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L’invasione russa dell’Ucraina apre una nuova fase storica

L’inizio della cosiddetta Operazione Speciale del Cremlino in Ucraina è uno spartiacque per le relazioni internazionali.

Tale azione ha, ed avrà, conseguenze che complicheranno ulteriormente il difficile quadro di governance della crisi dell’attuale modo di produzione capitalistico, giunto ora ad un punto di svolta nella definizione di diversi blocchi contrapposti.

É chiaro che gli apprendisti stregoni che hanno portato a tale punto di macerazione le storture di questo sistema delle relazioni internazionali si stanno già adoperando per far ricadere sulle classi subalterne le proprie scelte scellerate, nel mentre alimentano uno sciovinismo guerrafondaio ed una guerra psicologica assolutamente preoccupante, e per certi versi inedita, a questi livelli.

Cercano di colmare con lo sciovinismo la strutturale mancanza di fiducia nell’operato delle élite, ma è un succedaneo che esprime la debolezza di chi ha perso da tempo la propria capacità egemonica.

Questo avviene in un contesto in cui le contraddizioni strutturali di questo sistema sembrano approfondirsi anziché risolversi: tendenza alla guerra, crisi ecologica, incapacità di assicurare uno sviluppo (anche scientifico) che appaghi i bisogni delle popolazioni, o quanto meno inverta il processo di immiserimento crescente, torsione autoritaria – non solo in Occidente – che annulla i processi di partecipazione democratica sulle scelte politiche di fondo e relativizza ancora ulteriormente il ruolo dei “corpi intermedi”.

E dato non da sottovalutare la criminalizzazione di ogni voce fuori dal coro, anche se solo lievemente critica nei confronti del delirio bellicista. In tempi di guerra, anche la più flebile voce diviene subito “il nemico interno”, perché rischia di ostacolare la mobilitazione reazionaria di massa.

L’unica posizione consentita è quella interventista, senza se e senza ma, il resto è dipinto come una forma di complicità con il nemico.

Le Grandi Potenze stanno fallendo miseramente, anche se con gradi di responsabilità diverse (per ora con la Cina come notevole eccezione), e non riescono a trovare una soluzione che non ingigantisca qualsiasi problema, anziché risolverlo.

Volendo ricorrere alla saggezza popolare, ogni volta che prendono una decisione la toppa è peggiore del buco.

Proviamo a mettere in evidenza le conseguenze, diciamo così più immediate, di questa escalation bellica, collocandole dentro le tendenze che si erano espresse da tempo e cerchiamo di prefigurare gli scenari possibili.

Facendo questo siamo consci che “nessuno ha la sfera di cristallo”, e che soprattutto siamo entrati in una dinamica dove gli esiti delle decisioni intraprese sfuggono – parzialmente o totalmente – alla capacità predittiva di chi le effettua, nonostante la verticalizzazione complessiva della politica ed i minuziosi calcoli degli esperti sul “rapporto costi/benefici”.

Ed è chiaro che si potrà dare un quadro più organico della piega che potranno prendere gli eventi solo dopo le armi taceranno in Ucraina.

Si è scoperchiato il vaso di Pandora e si è consumata l’epoca che si era aperta con il “crollo” del muro di Berlino e la fine dell’URSS.

1) Una serie di sanzioni economiche in crescendo, ipotizzate da tempo dall’Occidente contro la Russia, caldeggiate in particolare dagli alleati anglo-americani e dagli stati dell’Unione Europea più ostili alla Federazione e più vicini a Washington.

Per ciò che concerne i 27 della UE sono già stati attuati tre nuovi pacchetti, che colpiscono anche Putin e Lavrov, e che insieme alla sospensione di Mosca dal Consiglio Europeo sono tra le principali misure di ritorsione politico-economica adottate dall’Unione contro la Russia.

Le dichiarazioni del capo della diplomazia europea, Joseph Borrell, già dopo l’approvazione del secondo pacchetto, davano la cifra del deterioramento dei rapporti tra Mosca e Bruxelles: “vogliamo isolare la Russia dalla comunità internazionale”.

Tutti i maggiori esponenti politici europei hanno ribadito dopo il “secondo giro” di sanzioni – colpiranno alcuni settori dell’export europeo verso la Russia, ma non intaccano la fornitura di idrocarburi da Mosca ai paesi europei – che “tutte le opzioni sono sul tavolo”, compreso il tagliar fuori la Federazione dallo Swift.

Ed in quella direzione si sono mossi.

Lo Swift è il sistema elettronico di scambi interbancari internazionali usato dall’Occidente che ne garantisce la connettività “in tempo reale”. Ma da tempo non è più l’unico…

Oltre ai comparti manifatturieri interessati (petrolifero, trasporto e high-tech), le sanzioni decise già giovedì sera della scorsa settimana dovrebbero colpire il 70% del settore finanziario russo, secondo quanto riporta il Sole 24 Ore dello scorso sabato.

Si tratta di misure che hanno un potenziale più “simbolico” che reale, viste una serie di contro-misure complessive già intraprese in maniera preventiva da Mosca dal 2014, e che l’attuale valore di mercato degli idrocarburi rende ancora più aleatorie.

In realtà queste scelte accelereranno il processo di de-conessione della Russia dall’Occidente e incrementeranno la relazione strategica che ha intrapreso con Pechino (ed in parte con Teheran), verso un blocco “euro-asiatico” che avrà nella criptovaluta cinese e nell’intreccio dei sistemi di pagamento cinese e russo – alternativi allo Swift – solidi strumenti economico-commerciali.

In questi anni Mosca ha di fatto azzerato il suo acquisto di debito pubblico nord-americano, aumentato le sue riserve monetarie in valuta estere – specie in Euro, per la vendita degli idrocarburi e della materie prime di cui cui è un’importante esportatore (metalli e cereali, oltre all’oil and gas ) – ed aumentato le riserve auree, oltre ad avere un deficit debito/PIL assolutamente trascurabile.

Il Fondo Sovrano moscovita, che valeva 32 miliardi di dollari nel 2008, oggi vale 175 miliardi; cioè un decimo del PIL russo.

Detto questo, è chiaro che la cerchia di potere oligarchica – che vede notevolmente ridotti, praticamente azzerati, i suoi margini di azione nei circuiti finanziari occidentali – cresciuta dentro il mondo della globalizzazione neoliberista, si vede tagliato quel cordone ombelicale che la legava a quel mondo in cui aspirava ad avere una collocazione alla pari delle altre élite economiche.

Ma banche e borse cinesi stanno aumentando la capacità di attrazione nei confronti capitale internazionale (anche statunitense), e quindi possono sopperire in parte al congelamento vero e proprio degli asset degli oligarchi.

É bene ricordare come sia stata colpita la maggiore banca russa, verso cui sono esposti i maggiori istituti di credito nostrani (Intesa e Unicredit), un fatto che non trova precedenti all’interno dei paesi del G20.

Questo genere di provvedimenti sono inoltre  un’arma a doppio taglio per chi le applica, in particolare per i paesi – tra cui l’Italia – che a causa delle contro-sanzioni russe del 2014 avevano già subito conseguenze economiche non trascurabili, che i politici di ogni risma hanno cercato di nascondere sempre “sotto il tappeto”.

A maggior ragione se pensiamo che la questione energetica, su cui torneremo, è una una possibile arma negoziale russa che non può in alcun modo, per ora, essere neutralizzata.

Non è peregrino pensare che sarà usata per far accettare di fatto la  balcanizzazione dell’Ucraina che Mosca imporrà  se la sua avventura militare avrà un esito positivo.

In generale l’UE si conferma uno strumento capace soprattutto  – grazie alle sue scelte – di ritorcersi contro le classi subalterne e di impoverire il ceto medio, in particolare per quei paesi della periferia integrata che hanno dismesso quella minima capacità di attutire gli effetti delle molteplici crisi che l’attraversano.

2) Una maggiore militarizzazione del confine con l’Europa Orientale, da parte di truppe dell’Alleanza Atlantica.

L’Alleanza Atlantica – in una riunione virtuale in cui hanno partecipato anche due Stati che non ne sono membri (Svezia e Finlandia) – ha deciso Il ridispiegamento della Forza di Reazione Rapida, cioè un contingente composto da più di 40 mila uomini, con una avanguardia di 5.000 (VJTF) ora sotto comando francese.

La NATO, lungo il suo “fianco orientale”, ha un apparato militare che comprende basi militari, aeree e postazioni balistiche, risultato di quella sua espansione a Est dalla fine del mondo bipolare fino ad oggi.

Nelle intenzioni di Washington, con il colpo di Stato del 2014 e la possibile adesione dell’Ucraina alla NATO (votata dal Parlamento e ribadita dall’attuale presidente), si sarebbe voluta portare questa nuova cortina di ferro che accerchia la Russia dall’Elba, dov’era ai tempi della Guerra Fredda, praticamente fino al Don.

Le 4 basi militari dell’Alleanza Atlantica – una per ogni Stato baltico più la Polonia – si affiancano a 3 basi aeree che vanno dall’Estonia alla Romania.

Usa e Gran Bretagna stanno inoltre implementando il numero dei loro militari forniti al contingente NATO.

Gli USA hanno 5 basi nella regione, di cui 4 in Polonia ed un numero elevato di effettivi, che ha deciso di implementare già prima dell’incontro dell’Alleanza Atlantica: settemila inviati in Germania mentre seimila erano stati ricollocati più a est.

Gli Stati Uniti hanno quasi 6 mila uomini nella sola Polonia.

Per ciò che riguarda l’Italia, in ambito dell’Alleanza Atlantica, oltre agli impegni previsti in Lettonia e nel Mar Nero e nelle missioni navali di pattugliamento nel Mediterraneo e nel Mar Nero, il recente Consiglio dei ministri del governo Draghi mette a disposizione della Forza di Reazione Rapida ulteriori uomini e mezzi: 1350 in tutto.

Infine, viene innalzata la “prontezza” dell’unità di rinforzo, prevedendo un impiego aggiuntivo fino a 2.000 effettivi che potrebbero unirsi alla Forza di Reazione Rapida.

Si conferma e si rinforza quindi, per ora, il ruolo della NATO come principale strumento dell’imperialismo anglo-americano e come “camera di compensazione” tra gli interessi dei suoi membri; compresa la Turchia, che in questa partita geopolitica – che la riguarda direttamente – non è riuscita a  giocare il ruolo che avrebbe desiderato.

3)Le conseguenze sul settore energetico sono una parte importante della “partita ucraina” e possibile volano di ulteriori crisi economiche, vista la strutturale dipendenza della UE – in particolare dell’Italia – dal petrolio e dal gas russo, oltre che del già elevato prezzo del petrolio (Brent e Wti molto oltre la soglia dei 100 dollari al barile), ed il gas che ha raggiunto il picco storico in queste settimane.

Il rincaro dei prezzi delle materie prime energetiche è alla base dell’impennata dei prezzi che ha portato ad una imprevista crescita dell’inflazione, ormai a livelli inusuali da anni, specie negli USA e nella UE.

Questo è un ostacolo per i paesi che si apprestavano a varare una diversa gestione della governance economica, con l’UE che era proiettata a porre fine al Quantitative Easing ed alzare i tassi, oltre a non dilazionare ulteriormente i vincoli del Patto di Stabilità.

Alcuni analisti sostengono che, con il petrolio ed il gas a questi livelli, non è peregrino pensare ad una inflazione al 10% accoppiata ad una mancata ripresa economica, che porterebbe le maggiori economie occidentali ad una situazione di stagflazione.

Il fantasma della stagflazione, già da prima dell’invasione dell’Ucraina, dominava il dibattito degli analisti, considerato che negli USA era arrivata all’8%, mentre nella UE era al 5% ed ora al 5,8%.

Il Fondo Monetario Internazionale aveva già previsto per quest’anno, per le economie avanzate, un aumento del PIL inferiore a quello dell’anno precedente: 3,5% nel 2022 contro il 4,4% dello scorso anno, ma con un il petrolio attorno ai 77 dollari al barile (mentre in questi giorni è a 118), valore molto inferiore a quello attuale e che rende quindi eccessivamente ottimistiche quelle previsioni.

Questo limiterebbe l’efficacia del sostegno pubblico al mercato privato, usato negli ultimi due anni come base per la ripresa economica, su cui hanno scommesso sia gli USA che l’UE in proporzioni simili (attorno al 18% del PIL complessivo), ma con ordini di grandezza economici diversi.

Questo potrebbe voler dire che la serie di misure anti-cicliche attuate dall’Occidente in questi quasi 15 anni di crisi hanno ormai perso la loro efficacia.

Una primissima conseguenza delle tensioni russo-ucraine, ben prima dell’escalation militare, è stato l’aumento  delle forniture di olio e gas da parte degli USA e dal Qatar, all’UE.

Sia detto per inciso: il Qatar è il principale finanziatore della politica neo-ottomana di Erdogan, con cui Francia e Grecia sono da tempo ai ferri corti.

Per quanto riguarda l’Italia, si è verificata una maggiore fornitura dagli altri due paesi “partner” energetici, come l’Algeria e l’Arzebaigian, e anche da altri paesi.

In generale, bisogna ricordare che gli USA sono diventati il maggiore produttore petrolifero a livello mondiale negli anni che hanno preceduto la crisi pandemica. É un attore “esterno” – e spesso in conflitto – al cartello dell’OPEC e dalla sua sua versione allargata OPEC PLUS (di cui fa parte la Russia).

Una parte importante del petrolio e del gas statunitense è però “di scisto”, e viene quindi estratto con una procedura – il fracking – che ha notevoli costi di produzione, conveniente quindi solo il prezzo degli idrocarburi sul mercato è molto alto e solo se estratto in grande quantità; oltre ad avere un notevole impatto ecologico.

Questa produzione avviene oltretutto in una manciata di Stati USA che devono al settore dell’oil and gas una parte consistente delle proprie fortune e che sono diventati elettoralmente degli “Swinging State”, determinanti alle ultime presidenziali, ma non solo.

Bisogna considerare quindi il loro peso nell’attuale politica interna statunitense, considerate tra l’altro le elezioni mid-term di quest’autunno in cui i democratici potrebbero perdere la maggioranza al Congresso e spianare la strada a Donald Trump per la sua nuova sfida alla Casa Bianca.

In generale, tutti gli esperti hanno messo in luce come – nelle  attuali condizioni complessive – non possono essere sostituite da altri soggetti le forniture russe alla UE, a costo di un drastico calo delle capacità energetiche della UE in un momento di ripresa incerta, che sarebbe oltremodo minata da questo deficit.

Un gap che la sospensione a settembre del Nord Stream 2, da parte della Germania, nonostante la conduttura fosse completata e affiancasse quella ultimata nel 2011, non ha fatto che aumentare, ai danni soprattutto degli altri paesi europei.

Questa decisione è stata recentemente confermata obtorto collo dal Cancelliere tedesco, accogliendo quelli che erano i desiderata USA già sotto Trump.

Appare chiaro come, in questa situazione, la transizione ecologica sarà ulteriormente subordinata (dunque rinviata) ai bisogni immediati del settore privato di assicurarsi risorse energetiche a tutti i costi, riconfermando l’uso del nucleare e del carbone – già integrati nella “tassonomia green europea” – insieme a shale oil e gas statunitense come alternative di medio termine, che riducono ulteriormente il settore delle “rinnovabili” a fatto meramente accessorio.

4) La riconferma della maggiore necessità di una autonomia strategica dell’Unione Europea su questioni centrali rientra prepotentemente nell’agenda politica di Bruxelles, così come il rilancio del processo di integrazione/estensione dell’UE, visto lo stop rappresentato dal colpo di mano russo.

Una autonomia che la renda sempre più indipendente a tutti i livelli ed in grado di giocare un ruolo nel contesto di “iper-competizione” tra blocchi.

In questa fase, oggettivamente, l’UE ha confermato che non ci sta a fare il “vaso di coccio” tra il rinsaldato asse anglo-americano e il nascente blocco euro-asiatico. Ne è testimonianza la volontà di giocare un ruolo nella crisi ucraina con un profilo di maggiore autonomia da USA e Gran Bretagna, cercando di recuperare il terreno perduto, ma con un salto bellicista e guerrafondaio che fa apparire quasi come “colombe” USA e Gran Bretagna.

L’azione militare russa blocca manu militari sia l’estensione della NATO sia il tentativo di allargamento della UE a est.

Dopo la Bielorussa, l’Ucraina è l’ennesimo fallimento dell’Unione nell’estendere il suo progetto a territori che facevano parte dell’Unione Sovietica, giocando di concerto con la NATO.

L’UE sull’Ucraina ha subito una “doppia sconfitta”, considerato che le mobilitazioni iniziate in autunno a Kiev nel 2013 si erano sviluppate a causa della decisione dell’allora presidente Viktor Yanukovych di sospendere la firma di un controverso trattato economico – dal forte sapore politico – che avrebbe legato l’Ucraina all’Unione Europea, e che sarebbe dovuto essere avviato a Vilnius pochi mesi dopo.

Un trattato a cui il Presidente eletto nel 2010 preferì l’aiuto finanziario russo e maggiori legami con Mosca, suscitando l’irritazione dei possibili partner europei e scatenando le proteste nella capitale.

L’accordo che sarebbe dovuto essere firmato con la UE divideva nettamente la società ucraina e vedeva nel PC ucraino uno strenuo oppositore. L’Ucraina, dopo la fine dell’URSS, aveva sempre oscillato tra Occidente ed Oriente, a seconda dei governi che si erano instaurati.

Nel 2014 gli USA hanno di fatto imposto il nuovo corso politico, senza possibilità di mediazione alcuna, portando alle estreme conseguenze l’euro-Maidan e marginalizzando quei soggetti che erano i referenti politici locali dell’UE, attraverso soprattutto la Germania.

Gli Stati Uniti si sono appoggiati in maniera netta alle formazioni neonaziste che erano per una risoluta opposizione ad ogni forma trattativa con il governo, nonché la frangia più violenta e organizzata del movimento cresciuta nel corso degli anni, anche grazie all’inerzia delle autorità politiche ucraine che non si sono accorte di come la serpe gli crescesse in seno.

La famosa esclamazione “Fuck the EU”, di Victoria Nuland, durante la conversazione telefonica con l’ambasciatore statunitense in loco, dà la cifra dello strappo di Washington nell’imporre la propria agenda su quel paese primeggiando sul resto dell’opposizione. L’Unione si è comunque poi avvantaggiata di questo strappo.

Basta pensare che il 21 marzo del 2014, poco dopo il colpo di stato, al Summit UE a Bruxelles, sono state firmati i protocolli politici dell’Ukraine-European Union Association Agreement dai leader europei e dal presidente “ad interim” ucraino Arsenal Yatseniuk.

Colpisce che questo sia avvenuto solo qualche settimana dopo la destituzione dell’ex presidente da parte della Junta golpista.

Questo trattato è stato poi formalmente ratificato dal presidente Petro Poroshenko, il 27 giugno dello stesso anno, dichiarando che si trattava del “primo, ma più decisivo passo verso l’ingresso nella UE” ed è entrato in vigore il primo settembre del 2017.

Il Trattato stabilisce una cooperazione ed una convergenza su molti punti – tra cui quello della difesa -, garantisce l’accesso alla Banca Europea degli Investimenti, oltre a stabilire una profonda e allargata area di libero scambio tra Ucraina ed UE.

Per la seconda volta, dopo la “rivoluzione colorata” del 2004, l’Ucraina si è volta ad ovest.

Il corso politico seguito alla destituzione di Yanukovych a fine febbraio, dopo la sua fuga, ha replicato una specie di nuovo “Metodo Giacarta”, con l’escalation della repressione interna contro l’opposizione al colpo di Stato – che ha colpito in particolari i comunisti – e la vera e propria guerra alle popolazioni del Donbass.

Questo piano è stato “mutilato” dall’annessione della Crimea alla Russia con il referendum del 16 marzo – a causa della quale sono state promulgate le prime sanzioni europee contro la Russia – e dalla Resistenza delle Repubbliche Popolari.

Le due Repubbliche popolari si sono auto-proclamate tali ad aprile, ed hanno anche loro tenuto un referendum popolare per la propria indipendenza da Kiev dopo la “Strage di Odessa” del 2 maggio.

Gli accordi di Minsk, firmati a settembre del 2014 da rappresentanti di Ucraina, Russia e OCSE, composti da 12 punti più un memorandum supplementare, anche se hanno portato ad un congelamento “temporaneo” del conflitto, sono stati comunque largamente disattesi e non hanno impedito un crollo del cessate il fuoco nel gennaio-febbraio dell’anno successivo.

Anche gli accordi di Minsk II firmati l’11 febbraio dell’anno successivo da Ucraina, Russia, Francia e Germania, intervenuti proprio per ristabilire una cessione dell’ostilità, sono stati disattesi. Mai dunque  si è giunti a porre le condizioni politiche, per l’avvio di un processo di pace basato sull’applicazione delle misure in favore dei cittadini dell’Ucraina orientale.

La presenza dell’OCSE non ha per nulla garantito il rispetto della cessazione delle ostilità.

Conclusioni

Le conseguenze della crisi apertasi con l’intervento russo e di cui, oggi, non si può prevedere con qualche certezza quali saranno i risultati sul campo, aprono una “nuova fase” in cui vediamo l’accelerazione di alcune tendenze già in atto da tempo, ma che senz’altro pongono un forte livello di cesura – “un prima” ed “un dopo” – con il corso precedente.

Siamo di fronte ad un salto di qualità nel precipitare di alcune contraddizioni cui la guerra in Ucraina ha fatto da incubatrice, che interessano da vicino il movimento di classe nel suo insieme e le forze comuniste, su cui è bene sin da ora rafforzare l’analisi ed incrementare il dibattito, oltre a promuovere una coerente campagna contro la guerra.

* Rete dei Comunisti

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