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Italia. Una silenziosa “secessione reale”

Sembrano lontani gli anni della minaccia leghista della secessione della Padania, declinata poi con il federalismo introdotto nel 2001 nel Titolo V della Costituzione grazie al centro-sinistra, ma respinta nella sua versione come “Devolution” nel 2006 con un referendum costituzionale. Eppure in questi mesi, a cavallo tra le fine dell’esecutivo Gentiloni e l’arrivo del nuovo governo, i realizzatori “della secessione reale” hanno lavorato apertamente e stanno sistematizzando un apparato legislativo che sancirà, di fatto, una asimmetria inquietante nelle condizioni sociali e di vita tra chi vive in alcune regione del Nord e il resto del paese, con effetti pesantissimi soprattutto sul Meridione.

I referendum sull’autonomia celebratisi quasi un anno fa in Lombardia e Veneto, ai quali si è accodata – ma senza referendum – l’Emilia-Romagna (mentre qualcosa si agita anche in Toscana), hanno prodotto una situazione per cui queste regioni avranno la possibilità di decidere su una ventina di materie finora appannaggio dello Stato. Una convergenza bipartizan tra Lega e Pd che dovrebbe far riflettere.

La Regione Veneto, ad esempio, ha chiesto di avere potere esclusivo su materie che vanno dall’offerta formativa scolastica (potendo anche scegliere gli insegnanti su base regionale), ai contributi alle scuole private, i fondi per l’edilizia scolastica, il diritto allo studio e la formazione universitaria, la cassa integrazione guadagni, la programmazione dei flussi migratori, la previdenza complementare, i contratti con il personale sanitario, i fondi per il sostegno alle imprese, le Soprintendenze, le valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio, le concessioni per l’idroelettrico e lo stoccaggio del gas, le autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, la protezione civile, i Vigili del fuoco, strade, autostrade, porti e aeroporti (inclusa una zona franca), la partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, la promozione all’estero, l’Istat, il Corecom (comitato regionale di controllo) al posto dell’Agcom (autority per le comunicazioni), le professioni non ordinistiche. Infine, ma non certo per importanza, c’è la questione fiscale con la pretesa delle regioni “autonome” di trattenere il gettito fiscale senza partecipare alla redistribuzione nazionale a cui è destinata la fiscalità generale. Nei fatti lo Stato verrebbe espropriato della competenza tutti i grandi servizi pubblici nazionali e verrebbe meno qualsiasi possibile programmazione infrastrutturale comune a tutto il Paese.

Gli effetti di questa secessione reale misurano varie grandezze. Ci sono le grandi ambizioni dei governatori di Lombardia e Veneto e le piccole ambizioni dei campanili. Italia Oggi riferisce di un esponente della Lega, Valter Zanetta, che è riuscito ad ottenere un referendum per staccare la provincia di Verbano-Cusio-Ossola dal Piemonte e annetterla alla Lombardia. Zanetta, in vista del referendum (si svolgerà il 21 ottobre), spiega consapevolmente gli effetti di questa operazione: “Il Piemonte rischia di non avere un futuro, mentre la Lombardia, di fatto, è uno Stato. E con i nuovi spazi di manovra concessi in seguito al referendum sull’autonomia può garantire ancor di più chi ne fa parte”.

La concezione della Lombardia come uno “stato autonomo” da quello centrale, in realtà sta marciando da tempo e con un passo felpato che ha sostituito le rodomontate sulla Padania.

Come abbiamo denunciato e documentato da tempo sul nostro giornale, da anni va avanti un processo “centrifugo” che vede alcune aree del paese (in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) marciare in proprio e alimentare una asimmetria che sta “meridionalizzando” tutto il resto del paese. Un Italia che diventa Baviera al nord e Grecia al Sud. Con effetti sociali e politici devastanti.

In queste tre regioni del nord si concentra l’80% dell’export e del valore aggiunto prodotto dalle imprese. Un modello di successo dovuto alla laboriosità? Piuttosto un risultato agevolato anche dal continuo afflusso di risorse economiche ed umane da parte del resto del paese e dallo Stato. I finanziamenti pubblici arrivati in queste aree da tempo superano quelle redistribuite nel Meridione. E’ stato un processo silenzioso ma reale che da un anno a questa parte è diventato più rumoroso e sta diventando realtà.

Più volte abbiamo sottolineato come questo processo sia stato incentivato nei fatti dalla divisione del lavoro realizzata all’interno dell’Eurozona e dell’Unione Europea. Le aree del nordest lavorano in strettissima connessione con la filiera produttiva tedesca estendendo a dismisura il sistema della sub-fornitura. L’attrazione magnetica delle regioni italiane più ricche verso il nucleo duro centrale europeo (basti pensare alle euroregioni) è diventato via via più potente in questi anni di totale obbedienza ai diktat della Ue.

Pochi sembrano aver prestato a tutto questo la dovuta attenzione, mentre forze centrifughe e poteri forti logoravano le prerogative dello Stato e la sua funzione di redistribuzione delle risorse e attenzione alla coesione sociale del paese, una “mission costituzionale” che il Patto di Stabilità europeo, nazionale e locale ha demolito, fino a introdurre nel 2012 nella stessa Costituzione quell’art.81 (obbligo del pareggio di bilancio) imposto dalla Bce e votato da tutti i partiti di centro-sinistra e centro-destra.

Al momento l’unica reazione politica è stata una petizione lanciata da Gianfranco Viesti, economista e docente dell’università di Bari e che ha raccolta circa seimila firme. Il comitato promotore della petizione è composto per lo più da docenti universitari ma l’hanno sottoscritta anche alcuni esponenti politici, tra cui Saverio de Bonis e Maria Marzana, parlamentari M5s, Roberto Speranza, deputato LeU, Elena Gentile e Andrea Cozzolino, eurodeputati Pd, Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, Luigi Famiglietti e Eugenio Marino della direzione Pd, Miguel Gotor, ex senatore Pd.

Alcuni di questi firmatari sono giovani e magari non hanno determinato le scelte fatte dai governi del centro-sinistra dagli anni ‘90 al secondo governo Prodi. Ma alcuni, ad esempio, erano in parlamento quando è stato votata l’introduzione dell’art.81 in Costituzione.

Una volta dichiarata la nostra totale opposizione a questa secessione reale del paese perseguita dalla Lega, dai suoi governatori e dalla borghesia “imprenditoriale” delle regioni del nordest, non possiamo esimerci dal rammentare a tutti che il grimaldello rimane quella legge sul federalismo del 2001 approvata con referendum confermativo (al quale fummo tra i pochissimi a votare NO) e che porta il nome di Bassanini. Aver inseguito allora la Lega sul suo terreno invece che difendere le prerogative dello Stato (anche a brutto muso), è una delle cause per cui oggi il ceto politico e sociale più reazionario ed egoista è al governo. Tant’è che regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana (più defilato per ora è il Piemonte) stanno perseguendo la strada di Lombardia e Veneto.

E’  tempo che si prenda coscienza del pericolo di questa secessione reale, possibilmente non solo nel Meridione, e si cominci ad agire concretamente per invertire un processo del quale va colta, nel merito, tutta la gravità. La parola d’ordine delle nazionalizzazioni contiene in sè un elemento generale e generalizzabile che va gestito in termini democratici, di classe e di riaffermazione della coesione e dell’uguaglianza in questo paese. Ma anche su questo è difficile immaginare il Pd come “compagno di strada” nella battaglia.

 

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