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Il confinamento e la malattia mentale

Si è scritto più volte che il confinamento forzato di questi ultimi mesi è particolarmente difficile per la parte più debole della popolazione. Deboli tra i deboli, sono coloro che soffrono di una malattia mentale, costretti a modificare repentinamente le loro abitudini, i ritmi di vita già in equilibrio precario, a rinunciare a quelle attività che per loro hanno un significato, anche terapeutico, fondamentale.

E ben noto che di fronte alla malattia mentale la costrizione e la segregazione hanno effetti negativi e che la via corretta non è quella di voler ricondurre la persona che soffre a un concetto di “normalità” difficile da definire e a volte politicamente pericoloso, bensì favorire il suo pieno inserimento sociale rispettandone la personalità e le inclinazioni.

Eppure, i pregiudizi e le paure, ma anche le discriminazioni sociali, religiose e politiche, hanno fatto si che, nella storia, la malattia mentale sia stata affrontata con l’esclusione sociale e, a volte, per esempio in ambito popolare, per difesa, con la sua negazione. Basti pensare ai malati curati con le pratiche esorcistiche perché ritenuti “indemoniati” o al mondo delle classi subalterne pugliesi che, sino agli anni sessanta del secolo scorso, si inventò, per difesa, che il tarantismo era effetto del morso di un ragno e non una forma di disagio psichico.

Le cose, nel nostro paese, cambiarono negli anni settanta, per effetto delle esperienze di vari psichiatri, tra cui il più noto resta Franco Basaglia, che ribaltarono completamente il concetto di psichiatria, sostituendo alla costrizione e all’esclusione sociale la liberazione e l’integrazione sociale dei malati. Esperienze che avevano anche un significato profondamente politico, inserite come erano nel contesto delle lotte di quegli anni e perché dirette contro l’uso politico che si faceva della psichiatria e dei manicomi.

Infatti, sino all’approvazione della legge 180 del 13 maggio 1978 (la cosiddetta legge “Basaglia”) la “cura” dei malati mentali era concepita come reclusione nei manicomi per le persone che potevano essere “pericolose per sé e per gli altri” ma anche, come recitava la vetusta legge 36 del 1904, fossero di “pubblico scandalo”.

Una formulazione, quest’ultima, che portò alla reclusione nei manicomi di prostitute, omosessuali, o di persone semplicemente depresse o “devianti” dalle norme.

La legge 180/78 di cui ancora oggi si parla molto, restò in realtà in vigore solo sei mesi perché nel dicembre del 1978 venne approvata la legge 833 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale in cui ne furono integrati quasi tutti gli articoli.

Purtroppo la regionalizzazione del SSN che ha preso avvio nel 1992, ha provocato grandi differenze regionali sulla quantità e qualità dei servizi psichiatrici. Inoltre la continua politica di definanziamento della sanità pubblica ha diminuito la presenza e l’efficienza dei servizi territoriali, che sono il nodo fondamentale per garantire un’assistenza valida proprio sul punto chiave del reinserimento sociale e lavorativo dei pazienti.

Un reinserimento che viene comunque pazientemente perseguito da molte strutture con progetti che hanno bisogno, per la loro realizzazione, di poter avere quella continuità che, purtroppo il confinamento di questo periodo sta mettendo a rischio.

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La pandemia nella testa di chi soffre di una malattia psichiatrica

Giuseppe Rizzo Internazionale

Quando i medici hanno provato a spiegargli l’importanza di indossare una mascherina, Massimo gli ha detto di non preoccuparsi troppo per lui: “Come sapete, sono immortale”. Magro, capelli rasati e occhi verdi, Massimo non scherzava. Ha 34 anni e dal febbraio del 2018 vive a Villa Letizia, una comunità terapeutica convenzionata nel quartiere di Monteverde a Roma. Santo Rullo, lo psichiatra che guida la struttura, gli ha risposto con la stessa serietà. Ha detto a Massimo di capire la sua situazione ma gli ha chiesto di mettersi nei panni degli altri 24 pazienti e in quelli dei dottori, degli infermieri e degli operatori che danno una mano a lui e ai suoi compagni: “Fallo per noi”. Massimo ha capito, ha detto che la mascherina non l’avrebbe indossata, ma che avrebbe fatto una concessione: dal momento che tutti loro sono mortali, avrebbe mantenuto la distanza di sicurezza. Rullo ha sorriso e gli ha detto che era già qualcosa.

In queste settimane, una delle parti più complicate del lavoro della sua squadra è stata fare l’esatto contrario di quello che fa da sempre, e cioè raccomandare di innalzare delle barriere con il mondo esterno invece di superarle, chiedere di mantenere le distanze tra le persone anziché accorciarle. Naturalmente, rinunciare a progetti di reinserimento o perfino a semplici passeggiate, sentire l’aria intorno a sé diventare satura di ansie e paure, ha avuto le sue conseguenze. Dall’inizio della pandemia, a Villa Letizia e nell’adiacente Villa madre Chiara Ricci, che ospita 19 minorenni, si sono contati due tentativi di suicidio, un paio di fughe e alcuni ricoveri in ospedale di pazienti che non hanno retto.

La quarantena ha modificato la trama delle giornate di tutti, è perfino ovvio dirlo, ma per tanti quella trama era già fatta di fili sottili, in grado di rompersi facilmente. Esmé Weijun Wang, scrittrice californiana che soffre di schizofrenia, ha trovato una sintesi efficace per raccontare la condizione di chi ogni giorno fa i conti con un disturbo psichico: “Essere vivi e malati è una fatica molto più complessa di quanto ci piacerebbe ammettere”. Alleggerire questa fatica è parte del lavoro di medici come Rullo. Capire che riguarda molte più persone di quante si pensi, dovrebbe essere lo sforzo di tutti.

Qualche numero aiuta a provarci. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della salute, in Italia le persone assistite dai servizi specialistici perché soffrono di una malattia psichiatrica sono circa 851mila. Nel 2017 quelle che per la prima volta si sono rivolte ai dipartimenti di salute mentale sono state 335mila. Nella stragrande maggioranza dei casi hanno chiesto aiuto perché soffrivano di depressione, di schizofrenia o di sindromi nevrotiche. La loro vita, oggi, è sospesa come quella di tutti. Ma come raccontano le storie delle persone che vivono a Villa Letizia e a Villa madre Chiara Ricci, in molti casi questa sospensione può avere conseguenze gravi.

Gli effetti della quarantena

Ad accompagnarmi nella stanza di Rullo una mattina di metà aprile è Gaetano, un ragazzo che vive a Villa Letizia da due anni e due mesi, e che chiede subito se sono il signor magistrato. Gli rispondo di no mentre un’operatrice mi misura la temperatura, puntandomi alla tempia uno strumento che somiglia a una pistola. “Siamo obbligati a farlo a chiunque entri nella struttura”, dice Rullo.

Lo psichiatra ha 58 anni e da dodici è a Villa Letizia. Da dietro la mascherina protettiva mi spiega il perché della domanda di Gaetano. Nato nel 1981, pelle olivastra e broncio perenne, Gaetano è cresciuto a Roma senza il padre e con una madre che aveva problemi psichiatrici. Quando la donna è morta, il ragazzo ha ereditato il suo appartamento. “È stata la sua fortuna”, racconta Rullo, “gli ha consentito di barcamenarsi per tutta l’adolescenza, passando dei periodi in comunità e altri a casa”. L’equilibrio si è rotto un giorno di qualche anno fa quando una ragazza minorenne lo ha accusato di averla molestata. “È successo su un autobus, in un periodo più complicato del solito per Gaetano”, dice il dottore. La denuncia ha portato a una condanna e la condanna lo ha portato a Villa Letizia, dove il magistrato ha chiesto a Rullo e agli altri medici di valutare la sua pericolosità sociale.

Zia Laura e zia Giusi dicono che sono pericoloso”, dice Gaetano. Rullo sorride e spiega che le due zie sono in realtà i magistrati che si occupano del caso. “Ma tu non sei pericoloso”, dice il dottore, “lo abbiamo scritto anche nella relazione per loro”. Nel documento Rullo auspicava che Gaetano potesse passare l’ultima parte della misura cautelare nel suo appartamento, ma la quarantena ha bloccato tutto. Insieme al progetto, è saltata anche la pazienza di Gaetano.

Io non ce la faccio più”, dice, “io da qui me ne devo andare”. Sono passate da poco le nove e questa è la parte della giornata in cui Rullo incassa le frustrazioni, le lamentele e le domande dei suoi pazienti. Dopo averli ascoltati ammorbidisce i malumori, ribalta alcune argomentazioni e invita tutti a riflettere sul loro ruolo nei conflitti che denunciano. “Io ce l’ho con il mondo. Io voglio uscire da qui se no ammazzo qualcuno”, dice senza molta convinzione Gaetano. Rullo sorride: “Quante volte ti ho spiegato che dire una frase del genere a chi sta valutando la tua pericolosità sociale non è una grande mossa?”.

Gaetano dice che non era serio. “Non lo faresti anche perché sei buono come il pane”, gli risponde Rullo. Gaetano si alza, ma prima di andarsene ci tiene a dire un’ultima cosa: “Signor giornalista, stavo scherzando”. Rullo non lo lascia andare via così: “Non si scherza su queste cose, non si dicono”. Gaetano prova a prendersi l’ultima parola: “Allora neanche gli operatori devono dirmi ‘li mortacci tua’”.

Quando rimaniamo soli, Rullo mi spiega che tra i pazienti c’è chi sta tenendo bene l’ulteriore carico di inquietudine causato dalla pandemia e chi invece ha i nervi tesi come lame. Tra i primi c’è Ivano, che ha 53 anni e ne ha passati dieci in alcuni manicomi criminali. Rullo lo presenta come “l’incarnazione della storia della psichiatria”. Con perfetto tempo comico Ivano aggiunge: “Ma dagli albori, da Freud proprio”.

Il dottore gli chiede di raccontare cos’è successo dopo la condanna per omicidio colposo: “A vent’anni stavo male e ho messo sotto uno che manco conoscevo, facevo il militare e m’hanno portato prima al manicomio di Secondigliano e poi a quello di Aversa. Botte dalla mattina alla sera. Poi quando sono uscito ho continuato le cure, ero seguito. Nel frattempo ho vissuto dieci anni per strada”. A questo punto Ivano fa una pausa e poi si rivolge a Rullo: “Dotto’, gli dica quando mi so’ dato fuoco a piazzale Annibaliano”. Rullo dice che lavorava in una asl lì vicino, ma che non aveva fatto in tempo a fare niente. “Manco io”, dice Ivano. “Beh, insomma, tu ti sei dato fuoco”, gli ricorda lo psichiatra. Ivano ride, l’ironia è il modo che ha trovato per sopravvivere ai manicomi e alla strada. A Villa Letizia è arrivato due anni e mezzo fa. La quarantena, dice, a lui non pesa: “Dopo dieci anni di manicomio, sono abituato a stare rinchiuso”.

Non è così semplice per Fabio, un ragazzo di Milano di 33 anni che entra nella stanza di Rullo per chiedergli un favore: “Ho lasciato il caricabatterie del telefono in ospedale. Senza musica e senza film impazzisco”. Il dottore dice che vedrà cosa si può fare. Fabio ringrazia ed esce. Rullo spiega come sono andate le cose: “Due sere fa è crollato ed è stato portato in ospedale. Lì hanno combinato un disastro. Lui certo non è stato calmo, ma la loro risposta è stata metterlo su un taxi alle due di notte e rispedirlo qui. Senza fargli un tampone e senza un foglio di dimissioni”. Rullo è furioso anche per un’altra questione: “Lavoriamo con Fabio da tre anni, ma non riusciamo ancora a inquadrarlo da un punto di vista diagnostico. Eppure, all’ospedale lo hanno bollato immediatamente come antisociale. Il che significa dire: c’è un’emergenza in corso e tu sei un rompicoglioni, non ho il tempo o la voglia di ascoltarti, perciò ti etichetto come indesiderabile. E questo non va bene”.

Abbiamo fatto un patto con i pazienti”, dice Rullo, “cercheremo di essere più tolleranti quando hanno degli episodi, ma dovranno esserlo anche loro con i loro compagni, con i dottori e con gli operatori”. Alla conversazione si unisce la psichiatra e psicoterapeuta Grazia Cassatella, che è a Villa Letizia da otto mesi. “Appena in tempo per passare dai progetti di apertura e reinserimento alla chiusura di quasi tutte le attività”, spiega. “Laboratori come quello teatrale o musicale sono stati sospesi, così come le semplici passeggiate, e chi tra i pazienti faceva volontariato o usciva per lavorare ora non può più farlo”. Cassatella parla di valvole di sfogo che si sono chiuse da un giorno all’altro, e dice che questo non poteva non avere conseguenze. “Fabio non vede i suoi da un anno, era pronto a fare dei passi in avanti ma gli è stato detto di fermarsi. Una ragazza di 24 anni ci teneva ad andare a casa del padre e a rivedere la madre, ma non avendo potuto fare nulla, è entrata in un modus anoressico per cui rifiuta tutto il cibo che le diamo, facendoci preoccupare molto”.

Uno dei modi che gli psichiatri di Villa Letizia hanno trovato per lavorare sulle piccole e grandi tempeste che la pandemia agita nei loro pazienti è vedersi tutti insieme ogni mattina nel giardino esterno della struttura. Seduti in cerchio a distanza di sicurezza, ognuno esprime le proprie paure e le proprie rabbie. “È qualcosa a metà tra una riunione di condominio e un’attività terapeutica”, dice Rullo, “ma in qualche modo funziona”.

L’assemblea

L’assemblea comincia sotto il sole alto delle dieci del mattino e va avanti per più di un’ora. Santo Rullo chiede ai quindici pazienti davanti a lui chi si sente triste. “Io!”, grida Chiara, 37 anni, piccola e nervosa. “Ma quanto dura questa tristezza?”, vuole sapere il dottore. “Mille anni”, dice Chiara a pieni polmoni. E dopo, con un’ottava più bassa, aggiunge: “Poi passa”. Qualcuno non sente, qualcun altro sorride.

Gaetano è seduto su una cyclette e interviene in un momento di silenzio: “Dice che in America gli scienziati stanno trovando delle soluzioni. Rullo, quando smette questa cosa?”. È una domanda che risuona in tutto il mondo. Lo psichiatra cerca di essere il più onesto possibile: “Molti esperti sono al lavoro, ma quando tutto questo finirà ancora non lo sappiamo con certezza”. Massimo, che è immortale ma anche molto ansioso, racconta di averlo sentito in radio: “Dicevano che finisce il 3-4 maggio, bisogna avere pazienza”. Rullo non crede a quello che ha appena sentito: “Pazienza? Hai detto che bisogna avere pazienza? Beh, detto da te vuol dire che sei guarito!”. Massimo annuisce e un sorriso leggero gli si disegna sulle labbra.

Gloria, una ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri come l’inchiostro, mostra una certa sfiducia: “Noi qui ci comportiamo bene, ma gli altri fuori come si stanno comportando?”. Rullo affronta la questione in maniera diretta: “Molte delle vostre storie sono caratterizzate dalla sfiducia verso qualcuno: un genitore, un dottore, un amico, voi stessi. In questo momento invece dobbiamo avere più fiducia. Le persone che prima vi spaventavano, anche loro si sono riscoperte più vulnerabili. Anche loro stanno capendo che siamo tutti fragili”. Gloria aggiunge un ulteriore motivo di preoccupazione: “Comunque dicono che quando finirà, la ripresa sarà durissima. Come faremo, come si farà?”. “Si farà abituandosi a un mondo nuovo”, risponde lo psichiatra. “Vi ricordate quanto è stato difficile all’inizio stare lontani gli uni dagli altri, indossare le mascherine, lavarsi più spesso le mani? Eppure ce l’abbiamo fatta. Approfittate della quarantena per individuare le vostre risorse e per sfruttarle. Chiedetevi cosa potete fare voi per modificare la vostra vita, senza avere troppa sfiducia e senza incolpare sempre gli altri”.

Prima di sciogliersi, l’assemblea si dà dei compiti. C’è chi pulirà la sala dove si mangia, chi i corridoi e chi i giardini. Poi, prima di pranzo, ci si riunirà in piccoli gruppi terapeutici dove si discuterà ancora più a fondo delle proprie emozioni.

I più giovani

Dall’altra parte del giardino, a pochi metri dall’ingresso di Villa Letizia, c’è quello di Villa madre Chiara Ricci, che ospita 19 minorenni. Le due strutture sono separate anche se condividono alcuni medici e specialisti. Ad accompagnarmi nella seconda è la psicoterapeuta Maria Rita Ludovici. Occhiali da vista sul naso e mascherina sulla bocca, Ludovici spiega che ragazze e ragazzi sono quasi tutti di Roma o del Lazio. Il più giovane ha 14 anni, ma ci sono anche diversi maggiorenni. “Tecnicamente potrebbero stare solo fino ai 18 anni, ma se c’è un progetto scolastico in corso, allora restano fino al diploma”.

Mentre saliamo le scale dell’edificio, la dottoressa racconta che la maggioranza di loro è passata per l’uso di marijuana e che tutti hanno famiglie più o meno disfunzionali. “Tanti genitori non riescono o non vogliono riconoscere che i figli hanno delle patologie”, dice Ludovici, “oppure che spacciano o che stanno abusando di certe sostanze. In questi casi, le asl segnalano al tribunale che c’è qualcosa che non va e un giudice dopo vari inviti a intervenire può decidere di sospendere la patria potestà”.

Dopo due rampe di scale incontriamo un paio di ragazze. Il primo piano è la parte dell’edificio riservata a loro. Ognuna ha una camera con bagno e fino a poco tempo fa poteva condividere un divano con le altre per guardare la tv. Ora se vogliono farlo devono sedersi a distanza su delle sedie. Qui i ragazzi non possono entrare, il loro piano è il secondo. È lì che ne incontriamo tre che giocano alla Playstation. “L’hanno avuta a grande richiesta, una concessione per la quarantena”, dice la psicoterapeuta. Su un terrazzino, un gruppetto di ragazze e ragazzi si gode il sole, qualcuno abbracciato, qualcuno sdraiato su qualcun altro. “Ci proviamo a dirgli di stare attenti e di mantenere le distanze di sicurezza, ma con i più giovani non è così semplice”, dice Ludovici. “E del resto, con loro buona parte del lavoro che facevamo prima dell’emergenza era incentrato sull’importanza del gruppo, della vicinanza, mentre ora non possiamo fare più niente del genere, compresi i laboratori di teatro o di musica, oppure le due uscite settimanali durante le quali cercavamo di capire come se la cavavano da soli”.

Tutto questo non è stato indolore. “Ragazze e ragazzi ribollono, la loro impulsività è aumentata”, dice Ludovici. Molti vanno nel cortile esterno a sfogarsi, qualcuno urla, qualcuno crolla. Due all’inizio dell’emergenza sono scappati per provare a passare la quarantena a casa. “Quando sono tornati abbiamo dovuto metterli in isolamento in camera loro”, racconta la dottoressa. Una ragazza ha tentato il suicidio due volte. “Quando è stata ricoverata al Bambino Gesù l’ha visitata un medico che poi è stato trovato positivo al covid-19, ma per fortuna le hanno fatto il tampone ed è risultato negativo”.

Non passa giorno che qualcuno non chieda quando finirà tutto questo, quando si potrà tornare a scuola, a uscire, a vedere i propri genitori.

Alternative

In un mondo che si è fermato per cercare di contenere il contagio del nuovo coronavirus, il rumore che copriva ogni cosa è diminuito ed è emerso con più chiarezza lo stridore di tanti meccanismi inceppati o rotti. La pandemia, com’è successo in altri casi, ha reso più evidenti le debolezze anche nel perimetro della salute mentale. “Arriviamo a questa situazione dopo anni di tagli, che hanno depotenziato i centri di salute mentale, i centri diurni, le asl”, spiega Santo Rullo. “Questi servizi in psichiatria sono fondamentali, perché sono sentinelle sul territorio. Da un lato dovrebbero intercettare le situazioni di crisi e dall’altro fornire dei progetti per accogliere chi le ha superate”. Non ce la fanno perché tanti hanno poco budget e poco personale, e così non riescono a immaginare niente che non sia la sopravvivenza quotidiana.

Faccio un esempio che ci riguarda”, dice lo psichiatra di Villa Letizia. “Per noi undici dei nostri pazienti, undici su venticinque, potrebbero uscire, ma non c’è nessun progetto per loro fuori”. Negli anni, Rullo e i suoi collaboratori sono riusciti a costruire qualcosa per qualcuno. Una coppia ora vive in maniera autonoma a pochi passi dal centro, mentre “Karim e Mario, due ragazzi che hanno sofferto per anni, stanno a un chilometro da qui, e prima della quarantena venivano solo per qualche attività diurna”. E poi c’è la storia di Daniele, che da ragazzo era esploso in alcuni episodi di violenza in famiglia. Era arrivato a Villa Letizia molto giovane e ora è uno degli operatori.

Costruire delle alternative aiuta le strutture a reagire meglio in momenti di emergenza come quello attuale”, dice Rullo. “Per molti nostri pazienti Villa Letizia è come una casa, ma succede che nei momenti di difficoltà, di chiusura, di alternative ridotte a zero come quelli che stiamo vivendo, qualcuno pensi che sia un manicomio e si chieda perché debba stare qui per anni senza avere diritto ad altro”.

La speranza di Rullo è che dopo la pandemia si esca da questo vicolo cieco. “La politica dovrebbe rendersi conto che privare di aiuto o alternative una persona che soffre di problemi psichici spesso significa lasciarla scivolare nell’imbuto dei reati, fatti gravi ma anche ridicoli”, dice lo psichiatra. Fatti che in mancanza di ascolto, aiuto e alternative, portano chi soffre negli unici due luoghi che per loro restano sempre aperti, ovvero le aule giudiziarie e le carceri.

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