Difficile essere più chiari di così: «I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo l’ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani».
Angela Merkel ha scelto un normale comizio elettorale, a Monaco di Baviera, per esplicitare la rottura dell’asse strategico che ha regolato, nel bene e nel male, la vita dei popoli europei nel secondo dopoguerra: la relazione speciale, subordinata ma economicamente vantaggiosa, con gli Stati Uniti.
Solo due giorni fa, al termine del G7, la cancelliera che corre per ottenere il quarto mandato consecutivo, si era limitata a definire “molto difficile, per non dire molto insoddisfacente” la discussione avuta con Trump. In due giorni non si cambia il giudizio politico su questioni così rilevanti; dunque il G7 è servito, agli occhi della Germania, a verificare con mano l’impossibilità di mediare gli interessi del capitale multinazionale con base sul Vecchio Continente con quelli a matrice statunitense.
L’arrivo di Trump alla Casa Bianca – al di là della stramberia complessiva del personaggio – aveva chiarito che una parte fondamentale del capitale statunitense, quella che guadagna (poco) con main street, con l’economia mercantile, non può più andare avanti con il modello fissato nel lontano agosto 1971. Ossia con l’America “mantice” dello sviluppo capitalistico globale grazie a una moneta usata disinvoltamente come mezzo di scambio interno, unità di misura delle materie prime e moneta di riserva internazionale (tesaurizzabile); nonché, a volte anche soprattutto, grazie a un dispositivo militar-industriale in grado di proteggere gli interessi nazionali in ogni angolo del pianeta.
Quel modello è diventato insostenibile perché ha favorito l’importazione di quasi tutto quel che gli yankee consumano, in cambio di carta moneta sostenuta con i missili. Sembrava l’uovo di Colombo, ma alla fine ha desertificato il panorama industriale interno (per salvare Chrysler hanno dovuto chiamare la Fiat…), creato un esercito di disoccupati che sfiora i 100 milioni di persone (su 318 milioni di abitanti, bambini e nonni compresi), distrutto il patto sociale alla base del “sogno americano”.
Quel tipo di capitale ha scelto Trump in opposizione con l’establishment repubblican-democratico fondato sulle prestazioni di Wall Street, cominciando da subito a smussarne le punte più impresentabili e riempiendo il governo di generali e banchieri. Ma una scelta di rottura, a Washington, è stata comunque fatta. America first può voler dire molte cose diverse, come scelte politiche immediate, ma almeno una è certa: gli Stati Uniti dei prossimi anni saranno assai meno “concertativi” sul piano globale e assai più concentrati sui propri interessi nazionali, in qualsiasi teatro del pianeta.
Angela Merkel – il blocco sociale che la sostiene da sempre – ha tirato le somme e indicato l’unica via percorribile per gli interessi che esprime: l’Unione Europea deve velocemente diventare un polo competitivo con tutti gli altri (Usa, Russia, Cina) e su tutti i piani, stabilendo alleanze a geometrie variabili quando serve.
Circolano in Germania varie indiscrezioni, riprese ad esempio in questi giorni dalla Frankfurter Allgemeine am Sonntag, circa un “piano segreto” che verrà sottoposto ai principali partner europei subito dopo le elezioni di settembre. Ma le linee generali si conoscono da tempo: un governo economico centrale dell’eurozona, con la nomina di un ministro-commissario con pieni poteri (al contrario di quel che avviene con i preteso “ministro degli esteri”, l’inconsistente Lady Pesc, al secolo Flavia Mogherini), la possibilità di emettere titoli di debito comune sottoposti a vincoli fortissimi (non una mutualizzazione del debito dell’eurozona, ma un controllo centrale della gestione dei debiti nazionali), e soprattutto la costruzione di un esercito continentale, per cui già ora diversi paesi europei hanno iniziato ad aumentare la spesa dedicata. Persino l’Italietta dei tagli alla spesa sociale, nel 2016, si è distinta per un aumento del 10,63% rispetto all’anno precedente, attestandosi così all’1,11% del Pil quando nel 2015 la spesa era stata pari al’1,01%.
Ma su questo piano l’Italia è ovviamente un vasetto di coccio. Ben più devastanti sono le scelte che va compiendo Berlino, in completa autonomia e senza consultare nessun partner. La Brexit e il rafforzamento del legame indissolubile tra Regno Unito e Usa per un verso priva il costruendo esercito europeo di robusti artigli nucleari (solo la Francia ne dispone, ma in misura minore), per l’altro toglie ogni remora allo sfrenato desiderio della Germania di dotarsi “finalmente” dell’arma atomica e riprendersi così un posto di prima fila tra le potenze nucleari. Supportata insomma da uno stuolo di paesi ormai vincolati alle filiere produttive renane, sottoposti ai vincoli stabiliti da trattati riformabili solo dall’alto, svincolata da ogni parere non gradito.
Benvenuti nell’Unione Europea 2.0!
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