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Scienza e guerra. Prosegue la discussione

Una risposta alle osservazioni di Vincenzo Brandi.

«La questione se al pensiero umano appartenga la verità oggettiva non è una questione teorica ma pratica. È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica»

[Karl Marx, seconda tesi su Feuerbach]

Le osservazioni critiche di Vincenzo Brandi al mio articolo “Scienza e Guerra” sono certo utili per sviluppare un dibattito che appare necessario, anche se sembra dimostrare che 50 anni di critica, costruttiva e attiva, fondata sul materialismo storico di Marx non ha lasciato una traccia duratura. Le mie risposte purtroppo non possono essere sintetiche perché è necessario entrare nel merito di varie questioni.

Una prima annotazione, che non ha una rilevanza centrale ma rientra nelle incomprensioni. Io per brevità mi sono limitato a citare Archimede e Lazare Carnot (che Brandi definisce esempi “poco felici”, avrei potuto citare molti altri) da un lato per dare l’idea che il problema è molto antico riferendomi a un personaggio storicamente famoso, e dall’altro approfittando per citare una figura, Lazare (del quale mi sono occupato molto in passato), che è poco conosciuta ma estremamente rilevante sul piano sia scientifico che politico e militare.

Non avevo minimamente intenzione di dare giudizi di valore o morali. Avrei potuto citare il Nobel per la chimica Fritz Haber (del quale pure mi sono occupato) il quale convinse lo Stato Maggiore ad impiegare gas tossici, vietati dalla Convenzione dell’Aja, di cui la Germania era firmataria: sotto la sua direzione fu creata nel 1915 prima unità di Gastruppe, Haber supervisionò personalmente i preparativi per l’attacco di gas tossico vicino alla città belga di Ypres, 22 aprile 1915; alla fine della guerra erano circa 1.000 i chimici impiegati nelle armi chimiche (per la cronaca collaborò occasionalmente anche il Nobel per la fisica Walther Nernst), un precedente di 20 anni, poco noto, della Big Science del Progetto Manhattan. Forse Haber era semplicemente un “patriota”!?

Sarebbe lungo qui replicare alle considerazioni di Brandi sulla lettera di Einstein a Roosvelt e sull’impegno degli scienziati, sia statunitensi che di altri paesi, per realizzare la bomba: Einstein si pentì poi di aver firmato quella lettera, famosi fisici si rifiutarono di lavorare al progetto (esempio Franco Rasetti, che dopo la guerra abbandonò la fisica), Niels Bohr si adoperò verso Roosvelt e Churcill per una collaborazione con i sovietici (Churchill disse che Bohr era una persona pericolosa e “dovrebbe essere messo sotto controllo”).

Nel 1943 fu chiaro che i nazisti non sarebbero giunti a fare la bomba e si diffuse la consapevolezza della “inutilità” della bomba per il fine di precedere i nazisti, Joseph Rotblat abbandonò il progetto per motivi di coscienza (Nobel per la Pace 1995). Il fisico James Frank stilò un rapporto, firmato da Szilard e da altri 5 fisici, in cui chiedeva che non si usasse la bomba e proponeva un controllo internazionale su queste armi (come Bohr). Alla vigilia di Hiroshima un sotto-comitato scientifico sull’utilizzazione della bomba composto da Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Ernest Lawrence e Arthur Compton, riconobbe l’obbligo di “salvare vite americane” e concluse “non vediamo nessuna alternativa accettabile all’impiego militare diretto”! Penso non si debba insistere sulla cinica inutilità delle bombe sul Giappone, per le quali gli storici hanno abbastanza chiarito che l’obiettivo non era “salvare vite di soldati statunitensi”, ma ottenere la resa prima che l’Armata Rossa avanzasse troppo in Asia[1].

La biografia di Fermi scritta da Segre riporta che dopo il “Trinity test” del 16 luglio 1945 alcuni fisici espressero perplessità, ma Fermi (che forse si capirà non riscuote le mie simpatie come persona) esclamò “Lasciatemi in pace con le vostre remore, è una fisica così bella!”: ecco, conoscendo gli scienziati, io ritengo che si attagli a molti di loro (ma si sa, sono un estremista).

Anche se non molto pertinente al tema, ma viste le affermazioni perentorie di Brandi, dissento radicalmente dal giudizio che “la situazione di equilibrio (della Guerra Fredda, che io giudico demenziale) abbia mantenuto di fatto la pace per 40 anni”: l’Apocalisse nucleare è stata evitata in modo fortuito in tanti casi di falsi allarmi – come l’eroismo di ufficiali che si sono assunti la pesantissima responsabilità di non scatenare la ritorsione “d’obbligo” per allarmi ancora non annullati (Vassili Arkhipov e William Bassett indipendentemente il 27 ottobre 1962[2], Stanislav Petrov nel 1983) – o errori dei sistemi di rilevamento, o chip difettosi (https://buntekuh.it/societa/falsi-allarmi-guerra-nucleare/). Noam Chomsky ha detto “Se siamo vivi è solo per miracolo”.

Mi stupisce infine, o non comprendo, il giudizio di Brandi sulle velleità degli appelli al disarmo nucleare, pur se riconosce “che non tengano conto del contesto in cui le conoscenze scientifiche sono utilizzate per fini militari” (ma non è proprio questo che io dico?): penso che farei un torto a Brandi ricordando il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari approvato il 7 luglio 2017 all’ONU che con 50 ratifiche (siamo a 35) entrerà nel Diritto Internazionale, nonché per altro verso che l’alternativa è una guerra nucleare il cui rischio non è mai stato così alto dal 1945! (https://thebulletin.org/2019/01/it-is-still-2-minutes-to-midnight/). Potrebbe non esserci il tempo per la “variazione decisa del contesto politico” che auspica Brandi?! In 2 anni la campagna ICAN ci ha fatto fare passi che apparivano irrealizzabili, e il merito è stata una Campagna della società civile iniziata poco più di 10 anni fa: “ican”, “io posso”, tutti insieme possiamo, non vedo alternativa a rafforzare la Campagna, i milioni di giovani che si mobilitano sono un tramite fortissimo.

Mi sono dilungato anche troppo sul primo punto delle considerazioni di Brandi (ma come essere più sintetico?), ma come anche lui dichiara non è questo il punto centrale.

E qui francamente, e senza alcuna offesa, è triste che 50 anni di lavoro di critica della Scienza – che ha riempito di contenuti concreti la “non neutralità” sessantottina con un’analisi metodologica precisa e una ricostruzione storico materialista delle grandi svolte della scienza moderna – sembrino saltate a piè pari! Certo non posso pretendere che tutti conoscano il classico “L’Ape e l’Architetto, Paradigmi Scientifici e Materialismo Storico” del 1976 (Brandi dice che c’era, comunque è stato ristampato nel 2011, e Marco D’Eramo lo salutò con la recensione “Quando la sinistra non fu più scientista”,  https://www.francoangeli.it/Recensioni/211p5_R2.pdf: ma è ancora vero?), ma mi sembra francamente poco costruttivo (non vorrei dire irrispettoso per la memoria di Cini) riprendere formulazioni che usavano prima di allora, o fare un fascio con Marcuse o Horkheimer.

È sicuramente legittimo dissentire dalla caterva di lavoro molto serio e impegnativo che è stato prodotto da allora, ma se si intende pronunciarsi mi sembra per lo meno serio conoscerlo, almeno a grandi linee. “Entra in crisi” scrive Cini “la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali”. E lo sperimentammo concretamente negli anni ‘80 quando un pugno di noi (con Mattioli e Scalia, Enzo Tiezzi, Giorgio Ferrari) ci scontrammo non solo con le idee sviluppiste del PCI e dei sindacati, ma con la quasi totalità dei fisici, ingegneri, tecnici che sostenevano che il nucleare era il progresso, ed opporvisi era oscurantista.

Ma anche qui devo osservare con fortissima preoccupazione che i nuclearisti “a volte ritornano” (rinvio al bellissimo articolo di Giorgio Ferrari sul Manifesto, “La lobby del nucleare nel gioco della transizione energetica”, 7 dicembre 2019, https://ilmanifesto.it/cop25-la-lobby-del-nucleare-nel-gioco-della-transizione-energetica/).

La mia formulazione che Brandi riporta fra virgolette non è assolutamente Rousseauiana o francofortiana o marcusiana (apprezzammo Marcuse ma lo criticammo anche per questo), ma storico materialistica, quel materialismo storico – non critica romantica alla scienza, ma con valenza pratica, basta ricordare “L’Ideologia Tedesca” – dal quale Marx mosse per la critica dell’economia politica, e che dagli anni ‘70 con un forte nucleo di fisici ed altri studiosi abbiamo declinato per l’analisi storico materialistica delle Scienze della Natura (Baracca e Rossi, “Marxismo e Scienze Naturali, per una Storia Integrale delle Scienze”, De Donato, 1976): sarebbe troppo lungo qui sviluppare qui il mio concetto che Brandi riporta, e non l’avevo fatto perché lo avevo ripreso un anno fa, quando nel 200o di Marx nessun convegno ha (a mio parere indecentemente) neanche citato il termine scienza! È molto eloquente, Marx non ha nulla a che fare con la Scienza!  (Baracca, “Attualità di Marx: cosa possiamo dire di nuovo sulla Scienza dal punto di vista del materialismo storico?”, Marxismo Oggi, https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/278-attualita-di-marx-che-cosa-possiamo-dire-di-nuovo-sulla-scienza-dal-punto-di-vista-del-materialismo-storico).

Per essere espliciti (anche se tanti giovani forse non coglieranno, e mi scuso se è una forzatura) le posizioni di Brandi ricordano per me quelle della scuola di Geymonat, alla quale noi ci contrapponemmo (senza disconoscere il ruolo positivo di Geymonat nell’arretrata situazione italiana del dopoguerra) e con la quale avemmo aspre polemiche (come si ritrova ad esempio ne “L’Ape e l’Architetto”, che non a caso Lucio Colletti e Giovanni Berlinguer stroncarono): il nostro lavoro pluri-decennale non è stato un impegno accademico, ma un impegno di “battaglia politica” (come dicono Giovanni Ciccotti e Michelangelo De Maria nella nuova edizione, anche se non mi piace il termine “battaglia”).

Un’accesa battaglia politica che portò anche a cambiamenti nei programmi e nella prassi scientifica che oggi forse appaiono scontati: per questo, e per i meno giovani che non hanno vissuto quei processi, ho sentito la necessità qualche anno fa di ricostruirne le fasi e le molteplici articolazioni (Baracca e Flavio Del Santo, “La giovane generazione dei fisici e il rinnovamento delle scienze in Italia negli anni Settanta”, Altro 900, http://www.fondazionemicheletti.it/Altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=34&tipo_articolo=d_saggi&id=357).

Per quella che Brandi dice la seconda parte del discorso, noi apprezzammo (a differenza di lui) Kuhn per il concetto, allora nuovo, che la Scienza evolve non per accumulazioni di conoscenze ma attraverso rivoluzioni che cambiano radicalmente i paradigmi complessivi (concetto che riprendo da lui), ma lo criticammo per la mancanza della dimensione economica e sociale, e ci rifacemmo appunto a Marx.

Non vi è dubbio la Scienza abbia una base sperimentale, ma la Natura alla quale gli scienziati si rifanno, le finalità con le quali lo fanno, i canoni con cui la interpretano, mutano profondamente con il mutare delle condizioni economico sociali. Noi non concepiamo una Natura immutabile (lo sarà anche, “la natura è sempre quella” dice Brandi, ma è per noi un problema squisitamente epistemologico, indubbiamente legittimo ma inessenziale per le nostre analisi), la centralità è il Rapporto storicamente e socialmente determinato che l’Uomo stabilisce con la Natura nelle diverse formazioni economico sociali (con A. Rossi ci siamo ispirati alle astrazioni storicamente determinate del marxista un po’, ingiustamente, dimenticato Galvano della Volpe): l’Uomo come essere sociale si rapporta alla Natura in forme storicamente determinate, la struttura sociale condiziona i paradigmi scientifici.

Ritengo artificioso e forzato voler pensare che la Natura che concepisce e interpreta Newton sia la stessa che vedono e interpretano Einstein o Bohr (io non sono studioso della storia della relatività, ma della quantistica, e a questa mi riferirò). Newton (e il meccanicismo dell’800) la vedono attraverso la “lente” dei processi meccanici, e questo condiziona pesantemente le formulazioni scientifiche, Einstein e Bohr (pur con profonde differenze) attingono a livelli di astrazione e formalizzazione che non sono in alcun modo traducibili in termini meccanici: è a mio parere fuorviante, e ostacola la comprensione sostanziale, dire che è la Natura che richiede concezioni che fanno a pugni fra loro. È una forzatura scientista negare il ruolo determinante della mutata situazione sociale e economica nella trattazione dei processi fisici e chimici.

Sono costretto per spiegarmi a entrare in qualche dettaglio scientifico, perché questa discussione dimostra che non ci si capisce se si parla in termini generici, e mi scuso con i lettori che ne sono digiuni.

Già ne “L’Ape e l’Architetto” Elisabetta Donini e Giovanni Ciccotti (Cap. 4, “Sviluppo e crisi del meccanicismo: da Boltzmann a Planck”) contestavano le ricostruzioni correnti della nascita della Meccanica Quantistica. Personalmente ho dedicato anni criticando l’inadeguatezza delle concezioni correnti sella crisi del meccanicismo ottocentesco, e riconduendo le ragioni della crisi dei modelli meccanici allo sviluppo della IIa  Rivoluzione Industriale in Germania, nella quale prima nella chimica che nella fisica i modelli meccanici non erano applicabili alle reazioni chimiche, e i chimici svilupparono la termodinamica teorica (il primo saggio fu nel 1979 Baracca, Ruffo e Russo, “Scienza e Industria 1848-1915, gli Sviluppi Scientifici connessi alla IIa  Rivoluzione Industriale”, Laterza, 1979).

In qualche dettaglio, è storicamente falso che Planck abbia introdotto i quanti di energia nel 1900 per il motivo che Rayleigh con l’equipartizione non spiegava lo spettro del corpo nero: la lettura del breve lavoro di Rayleigh mostra chiaramente che non vi compare assolutamente quella che è nota come la “Formula di Rayleigh”, che egli non ha MAI scritto, o per lo meno concepito come legge dello spettro elettromagnetico. Planck non conosceva neppure il lavoro di Rayleigh, il suo programma di ricerca era radicalmente diverso e indipendente, egli aveva già abbandonato i modelli meccanici e ricorreva a concetti termodinamici.

I fondatori delle prime teorie quantistiche (Einsten, Nernst, ecc.) adottarono modelli termodinamici: leggere i fenomeni fisici con la lente della termodinamica significa vedere una Natura diversa da quella che vedeva Maxwell con i suoi complessi meccanismi che lo storico Cardwell paragonava ai macchinari dell’età vittoriana. Riprendendo un paragone che ho udito da Cini, un processo complesso non si comprende come si rimontano le parti di un meccanismo.

Senza dubbio è legittimo reclamare che la Natura è sempre la stessa, ma non è a mio avviso il punto, per capire il superamento dei modelli meccanici non bastano i paradossi, certo importanti, che questi sollevavano a fine 800: la lente con cui Maxwell vedeva e interpretava i fenomeni naturali venne saltata a piè pari con la formalizzazione e l’astrazione l’adozione proprie delle concezioni termodinamiche statistiche. Fu un cambiamento radicale di paradigma.

Potrei aggiungere da ultimo che dagli anni Settanta ho tradotto l’impostazione che qui sostengo in impostazioni didattiche innovative: i miei allievi sarebbero i più indicati per dire se il mio Manuale Critico di Meccanica Statistica del 1979, impostato secondo questa concezione (sicuramente il solo che cita Marx, Lenin e Rosa Luxemburg, ma anche il grande storico della tecnologia David Landes; e Giorgio Parisi accettò di scrivere un’appendice), riesca a fornire un’interpretazione del ricorso a metodi statistici più convincente dell’affermazione implicita che sono imposti dalla natura dei processi macroscopici.

Rimarrebbe un ultimo punto, la responsabilità degli scienziati. Non rispondo semplicemente a Brandi. A me sembra artificioso l’argomento tradizionale che (schematizzo) lo scienziato indaga la natura e non ha nessuna responsabilità per l’uso che viene fatto (dalla società) delle sue scoperte.

Lo scienziato è in tutto e per tutto uomo (o donna) del suo tempo, condivide le impostazioni culturali e le finalità sociali. Fa parte nella maggioranza dei casi della classe dominante, e i fenomeni di cui si occupa sono di solito quelli rilevanti per lo sviluppo sociale (capitalistico). Pensare che non condivida la responsabilità della valenza sociale delle sue conoscenze mi sembra molto artificioso: gli avanzamenti scientifici sono serviti ad aumentare lo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro umano (il profitto), non, di solito, ad alleviarlo. Hanno una precisa valenza sociale ed economica.

Se inoltre una porzione crescente degli scienziati si è dedicata a studiare e realizzare armi sempre più micidiali, questa è una scelta di questi scienziati, non vedo come si possa pensare che non ne portino la responsabilità. Gli scienziati, che costituiscono la Scienza.

Quanto all’impostazione di fondo della scienza nella società capitalistica, se (per limitarmi ai soli esempi che ho portato) gli scienziati creano in laboratorio virus che non sono mai esistiti in 4 miliardi di anni di evoluzione biologica e capaci di saltare da una specie a un’altra, o innovazioni informatiche che compromettono la sicurezza dei sistemi nucleari (cyber sicurezza), o realizzano il 5G mettendolo a disposizione delle multinazionali senza imporre che vengano testate a fondo le conseguenze e implicazioni, non riesco davvero a vedere come questi scienziati non condividano le responsabilità per le conseguenze delle loro ricerche e realizzazioni.

Credo nell’attualità e validità di quanto scriveva Marx nella Critica al Programma di Gotha (Samonà e Savelli, 1968, p. 31). Parafrasando, “Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consiste la ricchezza reale!) come il lavoro”. Tuttavia, “Solo in quanto l’uomo si ritiene, fin da principio, proprietario della natura, fonte principale di tutti i mezzi e oggetti di lavoro e li tratta come cosa che gli appartiene, il suo lavoro diventa fonte dei valori d’uso, dunque anche di ricchezza”. Ma se una parte di uomini, e donne (lavoratori) della natura sono proprietari solo della propria forza-lavoro mentre il resto appartiene ai capitalisti, allora il lavoro produce povertà e sfruttamento per i primi e ricchezza per gli altri. Ma se gli scienziati, per lo meno in stragrande maggioranza, indagano e modificano la natura per potenziarne lo sfruttamento, aumentano la “ricchezza per gli altri” (i capitalisti), accentuando per converso lo sfruttamento della forza-lavoro, come si può pensare che non condividano quanto meno la responsabilità delle conseguenze dei loro risultati?! Nell’ipotesi più indulgente si potrebbe dire che i capitalisti sono i mandanti e gli scienziati gli esecutori: ma al più potrebbe essere un’attenuante, che non annulla la responsabilità. Il libero arbitrio esiste ancora, e qualsiasi scelta implica un’assunzione di responsabilità degli effetti che produce, anche qualora non siano intenzionali.

Non riesco a concepire il motivo per cui, anche a sinistra, si riconosca la responsabilità di tutte le azioni umane, ma si persista nell’escludere la responsabilità delle scelte scientifiche: responsabilità che non è certo della natura che entra nelle conoscenze, ma delle scelte di campo degli scienziati.

Caro Vincenzo, so bene ormai che nelle discussioni avviene molto raramente che uno convinca l’altro. Nel nostro caso so dall’esperienza di mezzo secolo (ho avuto scontri feroci con Enrico Bellone) che è difficile se non impossibile capirsi con chi riamane legato alla concezione della Scienza come conoscenza indipendente dai processi sociali: credo semplicemente che adottiamo due prospettive diverse, che privilegiano aspetti differenti, e non sono comunicanti.

E vedo da altri segnali (per me tristemente) che nel campo della “sinistra” ritorna in auge il concetto di progresso intrinseco della conoscenza scientifica. Mi auguro solo che l’elaborazione che ho ricordato abbia lasciato una traccia recuperabile che con la nuova ondata di mobilitazioni possa ispirare le nuove generazioni, senza vincolarle a vecchie diatribe

[1]    . R. Pauwels, Il Mito della Guerra Buona, Datanews, 2003, pp. 151-52 (per maggiori dettagli Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam. The Use of the Atomic Bomb and the American Confrontation with Soviet Power, 1965).

[2]      . Baracca, “Il 27 ottobre 1962 Vassili Arkhipov salvò il mondo dall’olocausto nucleare, 21 anni prima di Stanislav Petrov“, 27.10.2018, Pressenza, https://www.pressenza.com/it/2018/10/il-27-ottobre-1962-vassili-arkhipov-salvo-il-mondo-dallolocausto-nucleare-21-anni-prima-di-stanislav-petrov/ (il 7 giugno scorso facemmo a Roma un incontro pubblico su questo).

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