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Del salario minimo e il ballo dei quaquaraquà

«C’è l’accordo sul salario minimo!».

«Anzi no».

«Ma l’“Europa” ha detto che si batterà per questo…».

«Purché non lo paghino le imprese».

Se fosse uno sketch del mitico Totò, che i paradossi del “fare all’italiana” li sapeva raccontare come forse nessun altro, verrebbe quasi da ridere. Ma purtroppo di fiction non si tratta, quanto piuttosto di uno schematico reportage sugli ultimi umori riportati dalla stampa in tema di salario minimo.

Alla relazione di presentazione del XVIII Rapporto annuale dell’INPS tenuto alle Camere del presidente Pasquale Tridico, Di Maio aveva annunciato l’accordo con la controparte verde al governo per questa «legge di civiltà», raggiunta «qualche giorno fa in una riunione con la Lega», che avrebbe dovuto sbloccare la proposta firmata della pentastellata Nunzia Catalfo, ferma al Senato apparentemente per motivi “tecnici”.

Ma la risposta del sottosegretario al Lavoro leghista Claudio Durigon smentisce le dichiarazioni del vice-premier. Ci sono, sì, delle «idee», ma l’accordo si chiude solo «se a costo zero per le imprese».

Per Lega e imprese, infatti, il ddl deve provvedere, nei 9 euro lordi indicati some soglia minima oraria di legge, anche i retributivi indiretti e differiti, come la tredicesima, il Tfr, le ferie, ecc. In più, dall’altra parte, salgono le quotazione confermate dal premier Conte di un intervento sulla leva fiscale attraverso una diminuzione per gli imprenditori del cuneo fiscale per un valore di 3,2 miliardi. In pratica, una riedizione aggiornata delle “gabbie salariali” degli anni ’50 e ’60, prima dell'”autunno caldo”.

Su questo, ovviamente, tutti d’accordo i confederali, ché una legge troppo a favore dal lato Lavoro finirebbe per stimolare «effetti spiazzamento» (come scrive “IlSole24Ore”) rispetto ai Ccnl. In altre parole, se i lavoratori acquisiscono troppi diritti,  i contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi – CgilCislUil – smettono di essere il riferimento della contrattazione, e mica si può “bypassare” quest’intermediazione, sia mai che il sindacato come istituzione torni a svolgere un ruolo conflittuale in questo paese.

E dunque, se s’ha da fare, che il salario minimo sia a carico monetario dello Stato, che indirettamente significa (come scrive Pasquale Cicalese sul suo profilo fb) una partita di giro in negativo per i lavoratori, perché quello stesso Stato, se cammello volere vedere, cammello dovere pagare, che in clima di austerity significa altri tagli alla spesa sociale e ai servizi.

E così, quella stessa Lega che non vuole la deflazione salariale tedesca (sennò, a chi esportano le Pmi che li hanno votati?) spinge perché questa avvenga nel nostro paese, proprio nei giorni in cui la neo-presidente (tedesca) della Commissione europea Von der Leyen annuncia che “combatterà” per avere un salario minimo europeo. Come questo possa accadere in un contesto basato sulle diseguaglianze funzionali all’architettura economico-istituzionale dell’Unione, non è ancora dato sapere.

Il presidente Tridico, sempre nella relazione di presentazione, ha dichiarato che l’approvazione della legge sul salario minimo andrebbe a incrementare la busta paga di 4 milioni di lavoratori, che secondo un cacolo dell’Inapp rappresentano il 21,2% dei lavoratori dipendenti, con uno spostamento stimato di 6-7 miliardi di euro verso la quota salari (parte della ricchezza prodotta ridistribuita al Lavoro e non trattenuta dal Capitale).

Questo concessione, seppur minima quanto doverosa rispetto all’attacco subito dai lavoratori nel corso degli ultimi trent’anni, sarebbe comunque un primo passo in netta controtendenza, non solo sul piano nazionale, ma, si può ben dire, su quello globale.

Circa un mese infatti l’“International labour organization”, non proprio un covo di internazionalisti, rilasciava la prima stima globale sulla distribuzione della quota salari su un campione statistico raccolto in ben 189 paesi. Ebbene, i dati indicano che il 50% dei lavoratori meno pagati riceve solo il 6,4% dell’intera quota. Seppur questa diseguaglianza è in calo dal 2004, ciò è dovuto all’aumento salariale nei paesi emergenti (ex emergenti, aggiungeremmo noi) come Cina e India, mentre nel resto delle economie a “capitalismo maturo”, è in costante aumento. Al contrario, paesi come Germania a l’Italia (in compagnia di Stati uniti, Regno Unito, Pakistan e Indonesia) nello stesso periodo sono gli unici ad aver visto aumentare di un punto percentuale la quota dei salari top 20%, questo mentre negli ultimi anni la quota capitale è in rimonta su quella del lavoro.

Come dire, un quadro ben poco rassicurante in un contesto a basso sviluppo tecnologico e a prospettive di ridimensionamento, dove il lavoro, quello che conta, posizionato “in alto” nella catena globale di produzione del valore, si sposta su altri lidi.

La battaglia sul salario minimo allora ha tutto il sapore della lotta di classe, quella uscita sconfitta al termine dei maledetti anni Ottanta. Ma forse non ci voleva una mole di dati impressionante a confermare ciò che i lavoratori, nella maggior parte dei casi, sentono direttamente sulla loro pelle.

Bastava leggere le posizioni contrarie delle varie istituzioni al riguardo: Lega, Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, il teatrino dell’Ue… serve altro?

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