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Pronto moda in Toscana, operai in sciopero. Sprangato sindacalista

Chi tocca uno tocca tutti. Via via caporali!” Le frasi urlate ieri mattina, con accento straniero, dalle voci degli uomini raccolti in presidio davanti alla Prefettura di Prato. Sono i lavoratori della Acca S.r.l di Seano, ditta di trasporti del Pronto Moda.

La notte prima, un loro delegato è stato aspettato sotto casa da due persone col volto coperto da caschi integrali, sprangato senza pietà e salvato solo dall’intervento di alcuni residenti.

Due mesi fa l’azienda è stata al centro di una dura vertenza sindacale: lavoro nero, turni da 12-13 ore, contratti part-time che ne prevedono due o tre, nessun diritto a malattia e ferie, nessuna sicurezza.

I delegati si sono esposti per ottenere contratti regolari, rispetto del Contratto collettivo nazionale, osservanza delle leggi. Ne è scaturito un accordo che ha restituito diritti ai lavoratori, ma che la ditta non è disposta ad accettare.

Per primo è stato aggredito Khalil: anche lui atteso sotto casa, picchiato e mandato all’ospedale. L’altra notte è toccato a Ljaz dei SI Cobas. Nei due mesi fra le aggressioni, tantissime le minacce ai dipendenti da parte dei caporali.

Nell’intero distretto è in corso un’escalation di violenza sui lavoratori. Rappresaglie che servono a far tornare tutto come prima: al nero, alle 12 ore al giorno, al lavoro da malati, agli infortuni non denunciati.

Siamo nel “metadistretto” toscano della moda, che occupa più di un terzo di chi è impiegato nella manifattura in tutta la regione.

Il sistema produttivo del tessile-abbigliamento pratese ne è un asse portante. Da più di un decennio è divorato da questo cancro: l’illegalità economica nasce dalla concorrenza sleale nel settore della moda, cresce e si diffonde in modo capillare ad altri settori: un far west fatto di migliaia di aziende con un ciclo di vita breve programmato, che eludono sistematicamente e scientemente i controlli operando al di fuori della legge e traggono il loro profitto da uno sfruttamento illimitato.

Le inchieste sono numerose. La produzione illegale dell’abbigliamento, a conduzione perlopiù cinese, è un vero e proprio sistema che, partendo dalla vendita, viene guidato dalle aziende committenti (i Pronto Moda).

La produzione è completamente esternalizzata a società terze (tintorie, stamperie e confezioni) di norma intestate a prestanome, che organizzano la produzione basandosi sullo sfruttamento lavorativo di persone immigrate.

I Pronto Moda, unici soggetti solvibili, scaricano sui terzisti la responsabilità dei lavoratori e ciò si traduce in retribuzioni non corrisposte, contribuzioni non versate, mancata sicurezza.

Grazie all’esternalizzazione delle produzioni, nessuno ne risponde. Conduzione cinese, dicevo, però parte dei soldi generati dallo sfruttamento arriva nelle tasche di un buon numero di italiani.

Me lo racconta Massimiliano Brezzo della Filctem Cgil, storico sindacalista del tessile: i capannoni dove avviene giornalmente lo sfruttamento sono di proprietà italiana, italiani sono i commercialisti che amministrano la contabilità delle ditte illegali, italiani i consulenti del lavoro che predispongono le assunzioni part-time, le buste paga da quattro-cinquecento euro mensili, le dimissioni e le riassunzioni, italiani gli avvocati e i notai che registrano cambi di società fatti ogni due anni (mentre si resta nello stesso fabbricato e con gli stessi dipendenti), o che curano il fallimento di queste aziende.

Non solo: spesso stamperie, tintorie e pelletterie a conduzione cinese operano conto terzi anche per grandi brand della moda made in Italy.

Il distretto dell’eccellenza e quello della schiavitù e dell’illegalità non sono mondi paralleli, contrapposti e separati, ma in molti casi intrecciati, interconnessi, complementari.

Il sistema di sfruttamento e violenze pratese è un allucinante unicum, una situazione ai confini della realtà? Per nulla, purtroppo. Basta cercare nelle cronache italiane della “black economy”.

Lo scorso anno, a Portomaggiore in provincia di Ferrara, un operaio di origine pakistana è stato picchiato selvaggiamente dai suoi capi per aver osato chiedere il pagamento di poche centinaia di euro, che gli spettavano per il duro lavoro che aveva svolto nei campi.

Pochi giorni fa, le indagini hanno permesso di denunciare quattro persone non solo per lesioni personali, ma per intermediazione illecita, sfruttamento, estorsione.

Ciò che emerge costantemente dalle inchieste, infatti, è un fenomeno che sembra vivere la sua nuova primavera in tanti settori, in tutta Italia: il caporalato. Nella vicenda di Portomaggiore: reclutamento di connazionali (pakistani in questo caso), trasporto della manodopera nelle aziende agricole della zona, e poi coercizione degli operai a svolgere il lavoro nei campi in condizioni di sfruttamento, violando in modo sistematico le normative di settore, tra cui quelle relative all’orario di lavoro, ai riposi, alle ferie e alla paga.

A settembre del 2022 un giovane lavoratore indiano, impiegato nei campi a Pontinia in provincia di Latina, è stato picchiato e ferito con un coltello dopo aver ardito chiedere il giusto compenso per il lavoro svolto.

Nelle campagne, lo sappiamo da tempo, il caporalato dilaga. Ma sempre di caporalato si tratta nelle vicissitudini di Mondo Convenienza, di cui si è tornato a parlare.

L’indagine della Procura di Bologna per fatti commessi tra il 2017 e il 2018 nel magazzino di Calderara di Reno ha condotto al rinvio a giudizio di cinque persone accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: retribuzioni difformi da quanto previsti dai contratti, turni interminabili, violazioni nella sicurezza sul lavoro, metodi degradanti e umilianti di controllo a distanza.

In tutti questi casi i lavoratori, ormai non serve ricordarlo, sono quasi sempre migranti. I più vulnerabili, i più ricattabili, quelli che più hanno da sacrificare con la perdita del posto del lavoro.

Hanno minore accesso alle informazioni sui loro diritti, sulla legislazione del lavoro e sociale, sui servizi offerti dalle istituzioni pubbliche e dai corpi intermedi.

Se titolari di permesso di soggiorno, sanno che è legato a un rapporto di lavoro subordinato: per loro denunciare lo sfruttamento significa rinunciare alla fonte di sostentamento per sé e per la famiglia nel Paese di origine e al diritto di rinnovo del permesso.

Alla perdita del posto segue la perdita dell’alloggio, magari perché dipende direttamente dal rapporto di lavoro, magari perché semplicemente non si è più in grado di pagare l’affitto.

Questi lavoratori diventano “irregolari”. Essere irregolari può voler dire finire in un Centro di permanenza per il rimpatrio. Il nesso fra le politiche in materia di tutela del lavoro e le politiche in materia migratoria emerge in maniera lampante.

Emerge soprattutto guardandone il negativo. Il negativo, disgraziatamente, è lo status quo. Lo Stato e il Governo che investono sul blocco degli sbarchi e sul rafforzamento del sistema dei Cpr sono gli stessi che rifiutano di aprire una discussione su una riorganizzazione del mondo del lavoro che tutelerebbe innanzitutto queste persone.

Gli stessi che hanno sottratto a migliaia di famiglie un sostengo universale al reddito e che respingono ogni proposta di istituzione di un salario minimo legale.

Mentre su tutto ciò servirebbe aprire subito una grande stagione di dibattito e lavoro parlamentare. Su questo e su molto altro: sulla dissuasione dei fenomeni di esternalizzazione, appalto e subappalto, sulla riduzione delle tipologie contrattuali precarie, su interventi che frenino il dilagare dei contratti pirata e delle finte cooperative, ma anche sul rinnovo dei Ccln scaduti da anni e i cui termini salariali vanno adeguati all’aumento dell’inflazione.

E su un nuovo Piano di contrasto allo sfruttamento lavorativo e al caporalato. Un Piano che preveda, per esempio, vigilanza e ispezioni mirate, ma soprattutto forme di collocamento pubblico, rilascio più rapido dei permessi di soggiorno e, per tutelare chi denuncia sfruttamento e violenze, percorsi di inserimento lavorativo per avere una fonte di reddito regolare alternativa, o il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, o la promozione dello strumento del permesso di soggiorno per sfruttamento, che esiste, ma pochissimi lo sanno.

Il ritorno dei caporali – che oggi sembra inarrestabile – è stato battezzato ormai più di dieci anni fa, con gli spari a Rosarno.

Dal 2011 esiste una legge, la n. 148, che ha introdotto nel Codice penale il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Per i caporali prevede la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore coinvolto.

Nel 2016 è stata approvata la legge n. 199 in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Soprattutto, da quasi vent’anni vige un Decreto legislativo, il n. 276 del 2003, sulla responsabilità solidale del committente, che lo obbliga a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di Tfr, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi.

Le Procure e le Prefetture di tutta Italia dovrebbero essere coinvolte per far applicare e rispettare queste norme, per firmare protocolli con le sigle sindacali che si battono in questi contesti difficilissimi, per proteggere i lavoratori che si oppongono ai caporali con la sola forza delle loro voci e la sola presenza dei loro corpi.

Corpi che troppo spesso vengono rimossi e aggrediti dalle stesse forze dell’ordine che sciolgono i picchetti. Da che parte vogliamo stare?

* Deputato Alleanza Verdi Sinistra

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2 Commenti


  • Andrea Vannini

    da che parte vogliamo stare? chiede marco grimaldi. a chi lo chiede? a chi legge il suo intervento (condivisibile)? o lo chiede a se stesso? vista la sua (comoda? scomoda?) collocazione politica. quando si é debitori della propria presenza parlamentare a uno dei nemici dei lavoratori, dei quali il palazzo é pieno, non vedo proprio la credibilità e la utilità delle belle parole.


    • Redazione Roma

      Andrea Vannini, ma qualche punta di ottimismo ogni tanto? Ti farebbe bene, guai a convertirsi in un vecchio brontolone, con affetto

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