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Valerio Verbano, noi non dimentichiamo

Oggi sono trentotto anni da quando Valerio Verbano non c’è più. Aveva diciannove anni, Valerio. Era solo un ragazzo. Amava lo sport e la musica, i Beatles e i Pink Floyd, soprattutto. Impazziva per la Roma. Un ragazzo normale, che a diciannove anni si divide tra lo studio, i suoi interessi e la sua più grande passione: la politica.

Il pomeriggio di quel 22 febbraio 1980, tre persone si presentano a casa Verbano. Parlano con i genitori di Valerio, dicono di essere suoi amici e di doverlo vedere, così lo aspettano in casa. Ma quelli non sono amici. Immobilizzano i genitori nella loro stanza da letto e quando Valerio, poco prima delle 14, rientra, i tre lo aggrediscono. Durante la colluttazione uno degli aggressori perde la pistola, Valerio cerca la fuga provando a scappare dalla finestra. Ma non ci riesce, un proiettile lo colpisce alle spalle, gli perfora l’intestino. E lo uccide.

A più di trent’anni di distanza, l’omicidio di Valerio Verbano non ha ancora colpevoli. Le indagini svolte nell’immediato furono sommarie, incapaci addirittura di inquadrare da quale area, all’interno dell’attivismo fascista romano, provenissero i responsabili. Vi sono state, negli anni, confessioni ed indicazioni fornite agli inquirenti da parte di ex militanti, pentiti, dell’estrema destra romana, alcune delle quali appaiono più come tentativi, spesso riusciti, di depistaggio, che non come informazioni utili allo sviluppo delle indagini.

E poi c’è quello che – forse impropriamente – viene definito il Dossier NAR. Valerio aveva portato avanti personalmente delle indagini su alcuni gruppi dell’eversione di destra, in particolare i Nuclei Armati Rivoluzionari e Terza Posizione. Il dossier raccoglieva informazioni sui militanti dell’estremismo di destra, con nomi, foto, amicizie politiche e legami con apparati statali.

Un anno prima di essere ucciso, nell’aprile del 1979, Valerio era stato con l’accusa di fabbricazione di materiale incendiario, e il dossier era finito nel materiale sequestrato dalle forze dell’ordine. I documenti, custoditi negli archivi della polizia, scomparirono misteriosamente ed i coniugi Verbano, che erano a conoscenza dell’esistenza del dossier, ne denunciarono la scomparsa. Scomparsa che sarà ufficializzata solo nell’ottobre dell’anno successivo, dopo la morte di Valerio, quando la famiglia chiederà il dissequestro del materiale in possesso delle forze dell’ordine, senza tuttavia riuscire ad avere indietro il dossier. Il dossier non c’è, non si trova. E l’omicidio, ancora oggi, resta impunito.

Eppure c’è chi continua a lottare perché la verità emerga. Gli amici e i compagni di Valerio, ad esempio. E Carla, soprattutto. Carla era sua madre. Aveva 56 anni quando quel colpo di pistola cambiò brutalmente la sua vita. Ma non ha mai smesso, fino a quando qualche anno fa se n’è andata, di cercare la verità. Lo ha fatto con coraggio, sopportando il dolore per un figlio che non c’è più e la frustrazione di non trovare risposte. Sopportando la violenza e la barbarie di chi, periodicamente, sporca con vernice nera la lapide dedicata a Valerio e posta proprio sotto casa sua; lo ha fatto ricordandoci, ogni giorno, che l’antifascismo è ancora un valore, un insegnamento valido oggi più che mai; lo ha fatto sfidando ripetutamente gli assassini di suo figlio, invitandoli ad andare da lei, a “guardarla negli occhi”. Così, diceva, avrebbe saputo riconoscerli. Perché mai avrebbe potuto dimenticare quello sguardo sotto quel passamontagna.

Ecco, il coraggio di Carla è una lezione. E un promemoria. Ci insegna a non tirarci indietro, a lottare fino in fondo per quello che riteniamo importante. E ci ricorda che trentotto anni fa un ragazzo di diciannove anni è stato ucciso, giustiziato dentro casa sua, e ancora oggi la sua morte resta senza colpevoli.

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1 Commento


  • Alessandro

    Chissà come mai non c’è nessuna Amnesty che mette gli striscioni per Verbano, mentre ne riempe le città per Regeni.

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