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Bit e sharing economy: un attacco feudale ai lavoratori

Il 10 maggio scorso la campagna Noi Restiamo è tornata al Politecnico di Torino, per dare continuità al percorso di riflessione e dibattito sugli impatti sociali delle nuove tecnologie intrapreso con la precedente iniziativa del 26 gennaio.

La rete, il suo ruolo nella vita sociale, le sue interpretazioni (critiche o ideologiche) sono state l’argomento affrontato da Carlo Formenti e Juan Carlos De Martin. La retorica che s’accompagna alla cosiddetta “società dell’informazione e della conoscenza”, indica un processo storico concreto: la rivoluzione che la civiltà digitale ha operato nel mondo culturale, economico e lavorativo. Ma qual è la chiave per interpretare criticamente le nuove configurazioni assunte dal tardocapitalismo in questi trent’anni di rivoluzione digitale? Quali sono le dinamiche sociali che si nascondono dietro la nuova retorica del progresso in cui tutto – lavoro, diritti, politica – sembra smaterializzarsi in un flusso di bit?

Non esiste una sfera autonoma della tecnologia, ha sottolineato Formenti nel suo intervento: i processi economici, sociali, culturali da una parte, e le trasformazioni tecnologiche nel mondo digitale sono realtà interconnesse tra loro. Dalla rivoluzione industriale del XIX secolo, è luogo comune della cultura contemporanea e di tutte le successive rivoluzioni industriali che la meccanizzazione sia un valore positivo in sé. Ogni progresso nel processo produttivo, ossia ogni fase di questo ridotta a meccanizzazione è un avanzamento per tutta la società. Questo caposaldo sembra vacillare di fronte alle conseguenze della rivoluzione digitale: un rapporto della Banca d’Inghilterra ha mostrato come gli effetti a medio e lungo termine delle innovazioni digitali non colpiscano più unicamente i lavori di tipo esecutivo ma anche e soprattutto le mansioni più qualificate e ad alto contenuto professionale, oggi in parte rimpiazzabili dai software e dalle intelligenze artificiali. I lavoratori a rischio hanno la prospettiva di essere riassorbiti nel sistema produttivo in condizioni di maggior precariato, con lavori a più bassa qualifica e retribuzione. Il range tra vertice e base è destinato ad aumentare.

La New Economy presenta caratteristiche peculiari. In primo luogo, il rapporto fra capitalizzazione e numero di dipendenti: Uber (come Google, Facebook, Amazon…), fa un ricorso sempre meno ampio a dipendenti diretti, decentrando il processo produttivo in reti di lavoratori legati all’azienda più o meno direttamente attraverso catene di subfornitura (si veda il numero esorbitante di sviluppatori Android). Secondo: il modello dell’indipendent contractor, riedizione post-moderna dell’imprenditore di sé stesso che cerca di emergere sfruttando il proprio capitale sociale e reti di relazioni private. Ne seguono frantumazione e dispersione della forza lavoro, perseguimento della competitività attraverso un gioco al ribasso nella vendita della propria forza lavoro, più che facendo leva sulla competenza. Esempio, i dipendenti di Uber: si tratta per lo più maestri di scuole elementari e medie, pensionati, precari che lavorando per Uber s’addossano tutti gli svantaggi dell’imprenditore indipendente (responsabilità di ciò che avviene ai passeggeri, costo della benzina, assicurazione e manutenzione della macchina), senza avere, d’altra parte, nessuna delle tutele di cui godono i lavoratori dipendenti (nessun salario minimo, nessuna tutela dei diritti di fronte ai controlli di rating).

Da dove vengono i profitti di Uber? C’è un nuovo tipo di intermediazione. Uber ha un fondo virtuale valorizzato dal lavoro sociale. Grazie a sistemi di geolocalizzazione e disintermediazione prodotti socialmente e già esistenti, nella cui elaborazione Uber non ha avuto alcun ruolo, al lavoro sociale viene data la possibilità di mettere a frutto le possibilità offerte dalla rete.

Airbnb come Uber utilizza proprietà già esistenti creando un’interfaccia da cui ricava parte della rendita dell’affitto illudendo una classe medio bassa (generalmente giovanile) di poter godere di questo tipo di servizi a basso costo ignorando lo sfruttamento di chi sta ancora più in basso. Tutto ciò porta, nel mondo del lavoro, a una complessiva disarticolazione dei punti di forza della classe lavoratrice e, in conseguenza d’un inaudito spostamento dei rapporti di forza a favore della classe dominante, a una sorta di neofeudalesimo in cui il controllo sociale, che fa leva sui prodotti tecnologici della rivoluzione digitale, è orientato alla massima estrazione di valore dal lavoro.

Sono sempre più numerosi infatti i device indossabili in grado di monitorare il funzionamento dell’organismo per ottenere prestazioni lavorative sempre maggiori e che vedono un’adesione volontaria e entusiastica da parte di chi viene sfruttato, garantita dalla costruzione totale di un mondo e di un soggetto lavorativo anche e soprattutto attraverso nuove tecnologie che, per la facilità d’uso e manipolazione, sembrano essere percepite sempre più come una seconda natura.

Di fatto, le nuove tecnologie si sono rivelate perfettamente funzionali ad un disegno politico volto a distruggere la forza contrattuale delle classi lavoratrici e ad accelerare i processi di liberalizzazione di diversi settori. Non è possibile sperare di utilizzare la sharing economy a favore dei lavoratori, senza sviluppare una strategia politica complessiva che sappia opporsi a questi processi più ampi.

De Martin ha commentato i punti toccati da Formenti nel proprio intervento, partendo dal presupposto pienamente condiviso che non si dà analisi dell’innovazione tecnologica che prescinda dal contesto politico e sociale in cui essa ha luogo. Così, per quanto riguarda la rivoluzione di Uber, il docente del Politecnico ha messo in luce come la crisi del tradizionale servizio offerto dai taxi sia la manifestazione superficiale d’un cambiamento avvenuto a livello sociale e politico. E’ venuto meno un modello complessivo di società, delineatosi nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, fondato su alti livelli di servizi pubblici, tra cui un sistema di trasporto pubblico capillare che rispondeva alle esigenze delle classi popolari, cui si affiancava il taxi come mezzo di trasporto riservato a una élite benestante. La crisi del trasporto pubblico, il progressivo prosciugamento dei fondi a esso destinati e l’assenza di modelli alternativi gestiti dal pubblico hanno creato un vuoto in cui le esigenze di mobilità a basso costo hanno trovato solo la risposta neoliberista di Uber, con tutto ciò che una simile soluzione comporta dal punto di vista lavorativo. C’è inoltre un problema di privacy e controllo sociale. Gli algoritmi che vengono utilizzati permettono, per far corrispondere domanda e offerta, anche il continuo controllo della posizione dell’utente e del guidatore in tempo reale. Anche la privacy e l’anonimato che i taxi tradizionali garantivano con il pagamento in contanti viene meno: Uber permette esclusivamente il pagamento del servizio con carta di credito. Le informazioni personali ricavate da carte e localizzazione GPS vengono convogliate e conservate nei big data. Una chiosa indicativa, quella di De Martin, per farsi un’idea delle potenzialità di controllo sociale insite anche nei servizi più banali e quotidiani erogati dal capitalismo 2.0.

Tanti gli studenti presenti, martedì come il 26 gennaio. Il ruolo delle nuove tecnologie nelle dinamiche sociali e nella vita di tutti i giorni è la base su cui abbiamo organizzato e organizzeremo la nostra azione al Politecnico: questo tema, su cui si muovono tante e fondamentali dinamiche del tardo capitalismo (e della sua ideologia) è anche il campo su cui vogliamo formarci e formare criticamente. Nel dibattito e nel confronto, costruiamo il passaggio dalle competenze alla coscienza, dalla coscienza all’azione.


Noi Restiamo Torino

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