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Quel comune senso del potere

Il Consiglio dei ministri di un governo sorretto da Fd’I, Lega, Forza Italia, UDC, Noi con l’Italia ha sciolto per infiltrazioni mafiose il Comune di Anzio, guidato da una giunta sorretta da Fd’I, Lega, Forza Italia, UDC, Noi con l’Italia.

È stata sciolta anche l’amministrazione di Nettuno, sempre di destra, sempre per infiltrazioni mafiose.

Siccome non c’è due senza tre, in tema di ‘ndrangheta è stata sciolta anche la giunta di Cosoleto, piccolo comune del reggino, in Aspromonte, nella Calabria a trazione leghista.

La solita storia: voti in cambio di appalti, o meglio, appalti in cambio di voti.

Lasciamo volentieri ai commentatori di fatti di costume – attività giornalistica meno faticosa e impegnativa dell’inchiesta – di spiegare il dilemma delle due ipotesi, l’una che sosterrebbe sia la ‘ndrangheta che s’infiltra nella politica, l’altra, invece, che afferma sia la politica che si offre alle mafie.

Ovviamente non è una novità che il punto sia proprio il modo losco in cui si è formato nel tempo quel consenso elettorale che da esperienze di tipo locale, si è poi affermato a livello nazionale, e viceversa.

Gli affari hanno bisogno delle lobby politiche per realizzare successi imprenditoriali. La politica bisogno di complicità, di risorse, e relazioni nel mondo imprenditoriale per andare al potere.

Li accomuna anche il controllo del territorio e dei luoghi di produzione, per evitare che si manifesti ribellione spontanea contro i soprusi.

Un tempo si chiamavano “ i forchettoni”, poi venne Tangentopoli, poi la lunga stagione dei conflitti d’interesse: il rapporto tra affari e politica, che con un eufemismo si voluto definire “malaffare” è una, o meglio, la componente precisa dell’esercizio del potere in Italia.

Esprime comando, sia politico che economico.

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