Il 78enne presidente dell'Uzbekistan, Islam Karimov, è in condizioni “stabilmente molto gravi”, dopo l'emorragia cerebrale che lo ha colpito il 27 agosto. Nella tarda serata di ieri, per seguire l'evolversi della situazione clinica di Karimov, sono giunti da Mosca a Taškent alcuni specialisti del centro neurochirurgico “Burdenko”. Sempre ieri sera, a dispetto delle voci dell'opposizione uzbeka che davano Karimov per morto, Vladimir Putin ha indirizzato a lui e agli uzbeki un messaggio di felicitazioni in occasione del 25° anniversario dell'indipendenza (anche qui, ovviamente, dall'Urss), che a Taškent si festeggia oggi, pur se in forma contenuta, per le condizioni di Karimov. Putin ha rimarcato “le buone tradizioni di amicizia e rispetto reciproco”, su cui “si fondano i rapporti tra i nostri stati” e che “si stanno attivamente sviluppando nello spirito di partnership e alleanza strategiche”. Parole non di prammatica, che esprimono (o auspicano) una svolta forse decisiva e definitiva nei rapporti tra Mosca e Taškent, dopo le ripetute giravolte uzbeke in direzione ora di Russia, ora di Stati Uniti.
Ininterrottamente al comando dell'ex repubblica sovietica dell'Asia centrale dal 1989, allorché fu eletto segretario generale del PC dell'Uzbekistan e poi, nel 1990, fu scelto come primo presidente della repubblica, Karimov ha mantenuto la carica presidenziale alle prime elezioni generali del 1991, a quelle del 2000, 2007, del 2015 e ai referendum del 1995 e 2002. Tale corso “epocale” è stato possibile con l'approvazione di alcuni emendamenti alla Costituzione (e gli esiti referendari del 2002, che hanno portato il mandato presidenziale da 5 a 7 anni) per cui la sua elezione a presidente nel 2007 è considerata la prima. Al momento, le funzioni presidenziali sono svolte dal presidente del Senato del Oliy Majlis, il parlamento, Nigmatilla Tulkinovič Juldašev e nel giro di tre mesi, se Karimov non sarà più in grado di governare, si dovrà procedere all'elezione del nuovo capo dello stato.
I rapporti di Karimov con l'Occidente si incrinarono una decina di anni fa, a causa della gestione della crisi di Andižan, la quarta città più grande del paese, all'estremo confine orientale con la Kirghizija, dove, nel maggio 2005, si verificarono scontri in seguito a un attacco della setta islamista “Akramija” contro vari edifici pubblici. L'attacco, portato esattamente un mese dopo la “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizija e visto a Taškent come l'ennesimo tentativo USA di “rivoluzione colorata”, sarebbe stato respinto al prezzo di 187 morti e con la condanna a 10 e 20 anni di galera per moltissimi manifestanti. Mentre USA e UE introdussero sanzioni “per l'adozione di misure di forza sproporzionate” e imposero l'embargo sulla vendita di armi a Taškent, Russia e Cina giudicarono giustificata la risposta uzbeka all'attacco pseudo-islamista. Fu in quel periodo che si alterarono i rapporti con gli Stati Uniti, dopo di che Karimov pretese la loro uscita dalla base di Khanabad.
A parere del direttore della rivista russa “Problemi della sicurezza nazionale”, Aždar Kurtov, sentito dalla Tass, nell'immediato non si prevedono grossi cambiamenti nella politica estera uzbeka. Kurtov ricorda come Karimov avesse detto a suo tempo che l'Uzbekistan “è disposto a collaborare con tutti i paesi, a condizione che la collaborazione sia basata sulla parità, il rispetto e l'interesse reciproco”. In questi anni, Taškent si è rivolta ai “centri chiave mondiali, cambiando periodicamente e più di una volta partner principale: USA, Russia, Cina”. Due volte l'Uzbekistan si è ritirato dall'Organizzazione per la Sicurezza Collettiva (ODKB), l'accordo sottoscritto nel 1992 proprio a Taškent da Armenia, Kazakhstan, Kirghizija, Russia, Tadžikistan e Uzbekistan e non è entrato nell'Unione Economica Euroasiatica. Inoltre, ricorda Kurtov, l'Uzbekistan non notificò l'uscita dal ODKB agli altri membri dell'organizzazione, ma, in modo dimostrativo, ne diede notizia al vertice Nato; Karimov voleva anche rientrare nell'ODKB, senza però riconoscere l'autorità degli organi sovranazionali. In ogni caso, i rapporti con Mosca non si sono mai completamente guastati e oggi si stanno sviluppando, anche in ragione dei milioni di “gastarbaiter” (russificazione del termine tedesco per indicare i lavoratori dalle ex repubbliche sovietiche) uzbeki che lavorano in Russia.
Secondo l'esperto di Asia centrale, Arkadij Dubnov, i successori di Karimov invieranno messaggi in varie direzioni, ma “più uguale tra tutti gli uguali partner stranieri rimarrà la Russia, perché Taškent in materia di sicurezza nazionale dipende da Mosca più che dalla sua principale controparte economica, la Cina".
Secondo le Izvestija, è già in atto la lotta per la successione, con il “clan Karimov” messo alla porta: la figlia maggiore, Gulnara, è agli arresti domiciliari a Londra (già in passato accuse di corruzione nei suoi confronti erano giunte da USA, Svizzera e Olanda) e la minore, Lola, non è voluta dai militari. Il nome più probabile sarebbe quello dell'attuale primo ministro, Šavkat Mirzijaev. A Mosca sembrano attendere i primi passi del futuro presidente – le dichiarazioni, le prime visite all'estero – per giudicare in che direzione evolverà la politica uzbeka; ma, in generale, ci si dice fiduciosi che i rapporti con la Russia rimarranno buoni: Taškent non è orientata verso Mosca, ma nemmeno contro.
Andrej Ivanov, su Svobodnaja pressa, scrive che, mentre si accavallano notizie e smentite su arresti ai vertici governativi (per tutti: il vice premier Rustam Azimov), è probabile che la poltrona di Karimov sarà divisa tra centri di potere a Taškent e Samarkand: non a caso, mentre il premier Mirzijaev viene da Samarkand, il suo vice, Azimov, rappresenta Taškent. In ogni caso, per quanto lunga possa essere l'attesa per la successione, in essa non mancheranno di far sentire la propria voce Washington e Pechino, dice il politologo Adgezal Mamedov; per quanto si debba tener presente l'influenza dei “clan” regionali e del Servizio di sicurezza nazionale, con il suo capo, Rustam Inojatov. Se nutre qualche dubbio sulla possibile influenza statunitense, dopo le vicende del 2005, Mamedov, ritiene che Pechino sia sostanzialmente interessata a che l'Asia centrale non diventi uno strumento USA: chiunque sia il successore di Karimov, sostiene Mamedov, si orienterà su Mosca e, comunque, è probabile che venga scelta una figura di passaggio, attinta dalla cerchia presidenziale.
Ad ogni modo, mentre l'analista del Centro russo di indagini strategiche, Dmitrij Aleksandrov, considera molto improbabile uno “scenario ucraino”, altri osservatori non escludono tentativi di penetrazione islamisti – come era accaduto addirittura in epoca sovietica nella valle di Fergana, racchiusa tra Uzbekistan, Tadžikistan e Kirghizija – dal confinante Afghanistan. Nell'ultimo paio di anni Mosca ha proposto in più occasioni il proprio aiuto contro la minaccia islamista, in forza anche della vicinanza con l'Afghanistan. Secondo il direttore dell'Istituto dei nuovi Stati, Aleksej Martynov, sono molto improbabili cambiamenti radicali di politica estera: l'Uzbekistan mantiene buone relazioni con Russia, Cina, Kazakhstan, Kirghizija, Turkmenija, Tadžikistan. Esiste però il pericolo che Washington tenti la rivincita, dopo la sconfitta di Andižan nel 2005. “Mosca certamente non interferirà”, dice Martynov, “ma l'intelligence uzbeka dovrà prestare la massima attenzione all'ambasciata americana, a chi entra e chi esce da essa; gli americani stanno preparando qualcosa. L'importante ora è che l'Uzbekistan cerchi di compensare i potenziali pericoli dall'Afghanistan, stringendo ancor più i rapporti con Pechino, Mosca e Astana e, soprattutto, cerchi di evitare uno scenario “colorato”.
Fabrizio Poggi
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Gianni Sartori
In difficile equilibrio tra Occidente e Russia, l’Uzbekistan compie un passo importante in difesa dei diritti umani
CON LA NUOVA COSTITUZIONE L’UZBEKISTAN ABOLISCE LA PENA DI MORTE
Gianni Sartori
Non conosco abbastanza la vera Storia dell’Uzbekistan (intendo dire: oltre alle versioni contrapposte – all’apparenza alquanto strumentali, propagandistiche -che circolano) per prendere posizione sulla recente polemica in merito alla mancata esposizione – già programmata -del dipinto a olio “Quando (le truppe dell’Armata Rossa nda) bombardarono Bukhara”. L’’opera di Vjačeslav Akhunov (sette metri per due, appena arrivata dagli USA, ma rimasta impacchetta) si riferisce agli eventi del 1920. Secondo un’altra versione era stato bombardato più che altro l’Ark di Bukhara, il palazzo-fortezza dell’emiro Mohammed Alim Khan. Secondo altre ancora, sarebbe stato egli stesso (prima di fuggire in Afghanistan con il tesoro reale) a far minare il palazzo (e in particolare i locali dell’harem) perché non venisse “contaminato” dai comunisti. Comunque sia, in attesa di saperne di più, per ora sospendo il giudizio.
Ma intanto dall’Uzbekistan giungono anche altre notizie, molto più gradite e confortanti. Con l’approvazione di una nuova Carta Costituzionale (vedi il referendum del 30 aprile) viene infatti abolita la pena di morte.
Un inciso. Anche se parlar “bene”, relativamente beninteso, della Russia di questi tempi può essere controproducente, non posso non notare che in questo l’Uzbekistan (un paese in difficile equilibrio tra i due schieramenti) si allinea più con Mosca che con Washington. Infatti, mentre la Russia l’ha abolita ormai da un trentennio, viene mantenuta e praticata in diversi Stati degli USA.
E’ apparso evidente a tutta l’opinione pubblica uzbeka che gran parte del merito per la definitiva scomparsa di questa norma iniqua spetta a una donna coraggiosa: Tamara Chikunova.
Deceduta due anni fa, questa autentica “Madre Coraggio”, dopo che il figlio era stato giustiziato nel luglio del 2000, si era impegnata senza tregua prima per la moratoria e poi per l’abolizione. Da indagini successivi il figlio era poi risultato innocente del crimine per cui era stato condannata. L’ennesimo esempio di un errore giudiziario che – nel caso la condanna a morte sia già stata eseguita – risulta assolutamente irrimediabile, irreversibile.
In attesa che anche il resto del Pianeta si adegui, consoliamoci con questa importante vittoria dell’etica (o semplicemente del buon senso).
Gianni Sartori