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Tecnologia e “sinistra”, è ora di rompere l’incantesimo

Nella trattazione ormai quotidiana della cosiddetta “innovazione tecnologica”, due questioni collegano saldamente le opinioni con cui capita, salvo rare eccezioni, di confrontarsi: l’irreversibilità e il carattere intrinsecamente neutrale del “progresso” tecnico, con relative ricadute che i due fattori generano nella società in cui viviamo.

Se non stupisce che opinionisti e commentatori conformati al pensiero dominante fondino la propria trattazione sui due presupposti poc’anzi citati, più inconsueto è verificare che anche a sinistra quei fondamenti siano assunti acriticamente per buoni e dibattuti collettivamente soltanto in forma marginale, nella speranza o convinzione di poterli, al massimo, governare nella loro “inarrestabile” avanzata.

Nel caso della sinistra liberal-democratica questa “tara” è spiegabile con l’assimilazione del pensiero borghese operato a partire dal secondo dopo guerra (nel caso italiano sarebbe fondamentale riflettere sulle storture interpretative del pensiero gramsciano in seno al PCI, che ha scambiato il concetto di egemonia con quello di compatibilità).

Per quel che riguarda, invece, la galassia dei vari antagonismi, quell’interpretazione è riconducibile alla diffusione delle teorie operaiste, con particolare accento alle successive elaborazioni negriane che, penso si possa affermarlo a distanza di molti anni dalla loro enunciazione, in merito al ruolo liberatorio quasi salvifico della tecnologia soprattutto informatica, generarono un equivoco di portata colossale, ponendo nel campo progressista quelle che allora si configuravano come le avanguardie più avanzate del modo di produzione capitalista.

Il germe è stato tanto dirompente da far assurgere i miliardari del web a visionari fabbricanti del progresso umano piuttosto che a nuova generazione di padroni, certamente non più del vapore o delle ferriere ma di imperi che, per quanto materialmente impalpabili (solo alle nostre latitudini, nelle fabbriche Foxxcon la percezione è un po’ differente…), si sono rivelati più pervasivi e coercitivi di uno stabilimento siderurgico a ciclo continuo.

Stante la proprietà privata – oggi esclusiva – di mezzi di produzione e ricerca, quindi, lo sviluppo tecnologico non possiede alcuna neutralità, in quanto prodotto del capitale per la valorizzazione esponenziale di se stesso.

Diventa, quindi, fondamentale, a sinistra, infondere energie nell’analisi dialettica tra tecnologia e masse subalterne, al fine di sottrarre l’innovazione dalla sfera del profitto per incanalarla verso le necessità degli ultimi.

In questo senso, l’approvazione in cui capita d’imbattersi in merito alle affermazioni di Bill Gates sulla necessità di tassare i robot per istituire il reddito di cittadinanza o alle dichiarazioni di Elon Musk che evoca scenari da Terminator nel progresso della robotica e delle tecnologie di machine learning/intelligenza artificiale, non è condivisibile.

A fronte della crescente marginalizzazione del lavoro umano che lo sviluppo tecnologico sta imprimendo in ogni settore produttivo (ultimo in ordine di tempo quello agricolo come puntualmente argomentato da Francesco Piccioni in questo articolo), è consolatorio credere che sia sufficientemente tassare “i robot” (sarebbe più corretto parlare di automazione in senso lato) per risolvere o arginare considerevolmente il problema, sempre meno ipotetico, della disoccupazione tecnologica di massa, in particolare a fronte di un sistema scolastico pubblico in dismissione e sempre meno orientato ad una crescita culturale e intellettuale del singolo che sia finalizzata allo sviluppo sociale collettivo.

Scritto altrimenti, con i modelli culturalmente poveri e smaccatamente individualisti che vanno per la maggiore oggi, come si pensa spenderanno il tempo le masse del domani dotate di un misero reddito di cittadinanza e null’altro?

Chi sostiene simili tesi, dunque, lo fa per interesse (come il mr Gates la cui proposta, tra le righe auspica la creazione di un bacino enorme di cittadini a basso reddito comunque economicamente in grado di consumare i servizi delle multinazionali tecnologiche come quella da lui fondata) oppure non comprende che senza proprietà pubblica (e stante le sperimentazioni latino americane, preciserei anche democratica e condivisa) degli strumenti tecnologici, non ci sarà mai alcuna liberazione dalle catene del lavoro ma anzi, diverrà ancora più esteso il processo di messa a valore dell’individualità di ognuno di noi; i social network in questo caso sono un esempio da manuale che demolisce qualsivoglia declinazione del pensiero tecno-entusiasta.

Parimenti, anche quelli che vengono definiti processi di machine learning sono da smitizzare, a partire dei termini.

La nomenclatura inglese è certamente d’impatto (soprattutto nella cultura italiana ha interiorizzato un provincialismo spaventoso nei confronti di tutto quanto sia di matrice anglosassone), ma ciò non toglie che dietro il velo della “macchina che apprende autonomamente” ci sia un più banale – come “pensiero filosofico”, non certo a livello tecnico – universo di affinamento logico e matematico degli algoritmi che regolano il funzionamento di qualsivoglia dispositivo automatizzato, dal braccio meccanico della linea di produzione automobilistica, al trattore che si guida da solo, dal drone militare, al robot per l’assistenza “domestica” (1).

La messa a punto incessante di prodotti sempre nuovi all’interno delle categorie poc’anzi citate, oltretutto, riporta in discussione il tema di cosa produrre e a quale fine. Il pensiero marxista dovrebbe fornire gli strumenti necessari per prendere atto che tutte le declinazioni tecnologiche che hanno investito la società a partire dalla crisi di accumulazione del modello fordista di metà anni ’70 del secolo scorso, hanno avuto come obiettivo esclusivo il superamento da parte del capitale di quella crisi. Le derivate sociali di quell’avanzamento tecnologico non sono dunque state la stella polare di quel processo e si potrebbe disquisire molto sulla loro effettiva carica progressista.

Proprio quest’ultimo potrebbe essere un punto di ripartenza della discussione, anche con l’obiettivo di recuperare nel nostro campo quelle fasce di proletariato che manifestano la propria insofferenza solo con lo sfogo nelle reti sociali nel più becero – e lacerante a livello di classe – stile da Napalm51.

Note

(1) In questo specifico settore le criticità della materia vengono forse più facilmente al pettine, a titolo esemplificativo consiglio una breve documentazione sull’ultimo pubblicizzatissimo nato in campo italiano nel settore: R1 dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

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