cui rimarrebbero aggrappati altri paesi europei come Francia, Italia, Spagna le cui economie viaggiano in maniera più coordinata. La Germania non vuole una maggiore integrazione europea, non vuole un ministro delle Finanze comune, gli eurobond, una difesa in comune, una politica fiscale comune. Se vuole solo avvantaggiarsi a danno degli altri paesi non è sbagliato parlare di Dexit. “L’idea che si possa ottenere la piena occupazione e la prosperità attraverso l’adozione di una severa politica di austerità è rifiutata dalla maggioranza degli economisti – ha detto il premio Nobel Joseph Stiglitz – ma questa sembra essere la visione prevalente nel governo federale edesco e specialmente del ministro delle Finanze”. L’austerità è il contrario di ciò che ha bisogno l’Europa, ha aggiunto. Concludendo: “La strada più semplice è che la Germania lasci l’Europa”.

Che dall'Unione e dall'euro esca la Germania o gli altri paesi europei, uno alla volta, fa naturalmente molta differenza sul piano concreto (l'uscita di un singolo paese debole non avverrebbe certamente a costo zero, e diventerebbe più tollerabile solo cambiando completamente le alleanze o i rapporti economici privilegiati a livello globale). Ma su piano analitico, del giudizio sull'Unione Europea così come è stata costruita dai trattati, il risultato non cambia. Questa macchina non tiene la strada, e ad ogni curva rischia di finire nel burrone o contro i guard rail. La conclusione di Pons è insomma una conclusione che cerca di tenere “il buono” dell'Unione eliminando “il danno” (il vantaggio competitivo immotivato a favore della Germania, che finisce per strozzare tutti gli altri partner). E' il tentativo di dare soluzione alla crisi di legittimità popolare e di funzionamento delle economie capitalistiche mantenendo inalterata la struttura delle relazioni sociali a favore del capitale.

La nostra visione è logicamente opposta, sul piano di classe. Ma è ovvio che se un'area euromediterranea (Francia compresa) è ipotizzabile dal punto di vista dei capitali oggi presenti in questa area, altrettanto – o forse anche di più – si può fare dal punto di vista delle classi e delle figure sociali che più hanno pagato due volte la crisi: un quota alla crisi generale, e un supplemento per l'”austerità” a favore del capitale tedesco.

Se si riuscisse a iniziare a ragionare sulla realtà che c'è – a fare insomma l'analisi concreta della situazione concreta, invece che ideologia senza sostanza – il processo di aggregazione delle soggettività di classe farebbe decisamente un “grande balzo” in avanti.

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La Germania esca dall’euro e smetta di approfittare delle debolezze italiane

I rapporti tra Italia e Germania nel campo della politica e dell’economia stanno diventando sempre più difficili ed è possibile che nel 2017 lo saranno ancora di più visto che sarà un anno cruciale per la sopravvivenza dell’eurozona con elezioni politiche in Olanda, Francia, Germania e, forse, anche Italia. La sensazione è che i tedeschi siano preoccupati per una possibile deriva italiana, causata dall’arrivo di un governo populista che mandi i conti pubblici fuori controllo e promuova l’uscita dell’Italia dall’euro. L’interesse dei tedeschi è invece quello di mantenere il regime dell’euro così come è, visto che li avvantaggia sotto molti profili, ma tenendo l’Italia sotto tutela, in modo da non dover mai condividere alcun salvataggio pubblico o, ancor peggio, consolidare a livello europeo l’ingente debito pubblico italiano.

IL CASO MPS

La pessima gestione del caso Mps da parte delle autorità italiane non ha fatto altro che trasferire maggior potere negoziale alla Germania. L’aver trascinato fino all’estremo la decisione di un intervento pubblico nella banca senese ha indebolito tutto il sistema bancario italiano attraverso la perdita di valore di tutti i titoli a Piazza Affari (tra 50 e 60 miliardi la perdita di capitalizzazione delle principali banche quotate) ed esposto il fianco a bacchettate da parte della Vigilanza della Bce, guidata dalla francese Danièle Nouy con cipiglio tedesco. Prima il no a una proroga di 20 giorni comunicata attraverso un “leak” alla Reuters che ha fatto crollare le azioni Mps in Borsa, poi la comunicazione della Bce sul deflusso di liquidità di oltre 6 miliardi da fine novembre in poi, fatto in grado di autoalimentare una corsa agli sportelli. Quindi la comunicazione, sempre della Bce e senza consultazione preventiva con le autorità italiane, della necessità di 8,8 miliardi per il salvataggio del Monte contro i 5 fino ad allora preventivati. Notizia che ha fatto fare la figura dei pivelli sia ai vertici della banca sia ai tecnici del Mef. “Sarebbe stato più gentile avvertirci prima”, ha detto candidamente Pier Carlo Padoan al Sole 24 Ore. A parte il fatto che la Bce è un’autorità indipendente e non deve comunicare preventivamente con nessuno, men che meno con un organo politico di un paese membro, pochi semplici calcoli dimostrano che l’effetto negativo di quella comunicazione è molto più ampio delle sue conseguenze pratiche.

Quei 3,8 miliardi richiesti in più derivano dal fatto che vengono a mancare i soldi del fondo Atlante (1,6 miliardi per la tranche mezzanina della cartolarizzazione delle sofferenze) e dalla richiesta di ripristinare una tranche di bond subordinati che inizialmente scompaiono per effetto della conversione obbligatoria. Ma si tratta di circa 2 miliardi in più di emissioni che si accollerebbe il Tesoro a valori molto bassi e che in futuro possono essere rivenduti sul mercato con profitto così come le azioni Mps che lo stato acquisterà.

NON C’E’ LUCE IN FONDO AL TUNNEL

Tutti questi ultimi avvenimenti, incluso il monito di Weidmann, governatore della Bundesbank, che ha chiesto alla Ue di verificare se vi siano le condizioni per utilizzare soldi pubblici per il Montepaschi, rendono l’idea di come l’Italia sia stretta nella morsa tedesca dalla quale Padoan e i suoi tecnici, a partire dal direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via – un uomo indicato da Draghi ma finora ininfluente nelle trattative che contano – non riescono a divincolarsi. Padoan sa bene che i soldi impiegati per Mps andranno ad aumentare il debito pubblico il quale dovrebbe essere abbattuto con le privatizzazioni che però sinora sono rimaste al palo (si cercherà di collocare la seconda tranche di Poste al più presto). E che la manovra del 2017 deve già trovare 19 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva. Dunque gli spazi per dare impulso alla crescita economica si sono molto ristretti e senza crescita l’Italia non riesce a uscire dal tunnel.

NE’ CRESCITA NE’ RIFORME

Tutto ciò accade in una fase in cui occorrerebbe autorevolezza e credibilità per contrastare la visione economica dominante in Europa che ruota intorno alle “riforme strutturali”, unica via per ottenere la ripresa.  “La teoria alla base di questa convinzione è che le riforme aumentano l’efficienza e la competitività e consentono la ripresa economica anche se i governi tagliano le pensioni, i servizi sanitari, e altre spese sociali per abbattere i debiti e guadagnarsi la fiducia dei mercati”, ha scritto Mark Weisbrot, Co-direttore del Centro di Ricerca Politica ed Economica di Washington, D.C, per Business Insider. Renzi ha fatto parte di questo consenso, il Jobs Act ha seguito questo filone ma finora non ha dato i risultati sperati e le urne l’hanno punito. E qui sta il punto: poiché il recupero di produttività dell’Italia per via interna sta risultando molto più difficile di quel che si pensasse e sperasse, ecco che prende vigore la corrente di pensiero che vorrebbe il Belpaese abbandonare l’euro per poter svalutare la lira e recuperare, come si faceva un tempo, la competitività e la ripresa attraverso maggiori esportazioni.

LA DISGREGAZIONE E’ POSSIBILE

Il 2017 potrebbe dunque diventare l’anno cruciale per la sopravvivenza o meno dell’eurozona. Un operatore di mercato accorto come George Soros ha recentemente scritto che “Con la crescita economica che va a rilento e la crisi dei rifugiati fuori controllo, l’Unione europea è sul punto di rottura ed è destinata a subire un’esperienza simile a quella dell’Unione Sovietica nei primi anni ’90”. Starà speculando contro l’euro così come fece con la sterlina nel 1992? Forse,  ma è un dato di fatto che tra la negoziazione sulla Brexit e le elezioni politiche olandesi a marzo, quelle francesi a maggio, quelle tedesche a settembre e, forse, quelle italiane il 2017 rappresenterà un test cruciale per l’euro. E l’Italia rappresenta l’anello debole della catena. “Il tenore di vita in Italia è allo stesso livello del 2000. Se ciò non cambia gli italiani a un certo punto diranno: “Vogliamo uscire dall’eurozona”, ha dichiarato a un quotidiano Clemens Fuest, capo dell’Ifo, think tank economico tedesco. Aggiungendo che i tedeschi non approveranno mai alcun piano di salvataggio per l’Italia che possa pesare sui loro conti pubblici.

LA MIOPIA DELLA GERMANIA

Secondo Soros la Germania ha reagito in maniera errata alla crisi finanziaria del 2008, imponendo un periodo di austerity invece che di rilancio economico, come fecero gli americani dopo la seconda guerra mondiale con il Piano Marshall. “Il Piano Marshall ha portato allo sviluppo della Ue mentre Berlino ha imposto un programma di austerità che ha servito solo il suo ristretto interesse particolare“. E ciò è sotto gli occhi di tutti: la Germania sta beneficiando costantemente di una moneta svalutata in quanto l’euro è più debole di come sarebbe oggi il marco. Così le merci tedesche sono più a buon mercato e guadagnano quote di mercato sui mercati esteri. Al contrario per l’Italia l’euro è più forte di come sarebbe la lira. L’area a cambi fissi può tenere solo se i surplus tedeschi venissero reinvestiti nelle aree più in difficoltà ma i tedeschi si guardano bene dal farlo così come non investono il loro surplus di bilancio per rilanciare i consumi interni alla Germania. Inoltre la politica espansiva di Draghi sta avvantaggiando in primo luogo proprio la Germania visto che le aziende tedesche possono finanziarsi a tassi vicini allo zero (le banche erogano credito poiché sono state risanate con 250 miliardi di soldi pubblici quando ciò era consentito dall’Europa) e spingere le produzioni. L’ultimo dato sull’inflazione tedesca, in crescita all’1,7%, benché spinta dai prezzi del petrolio sta a dimostare che è la Germania la maggiore beneficiaria dell’eurozona: i Paesi dell’area euro chiudono il 2016 con un timido +1,1%, mentre l’Italia ha salutato l’anno in deflazione per la prima volta dal 1959.

OLTRE L’AUSTERITY

Stando così le cose la mossa più sensata vedrebbe la Germania uscire dall’euro per tornare al marco tedesco, una valuta più forte rispetto all’euro a cui rimarrebbero aggrappati altri paesi europei come Francia, Italia, Spagna le cui economie viaggiano in maniera più coordinata. La Germania non vuole una maggiore integrazione europea, non vuole un ministro delle Finanze comune, gli eurobond, una difesa in comune, una politica fiscale comune. Se vuole solo avvantaggiarsi a danno degli altri paesi non è sbagliato parlare di Dexit. “L’idea che si possa ottenere la piena occupazione e la prosperità attraverso l’adozione di una severa politica di austerità è rifiutata dalla maggioranza degli economisti – ha detto il premio Nobel Joseph Stiglitz – ma questa sembra essere la visione prevalente nel governo federale edesco e specialmente del ministro delle Finanze”. L’austerità è il contrario di ciò che ha bisogno l’Europa, ha aggiunto. Concludendo: “La strada più semplice è che la Germania lasci l’Europa”.

Certo, è politicamente difficile arrivare a questo risultato. Il governo Renzi che da settembre scorso aveva mosso critiche alla rigidità delle regole europee è stato spazzato via dal referendum. E non sembra che il governo Gentiloni sia in grado di alzare la voce con i tedeschi più del suo predecessore. L’unica via d’uscita a una situazione così complicata potrebbe emergere dalle prossime elezioni nei principali paesi europei se queste fossero in grado di produrre governi alleati tra di loro in grado di far cambiare direzione alla rigida dottrina economica tedesca. Ma al momento sembra più un’utopia che una possibilità.

da https://it.businessinsider.com

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1 Commento


  • Niceforo Foca

    Noi piccoli risparmiatori cosa dobbiamo aspettarci?

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