Il Dipartimento delle frontiere del Servizio di sicurezza russo (FSB) ha stabilito di predisporre controlli di confine (cessati dal 2011) nelle regioni russe a diretto contatto con la Bielorussia: Smolensk, Brjansk e Pskov. La disposizione fa seguito alla risoluzione del presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko sul permesso di ingresso senza visto (per un massimo di 5 giorni) attraverso l'aeroporto di Minsk, per i cittadini di 80 paesi, tra cui UE, Brasile, USA, Indonesia e Giappone. La disposizione del FSB “è volta a creare le condizioni necessarie alla protezione del confine di Stato russo nel settore russo-bielorusso e alla prevenzione della criminalità”, sottintesa la possibilità che cittadini di altri paesi, attraverso la Bielorussia, si introducano in territorio russo, nonostante Minsk abbia assicurato che non consentirà l'ingresso in Russia alle persone prive di visto. Secondo Interfax, la misura non dovrebbe avere conseguenze per i cittadini russi; il fatto è che, in base all'accordo sul cosiddetto Stato unitario di Russia e Bielorussia (entrato in vigore nel 2000) le frontiere esterne di esso corrispondono ai confini che i due paesi hanno in comune con altri stati. Una volta entrato in vigore l'ukaz di Lukašenko (il prossimo 12 febbraio), teoricamente, chiunque entri in Bielorussia senza visto, può tranquillamente portarsi anche in Russia. E Mosca adotta le misure appropriate.
Sarà un caso che, proprio ieri, l'agenzia regnum.ru, tornasse sulle recenti dichiarazioni di Lukašenko a proposito dell'Ucraina “in lotta per l'indipendenza” e scrivesse che Mosca si atteggia con comprensione al desiderio di indipendenza della Bielorussia, analogo a quello della “fraterna Ucraina” del dopo-2014. Il Cremlino, a quanto pare, non se la prenderà se Minsk, come sembra, deciderà di uscire dall'Unione economica euroasiatica (Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizija), dall'Accordo sulla sicurezza collettiva (Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija, Russia, Tadžikistan; mentre l'Uzbekistan va e viene) e deciderà anche, probabilmente, di recedere dallo Stato unitario di Russia e Bielorussia.
D'altronde, non è un mistero che Minsk, a dispetto delle grida democratiche che la rappresentano come “ultima dittatura d'Europa”, sia da tempo nelle mire occidentali e i media bielorussi cosiddetti “indipendenti” siano a libro paga dell'Ufficio per le questioni della democrazia, diritti umani e lavoro del Dipartimento di stato USA. E non lo è nemmeno il fatto che ONG specializzate, quali National Endowment for Democracy (NED), si preparino per addestrare un buon numero di giornalisti a propagandare “riforme” confacenti al modello liberale. Il tutto, secondo il piano UE sul “Partenariato orientale” che, dopo i risultati ottenuti a Tbilisi e Kiev, punta ora su Minsk, per una “cooperazione tecnica” fino al 2020 che porti a far pendere l'ago della bilancia bielorussa dalla parte di Bruxelles e non più di Mosca.
Lo scrittore Taras Burmistrov, intervenendo su Life.ru, a proposito dei nuovi controlli di frontiera, ricorda come il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov avesse ironicamente dichiarato che la strada per risolvere i problemi sorti con l'ingresso senza visto in Bielorussia, sarebbe quella di incorporare tutti gli 80 paesi nello Stato unitario di Russia e Bielorussia. Burmistrov ricorda anche come, nonostante oggi la Russia, da stato alleato, sia scaduta per Minsk al livello di “un certo paese limitrofo”, nessuno a Mosca abbia mai obiettato con decisione sull'importazione dalla Bielorussia di prodotti che, proibiti in Russia a causa delle sanzioni occidentali e del controembargo alimentare russo, hanno ben poco di bielorusso: kiwi, papaya, polpi e foie gras, ad esempio.
Ma, per ricorrere a una pubblicità nostrana, oggi Mosca è certamente preoccupata più delle “persone oltre le cose”, soprattutto in questo momento di riacutizzazione della crisi ucraina e nessuno ha scordato, ad esempio, la facilità con cui si era introdotta in territorio russo, aggregandosi a una colonna di profughi dal Donbass, l'ex Jeanne d'Arc Nadežda Savčenko. Nonostante tutte le sue più recenti piroette, anche a fianco dei leader di DNR e LNR, gli “ideali di majdan” del cui tradimento oggi lei accusa Petro Porošenko, sono pur sempre quelli professati dai battaglioni neonazisti, di cui Nadežda era ed è una ben degna rappresentante.
Quegli stessi ideali cui si rifanno coloro che bombardano ospedali, scuole, edifici civili e, anche ieri, di nuovo autoambulanze, senza nemmeno farsi scrupolo di dislocare obici e corazzati in mezzo ai quartieri residenziali del settore di Avdeevka da essi occupato – con gli osservatori Osce che sembrano ignorare tale dislocamento e che anzi appena due giorni fa lo avevano negato – per sparare in tutta tranquillità e impedire alle milizie di rispondere al fuoco. Questo, per il sesto giorno e notte consecutivi e a dispetto di tutti gli appelli al cessate il fuoco lanciati da ONU, Osce e persino (per quanto ipocritamente) dalla Nato: la notte appena trascorsa i razzi “Grad” si sono accaniti particolarmente su Donetsk e non solo sulla periferia settentrionale (da cui ieri gli abitanti venivano evacuati a bordo di blindati), ma sul centro stesso della città, dove in nottata un razzo “Uragan” ha ucciso due civili e ne ha feriti un'altra decina. Kiev, anzi, sempre più spavaldamente si fa gioco di tali richiami: ieri, il Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa, Aleksandr Turčinov, aveva impartito l'ordine diretto di continuare l'offensiva, col rischio di provocare una catastrofe ecologica e umanitaria, nel caso si vadano a colpire gli impianti carbon-chimici di Avdeevka (tra l'altro, di proprietà dell'oligarca ucraino Renat Akhmetov), come è stato in questi giorni per altri impianti industriali.
Tra le ragioni che hanno spinto Kiev a riaccendere la guerra aperta, il centro analitico statunitense Stratfor (Strategic Forecasting) enfatizza la necessità ucraina di riportare l'attenzione su di sé, di fronte alla pericolosa (per Kiev) prospettiva di un entente russo-americano e i timori che suscita nei golpisti l'attenzione prestata dai paesi europei ai propri problemi interni e non a quelli ucraini. "Per l'Ucraina è una situazione molto difficile” dicono gli analisti di Stratfor; “l'acutizzazione del conflitto nel Donbass può essere un modo per attirare l'attenzione degli alleati europei e organizzarli contro la Russia".
Che l'aggressione degli ultimi giorni sia anche un tentativo di venire a capo di laceranti conflitti interni alla junta golpista, secondo Dmitrij Rodionov, su Svobodnaja Pressa, lo testimonierebbe l'ipotesi che alcuni settori ucraini sarebbero disposti a un accordo con Mosca, pur di conservare i propri posti di potere. Il politologo Vladimir Skačko, su Topinform, nota come gli stessi argomenti, sulla necessità di un accordo con Mosca, siano oggi usati da personaggi tanto diversi come la Savčenko, gli oligarchi Viktor Pinčuk e Sergej Taruta o addirittura ex “ideologi” di euromajdan quali Mustafa Najem e Sergej Leščenko e “altri, come loro disponibilissimi a vendersi” a Mosca. Anche Vladimir Kornilov si dice convinto che, prima o poi, pur di conservare le proprie posizioni, Porošenko cercherà un accordo con la Russia.
Intanto però le artiglierie ucraine continuano a martellare le città del Donbass e i civili, quando non vengono colpiti direttamente, sono ridotti al buio, al freddo, alla mancanza d'acqua, per i colpi intenzionalmente mirati su obiettivi di produzione energetica.
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