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Quanto sta male il giornalismo? Intervista a Lazzaro Pappagallo

Una ottima iniziativa di Radio Città Aperta, che vuole mettere sotto osservazione il lavoro giornalistico – quello dei media ufficiali o mainstream – in un periodo in cui l’autonomia e l’indipendenza del “quarto potere” sembrano messi veramente in discussione. E non temporaneamente.

La campagna #obiettivoinformazione si articolerà su una serie di interviste a giornalisti che hanno un ruolo istituzionale nella categoria, o che possono vantare una condotta professionale di alto profilo. La radio è insomma consapevole che “il tesserino” non garantisce di per sé una qualità corrispondente a quello che la deontologia professionale raccomanda.

L’iniziativa è partita da un momento di sincero stupore. Quello seguito all’assoluto silenzio mediatico su una manifestazione nazionale (quella dell’11 novembre) e uno sciopero generale (il 10), tranne che per i soliti “problemi di traffico urbano”. Negli stessi giorni, tutta la stampa nazionale sembrava aver spostato la sede a Ostia. Per un fatto grave, certamente, ma “coperto” in modo piuttosto esagerato (come quantità) e altrettanto povero come qualità (i rapporti tra gli Spada e CasaPound sono stati presto messi da parte, come si trattasse di una casualità).

Ma restiamo a quello che ci interessava di più, ossia la due giorni di mobilitazione.

Com’è stato possibile che tutti – ma proprio tutti – i quotidiani, le televisioni pubbliche e private, e persino le radio di ogni ordine e grado, abbiamo potuto considerare una “non notizia” due giornate del genere? Capiamo perfettamente – è il nostro mestiere, in fondo – che ogni valutazione giornalistica è soggettiva. Non individuale, ma redazionale. Interviene dunque nella valutazione dell’importanza di un fatto sia la proprietà del medium (che ha investito denaro per ottenere determinati risultati), sia il posizionamento politico della direzione (coerente con il posizionamento della prorietà).

Il pluralismo dell’informazione presuppone che ci siano molti media, diverse proprietà, diversi percorsi professionali dei componenti del desk, ossia dell’ufficio centrale di ogni redazione, quello che coordina il lavoro di redattori e collaboratori esterni.

Un pluralismo effettivo, non solo formale, dovrebbe dunque produrre risultati diversi da testata a testata, valutazioni differenti su ogni singola notizia. Fanno eccezione i “grandi eventi”, le guerre e le catastrofi (l’11 settembre 2001, per esempio), ecc. Ma per il resto è persino interesse di ogni singola testata “differenziare il prodotto” rispetto ai diretti concorrenti. E’ “il mercato”, no?

Nel caso del 10-11 novembre, invece, tutti si sono comportati esattamente nello stesso modo: ignorando. Il che è giornalisticamente incredibile. Non pensiamo certamente che tutti la dovessero mettere in prima pagina (anche se magari sarebbe stato bene avvertire i lettori-cittadini che lo sciopero generale avrebbe creato loro alcuni problemi, o che la manifestazione nazionale vedeva in piazza partiti storici, un tempo presenti in Parlamento, oltre a soggetti- chiave come il sindacato Usb, in grande crescita). Ma è assolutamente incredibile che tutte le testate abbiano potuto esprimere la stessa identica valutazione “spontaneamente”. Per dirla ironicamente, potevano se non altro parlarne male… Ma non c’erano “quei drogati dei centri sociali”, né si potevano evocare i black bloc. Dunque non c’era un format prestampato in cui iscrivere quelle migliaia di lavoratori, pensionati, disoccupati, migranti, ecc, che avevano deciso di metteresi in movimento. Non potendo criminalizzare, insomma, si poteva soltanto tacere.

Subito dopo abbiamo avuto la “marcia della dignità” di un folto gruppo di richiedenti asilo nel kampo di Cona. Anche qui silenzio, il primo giorno; poi servizi a pioggia dopo che uno di loro, in bicicletta, era rimasto ucciso in un incidente stradale.

Inevitabile che salga alla mente una domanda: ma insomma, vi interessa soltanto il morto? Oppure avete bisogno di una testata sul naso per accorgervi che la realtà esiste e non vi obbedisce?

Perdonateci la veemenza, ma vedendo quanto spazio è stato dato a un gruppuscolo fascista numericamente quasi inesistente come CasaPound, prima e dopo che un pregiudicato loro amico esibisse una “testata” d’altra natura…

Poi, nei giorni successivi c’è stata l’inchiesta di Nicola Borzi, de IlSole24Ore, sui conti ovviamente segreti dei servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza, che servivano a pagare – tra gli altri – un gran numero di giornalisti e/o conduttori di trasmissioni infotainment alla Rai e in tv private. Infotainment, ossia “programma televisivo o iniziativa culturale che coniuga l’informazione con l’intrattenimento”. Insomma, contenitori in cui l’informazione serve a far spettacolo, a costruire “narrazioni” divertenti o spaventanti. Frullatori dove le “cinque w” sacre a ogni cronista scompaiono a favore del “colore”, dal “fare audience”. Contenitori che – magicamente – da qualche mese hanno sdoganato fascisti d’ogni risma, a partire ovviamente dagli immancabili “coglioni ninja” che si nascondono sotto il carapace di una tartaruga.

Coincidenze, certo…

Quello sfortunato giornalista de IlSole deve aver scoperchiato una cloaca piuttosto maxima, se la Guardia di Finanza è stata inviata dalla Procura di Roma a distruggergli l’archivio (non a farsi consegnare una copia della documentazione, ma ad “azzerare tutto”, giga accumulati in decenni di lavoro).

E allora, ogni giorno che passa, sembra più necessario condurre una seria campagna su #obiettivoinformazione. Perché nessun avanzamento è possibile se non si individua con esattezza qual’è la vera fornte della disinformazione in questo paese. Ma non soltanto in questo…

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Eccoci allora per il nostro spazio di approfondimento, spazio di approfondimento che lancia oggi una nostra campagna che mette al centro dell’attenzione lo stato dell’informazione nel nostro paese. Campagna caratterizzata dall’hastag #obiettivoinformazione.

Il primo ospite all’interno della campagna è Lazzaro Pappagallo, segretario dell’associazione Stampa Romana. Buongiorno.

Buongiorno a voi.

Come dicevo, l’obiettivo è un po’ fare il punto sullo stato del giornalismo, dell’informazione, nel nostro paese. Lo spunto ci è venuto dai fatti ormai notissimi di Ostia di un paio di settimane fa. In particolare dalla grande attenzione che è stata riservata a una vicenda pur grave, come quella avvenuta nel X municipio romano, ma che invece è stata completamente ignorata dalla maggior parte del sistema informativo del nostro paese. Noi in quei giorni seguivamo, molto da vicino, una due giorni di mobilitazione, uno sciopero generale e una manifestazione che si è tenuta a Roma, decisamente più consistente, dobbiamo dire, di quella di Ostia. Lo spunto è venuto un po’ da qui. Ci aiuta un po’ ad interpretare?

Diciamo che l’informazione ha diverse colpe e, tra queste colpe, anche quella di non raccontare quanto accade davanti ai propri occhi. Quindi quello che tu richiami, cioè l’incapacità di leggere e di coprire, di raccontare esattamente quello che accade e anche gli spunti di novità che arrivano da quello che accade, è sicuramente una nostra colpa. E, se vuoi, fa anche un po’ il paio con quanto è successo ad Ostia, perché probabilmente quel tipo di reazione è anche innescata dalla disabitudine a vedere rischi in quelle zone, quindi quando poi tu ti affacci la realtà, in quel caso la realtà è paracriminale e così colpita dal vederti da reagire in quel modo balordo che abbiano potuto tutti quanti ammirare e rilanciare per N volte in televisione, sui social, dovunque, con quella testata …

L’impressione però è un po’ che forse dare tanta così tanta visibilità ad un fatto che, appunto, è riprovevole come quello di Ostia, non so se alla fine il rischio alla fine sia fare il gioco di chi invece la testata si trova a darla, non nel caso in particolare ma un po’ in generale. Non ha questa impressione?

Guarda, io purtroppo ho l’impressione invece del muro di gomma. Il dato elettorale di Ostia mi ha preoccupato subito dopo il primo turno, mi ha ancora di più preoccupato dopo il secondo turno, perché pensavo che ci potesse essere, anche in seguito ad un episodio – se vuoi – rilanciato anche troppe volte, uno scatto d’orgoglio, un risveglio di coscienza, un dire “ok, anche di fronte a quel tipo di alternativa, mi alzo la mattina e vado a votare”. Se tu sei passato, a distanza di 15 giorni, dal 36 al 33% dei votanti c’è un problema, non piccolo, di agibililtà democratica in questo paese. E questa è una cosa che come Stampa Romana, come segretario di Stampa Romana, mi “perplime” e mi rende molto molto non solo perplesso ma anche leggermente impaurito sulla tenuta del nostro paese.

I fatti, ancora una volta ci riferiamo a quelli di Ostia, hanno portato ad una reazione che ha coinvolto anche il mondo dell’informazione, nel senso che poi la manifestazione che è stata convocata è stata convocata, tra gli altri, dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana. Per carità, comprensibile e condivisibile, ma la situazione di Ostia forse non era nota e non meritava di essere segnalata e messa al centro dell’attenzione ben prima e per ben altri fatti, dobbiamo dire più gravi di una testata?

Ed hai perfettamente ragione. E’ il paradosso di questi nostri tempi. Sono tempi in cui hai una pluralità di voci informative – penso semplicemente a tutto quello che passa sui social, sia che sia vero sia che sia falso quello che passa sui social, ma sicuramente è una vetrina enorme di informazione – però hai ragione tu, il problema che poi ti trovi di fronte a queste sorprese quando invece avresti dovuto coprire il territorio, quando avresti dovuto raccontare gli scioperi… Per dirti oggi (24 novembre) è una giornata importante più che per il Black Friday, dal mio punto di vista, per il fatto che c’è uno sciopero importantissimo in un’area delicata, anche per gli svilluppi del nostro paese, che è lo sciopero dei dipendenti di Amazon. Ecco su questo, magari, più che fare un trafiletto di quattro righe mi sarebbe piaciuto che magari qualche telegiornale anche importante ci aprisse. Perché quando poi non riconosci i momenti importanti, anche di tensione, nel nostro paese, non gli dai riconoscibilità, poi quelle robe lì prima o poi ti esplodono in mano nel modo più inatteso, oppure diventa una tua colpa il fatto di non averle inseguite, di non averle coperte in modo adeguato.

E’ un po’ questo che ci ha mosso la curiosità, dandoci lo stimolo a iniziare questa serie di approfondimenti. Riavvolgo un po’ il nastro, torno a quello che dicevo in fase di introduzione. Il 10 e l’11 novembre, esattamente nei giorni dei fatti di Ostia, a Roma c’erano circa 10 mila persone che erano in piazza, per motivazioni precise, in modo totalmente pacifico. Come è possibile che non si sia trovato il modo di dare il minimo spazio a rivendicazioni di un settore sociale presente nel “sistema Italia”.

Ti potrei dire che gli editori, evidentemente, non erano interessati da quel tipo di protesta, oppure erano infastiditi da quel tipo di protesta. Ecco perché io penso che – dato che le tensioni e i bisogni ci sono e sono espressi in quel modo – è necessario che chi ha quei tipi di bisogni inizi a far sentire la propria voce anche dal punto di vista mediatico. Cioè, tradotto: se tu non riesci a farti coprire dal Messaggero, ti devi inventare una rete di comunicazione in grado di coprire i tuoi bisogni. E questa è la sfida un po’ per tutti noi… Altrimenti sei in un atteggiamento nel quale tu dici “ok, però poi alla fine è colpa della stampa brutta e cattiva”. E sarà sicuramente così. Però, dato che quei bisogni ci sono, io penso che ci sia anche un pubblico di lettori vicino a quei bisogni … evidentemente deve pure nascere qualcosa che va ad intercettare, a prendere, a raccontare quei bisogni.

Chiarissimo. In chiusura, anche se è difficile farlo in poche parole, che bilancio lei potrebbe fare sullo stato del giornalismo oggi in Italia?

Io non sono completamente pessimista, perché secondo me il digitale – con tutti i suoi problemi, con tutte le sue incognite – rappresenta una sfida importante. Una sfida di comunicazione e di voglia di partecipazione da parte anche dei giovani, che conoscono quello come alfabeto, come codice di riconoscimento. Quello che temo – innanzitutto rispetto al nostro ruolo professionale sempre più precario, sempre in calo – con tanti lavoratori del nostro settore che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, con tanti lavoratori autonomi, tanti lavoratori che non hanno le garanzie del contratto… E questo lo lego al nostro ruolo sociale e democratico. Sarà un discorso di “casta”, sarà un discorso di privilegio, ma per me non lo è. Perché un cattivo giornalismo produce una cattiva democrazia. Un giornalismo “buono”, e quindi un giornalismo composto da lavoratori che sono discretamente pagati, che sono garantiti, produce una qualità migliore per la nostra democrazia. Io, lì, vedo dei segnali anche pericolosi. Non sono negativo rispetto alla prospettiva dei mezzi e degli strumenti a disposizione… Però ci deve essere una presa di coscienza di tutti, a cominciare dalla politica, che l’Italia, se vuole essere un paese solido e robusto da un punto di vista democratico, ha bisogno di una categoria di giornalisti solida e robusta, anche da un punto di vista economico, sindacale e contrattuale.

Chiaro. Non potremmo essere più d’accordo. Grazie a Lazzaro Pappagallo per il suo contributo, per il suo tempo.

Grazie a voi.

Foto di Patrizia Cortellessa

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