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Il trattato Ceta sposta la sovranità dai popoli alle multinazionali

Quello che segue è un articolo che descrive con grande chiarezza il contenuto politico e strategico del trattato “di libero scambio” tra l’Unione Europea e il Canada. Ricordiamo che un trattato assolutamente simile con gli Stati Uniti, il Ttip, è invece praticamente morto dopo l’elezione di Donald Trump (anche se godeva di pessima salute già prima).

Il contenuto principale di questo trattato riguarda infatti l’affermazione della prevalenza del diritto delle imprese al profitto a scapito della possibilità degli Stati – e persino dell’Unione Europea – di adottare qualsiasi decisione (in materia ambientale, fiscale, contrattuale, ecc) che possa danneggiare quel profitto.

Le conseguenze sono epocali, anche se poco analizzate.

In pratica, qualsiasi maggioranza politica venga eletta per governare un paese si ritroverà impotente a limitare questo strapotere delle aziende (che saranno ovviamente soprattutto quelle di dimensione sovranazionale). Questo svuota di senso i famosi “programmi elettorali”, i cui estensori dovranno esercitarsi con molta fantasia su temi decisamente secondari (la produzione e distribuzione della ricchezza è quello determinante).

Il meccanismo giuridico fissato nel Ceta è addirittura dispotico: le imprese hanno la possibilità di citare in giudizio gli Stati che dovessero varare normative per loro “dannose”, ma gli Stati non potranno fare altrettanto in caso di pratiche criminali delle imprese (sostanze cancerogene o velenose non dichiarate nei loro prodotti).

Soprattutto, la “corte giudicante” sarà di tipo arbitrale e formata da avvocati specialisti in commercio internazionale. Non è difficile immaginare l’orientamento che avranno le future sentenze…

In pratica, gli Stati firmatari dell’accordo accettano di obbedire a delle imprese private nate o basate in altri paesi.

Tecnicamente è una rinuncia alla sovranità a favore di interessi privati. Politicamente è la fine della democrazia e della stessa politica.

Sappiamo bene che nel corso degli ultimi 25 anni – soprattutto in Italia – la “sovranità” è diventata una parola dannata, sapientemente associata al “nazionalismo”, dunque alle destre revansciste, da un vasto fronte di opinion maker e ideologi a busta paga delle grandi imprese. E sappiamo altrettanto bene come siano state proprio le destre ad avvantaggiarsene per prime, sfruttando il malessere sociale determinato dalla torsione sistemica market oriented iniziata ai tempi di Reagan e Thatcher.

Il tentativo di incanalare tutte le riflessioni sul rapporto tra “Stato e mercato” nella sterile alternativa sovranismo/”comunità internazionale” (fascismo/accettazione dello statu quo) sembrava quasi perfettamente riuscito, con molta sinistra impiccatasi con le proprie mani al gancio dell’”internazionalismo del capitale” (che è il rovescio esatto dell’internazionalismo tra lavoratori; basti vedere come le imprese multinazionali giochino da decenni sulle differenze salariali tra paesi e aree del mondo, investendo e fuggendo a proprio piacimento).

In America Latina i movimenti progressisti e rivoluzionari non avevano abboccato a quel gancio, ben coscienti che semmai andava recuperata la capacità di autodeterminare le politiche economiche e sociali, da sempre pesantemente condizionate dalle multinazionali statunitensi e dal loro governo.

Ora, qui in Europa, la Catalogna sta mostrando come il recupero (o la conquista) della sovranità sia una condizione imprescindibile per poter decidere liberamente. Come ricordavamo qualche giorno fa, il concetto di sovranità – in soldoni: il soggetto della decisione – ha una lunga storia e un grande peso nel pensiero democratico e rivoluzionario (ha sostituito il monarca per diritto divino con “il popolo”).

Il trattato Ceta e altri simili spostano ora l’autorità decisionale dal popolo all’impresa. Ossia a un monarca che non ha e neppure cerca una legittimazione, ma che vede “i popoli” (senza neanche star lì a distinguere tra lavoratori e altre figure sociali) come un puro bacino di plusvalore estraibile oppure ostacolo da “asfaltare”.

In effetti, l’intero processo di costruzione dell’Unione Europea – quello effettivamente praticato, non certo gli “ideali di Ventotene” – persegue questo obiettivo; e con particolare forza a partire dagli accordi di Maastricht (1992), subito dopo il crollo dell’Urss. Ma non c’è dubbio che anche questo quasi-stato continentale, dalle attribuzioni complicatissime, verrà bypassato come soggetto decisionale da qualsiasi multinazionale sufficientemente potente.

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L’entrata in vigore del CETA è uno scandalo per la democrazia

Tradotto da Margherita Russo per http://vocidallestero.it/

Il trattato CETA è entrato in vigore, nel quasi totale silenzio dei media nazionali, lo scorso 21 settembre. Jacques Sapir fa il punto di ciò che adesso ci aspetta, ed il quadro è purtroppo tutt’altro che rassicurante: oltre ai rischi per la salute e per l’ambiente, il CETA rappresenta un grave vulnus alla sovranità nazionale e ai principi democratici.

Di Jacques Sapir · 22 settembre 2017·

Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.

Il CETA sarebbe, sulla carta, un“trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A tal riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione.

A ciò si aggiungono i pericoli scaturenti dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato. Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”.

In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata. È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi.

Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Quebec fu costretto a far marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.

Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà.

Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.

I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia.

Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di 3 dei 5 paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali.

Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali. Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate.

Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.

In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.

Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]

Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto:“…i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”.

Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era“compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.

Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.

È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.

[1] Haegel F., « Mémoire, héritage, filiation: Dire le gaullisme et se dire gaulliste au RPR », Revue française de science politique, vol. 40, no 6,‎ 1990, p. 875

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1 Commento


  • Manlio Padovan

    “La mia patria si chiama multinazionali”: è una affermazione di quel criminale di Eugenio Cefis fuggito in Svizzera quando lo avvertirono (chi? Piccoli, Preti, Marcora, o chi altri del giro della politica?) che il cerchio si stava stringendo. Il “capomafia” che fece eliminare De Mauro, Mattei, Pasolini. “Il profittatore senza scrupoli del gas di Stato… partito pressoché nullatenente 25 anni fa” e diventato in quel modo miliardario dopo aver sfruttato per i suoi comodi l’ENI prima e la Montedison poi.
    Le citazioni sono da “Questo è Cefis/ l’altra faccia dell’onorato presidente” di G. Steinmetz fonte di citazioni a Pasolini per il suo “Petrolio”.
    Mi pare che si stia avverando in pieno il programma di Cefis e della P2.
    O sbaglio?

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