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Brasile, Cuba, Argentina: 2016 come il 1964?

Dopo il ritorno geostrategico degli Stati Uniti in America Latina, la borghesia imperialista in Brasile usa l’impeachment per determinare la rottura istituzionale, mentre a Cuba Obama parla di “democrazia”.

Achille Lollo

La visita di Barak Obama ad Avana, ha evidenziato il colpo basso che l’imperialismo statunitense ha voluto mettere a segno contro il governo cubano nell’ambito dei negoziati che dovrebbero disciplinare le relazioni tra i due paesi dopo cinquantatré anni di conflittualità latente. Purtroppo, le principali rivendicazioni storiche (il blocco economico e l’occupazione del territorio di Guantánamo) sono state ”dimenticate” dal presidente degli Stati Uniti, che, invece, ha pronunciato una retorica cantilena sulla democrazia degli Stati Uniti, nel tentativo di imporre a Raul Castro il diktat imperiale alla stessa maniera di come Obama inquadrò il collaborazionista presidente del Peru, Ollanta Humala.

Pere questo i negoziati si presentano sempre più lunghi e difficili, visto che Obama e John Kerry non sono riusciti a smuovere di un solo millimetro le posizioni originali del governo cubano, nonostante i giornalisti statunitensi, accorsi nella capitale cubana, abbino cercato in mille maniere di mettere in difficoltà il presidente Raul Castro con la storia dei prigionieri politici.

 

Una situazione monopolizzata dalla CNN che – seguendo le orientazioni delle eccellenze della Casa Bianca – ha tentato di trasformare la conferenza stampa dei due presidenti in un processo mediatico dove Raul Castro era il personaggio “fuck poor spirited” (vile farabutto N.d.R.) mentre Obama era l’angelo americano piombato in Avana per dare una lezione di democrazia.

La conferma che questi negoziati saranno lunghi e al limite dell’esaustione, è stata data dal professore Luciano Vasapollo in un’intervista a Radio Onda D’Urto (http://www.radiondadurto.org/2016/03/24/la-visita-di-obama-a-cusa-lanalisi-di-luciano-vasapollo) che in funzione del suo privilegiato link informativo ha riassunto nella suddetta intervista le analisi e i commentari ricevuti da dirigenti del Comitato Centrale del Partito Comunista Cubano, ricercatori di centri studi cubani, membri del governo e di istituzioni importanti della rivoluzione cubana.

Da sottolineare che Luciano Vasapollo, in quanto membro della segreteria nazionale della Rete dei Comunisti e coordinatore con Rita Martufi del capitolo italiano della Rete Internazionale di Intellettuali, Artisti e Movimenti Sociali in difesa dell’Umanità, subito dopo la conferenza stampa di Obama e Raul Castro aveva denunciato  l’assoluto fracasso della manovra semantica introdotta prima da John Kerry e poi finalizzata da Obama davanti ai giornalisti.

 

Nello stesso tempo, mentre una gran parte degli intellettuali restavano muti dopo lo show mediatico di Obana, Luciano Vasapollo pove l’accento sulla posizione univoca manifestata da tutti i membri della delegazione cubana che, sempre rispettando le regole della diplomazia, hanno rigettato tutti i tentativi di manipolazione che, invece, i membri della delegazione della Casa Bianca hanno usato per circoscrivere le trattative  sulle questioni determinanti: il Blocco Economico e lo smantellamento della base/prigione di Guantànamo.

 

Una messa in scena che, in realtà, non ha minimamente impressionato il popolo cubano, ma che però è servita  a confondere gli elettori statunitensi, facendogli dimenticare, per un instante, le sconfitte militari e diplomatiche che gli USA hanno  sofferto in Medio Oriente, in Africa del Nord e in Europa Asia. Infatti, quasi tutti gli editoriali della stampa statunitense, hanno servilmente  sottoscritto la strategia della Casa Bianca, affermando che  “…i negoziati con Cuba potrebbero rappresentare un qualcosa di positivo per il futuro degli Stati Uniti…”.

 

In pratica, lo staff del National Security Council ha preparato un palinsesto che riecheggia quello di John Kennedy, facendo rivivere  negli elettori statunitensi la sognata democratizzazione di Cuba “Made in USA” e che è di estrema importanza per evitare numerosi settori del Partito Democratico, abbandonino la candidatura di Hillary Clinton, che in questo momento vive una tremenda situazione di insicurezza e di contestazione dentro e fuori del partito.

Le vicende politico-diplomatiche  relazionate con le trattative di Cuba con gli USA, hanno prodotto un’interessante riflessione analitica sul futuro dell’America Latina, elaborata insieme al professore Luciano Vasapollo nell’ambito della preparazione dei testi e delle interviste per il settimo programma di WebTV “Contrappunto Internazionale” e la rispettiva versione in spagnolo “Contrapunto Internacional. Una riflessione che indica, chiaramente, come il ritorno geostrategico degli Stati Uniti in America Latina e in America Centrale non è limitato a un solo paese, bensì a tutto il continente. Per questo, dopo il fallimento delle “Mission” in Afghanistan, Iraq, Siria e Libia, Barak Obama e tutto il suo staff nella Casa Bianca sono ossessionati dalla necessità di tornare a controllare, in tempi brevi, il continente latino-americano per riproporre al mondo intero l’efficienza di un rinnovato potere imperiale che, oggi, vuole mostrare la sua presenza bellicosa, realizzando pericolose interferenze, politiche e mediatiche, in quasi tutti i paesi del continente latino-americano, ad esclusione, per l’appunto di Cuba.

 

Per questo, il nuovo scenario geostrategico che l’imperialismo vuole definire nel continente latino-americano per i prossimi tre anni, si avvale di un’esperienza eversiva che negli ultimi quattordici anni non si è mai fermata, tanto che Martin Almada – l’esiliato politico paraguaiano che ha scoperto una parte degli archivi dell’Operazione Condor, intervistato dal programma Contrappunto affermava “…l’Operazione Condor non si è mai fermata. Può aver rallentato la sua  azione sovversiva,  però non ha mai cessato di esistere dal punto di vista operativo…”.

 

Un concetto che ci aiuta a capire il perché dei differenti momenti di destabilizzazione registrati in Amarica Latina, che dal 2002 si sono susseguiti fino al 2012.

In particolare: a) 11/04/2002  il colpo di stato in Venezuela;

  1. b) 24/02/2004: invasione di Haiti da parte dei “marines” e l’espatrio forzato in Africa del Sud del presidente Jean-Bernard Aristide;
  2. c) 02/05/2006: la CIA promuove in Bolivia, la campagna per la secessione della “Mezza Luna”, nei dipartimenti di  Santa Cruz, Beni, Pando e Tarija;
  3. d) 1/03/2008: la CIA, dalla base aereonavale di Manta ( sud-ovest di Equador), coordina l’attacco aereo dell’aviazione colombiana, per bombardare nella provincia di Sucumbias ”l’accampamento diplomatico” delle FARC, dove Raul Reys, con l’appoggio dei paesi dell’ALBA, stava promovendo i contatti  internazionali per iniziare i negoziati di pace;
  4. e) 13/08/ 2006: la CIA organizza in Venezuela la fuga del golpista Carlos Alfonso Ortega Carvajal dal carcere militare Ramo Verde, nello stato di Miranda, facendolo arrivare indenne in Perù, dove il nuovo governo di Alan Garcia subito gli concede l’asilo umanitario;
  5. f) 26/06/2009: Hillary Clinton incarica la CIA di realizzare il colpo di stato in Honduras per deporre il presidente Manuel Zelayas, reo di aver sottoscritto un accordo commerciale con il Venezuela per la fornitura del petrolio a prezzi politici;
  6. g) 6/11/2009: Fallisce il colpo di stato organizzato dalla CIA contro il presidente del Paraguay, Fernando Lugo, reo di aver negato l’istallazione di un comando militare degli USA con 500 “marines” nel dipartimento di Chaco per “proteggere i volontari dell’USAID”;
  7. h) 20/01/2011: L’ambasciatore degli USA in Peru, Rose Mc Carteney Likins inquadra il nuovo presidente, il “nazionalista” Ollanta Humala, per imporre  l’aumento del contingente “straordinario” degli USA  in nove  basi militari del Perù, la manutenzione di tutti gli accordi commerciali e l’autorizzazione della 4° Flotta a usare i porti peruviani come base di appoggio;
  8. i) 28/06/2012: sempre in Paraguay la CIA e le oligarchie del Partito Colorado realizzano un “golpe branco” facendo votare l’impeachment contro il presidente progressista Fernando Lugo.

 

L’agenda dei “progetti eversivi” realizzati dall’imperialismo in America Latina negli ultimi quattordici anni ripropone l’attualità della tesi di Luciano  Vasapollo, Joaquim Arriola e Rita Martufi (in “Il risveglio dei maiali,PIIGS”, Jaca Book 2011) in cui si denunciava l’affermazione di un parallelismo operativo tra l’imperialismo statunitense e quello dell’Unione Europea rappresentato dall’asse franco-tedesco. Un parallelismo che ha messo a punto non solo le nuove strategia di guerra ma, anche le nuove metodologie di conflittualità che permettono all’imperialismo di imporre le condizioni “sine qua non” della competizione globale,  con la quale pretendono rilanciare una nuova fase del Keynesismo bellico e finanziario e, quindi, guadagnare una boccata di ossigeno con cui poter allungare l’agonia del sistema capitalista, soffocato dalla lenta ma tragica crisi sistemica.

 

E’ su questa base che i principali scienziati politici dell’America Latina stanno orientando le proprie analisi, considerandoo che nell’arco degli ultimi sei mesi le eccellenze dell’imperialismo sono riuscite a produrre dei “fatti nuovi” che possono alterare pericolosamente la stabilità del continente latino-americano, visto che, come giustamente Rafael Correa, presidente dell’Equador, “…l’America latina si deve preparare per affrontare e sconfiggere un nuovo Piano Operativo Condor”.  Infatti, l’attenta analisi dei “fatti nuovi che si sono succeduti nel continente dalla fine del 2015 dimostra che:

  1. a) in Venezuela, è in atto una guerra economica per provocare l’implosione del governo rivoluzionario chavista di Nicolas Maduro;
  2. b) In Equador, sono in corso attacchi sovversivi per mettere in difficoltà la Rivoluzione Ciudadana e quindi preparare un forte blocco elettorale con cui sconfiggere Rafael Correea nelle prossime elezioni;
  3. c) in Bolivia, le “antenne della CIA” ha riversato fiumi di dollari per creare una seconda verità nella disputa del referendum riuscendo a non far passare il referendum richiesto da Evo Morales;
  4. d) in Argentina abbiamo assistito ad uno squallido show mediatico in cui la destra, sfruttando gli errori tattici del FRV di Cristina Kikcner è riuscito a eleggere presidente il neo-liberista Maurizio Macri;
  5. e) in Brasile la TV Globo, sta veicolando le stesse tecniche di manipolazione mediatica che il gruppo Clarin ha usato in Argentina per eleggere Macri,  con l’obbiettivo di far passare in Parlamento la votazione dell’impeachmente contro la presidentessa Dilma Roussef.

 

E, “dulcis in fundo” non possiamo dimenticare la sfrontatezza politica e morale di Barak Obama con cui ha affrontato il delicato capitolo storico del regime di dipendenza degli USA, imposto a ferro e fuoco dai governi della “Junta Militar” di Videla, Viola e Gualtieri, e le assurde “relaciones carnais” con gli USA, che il peronista Carlos Menem introdusse in Argentina, provocando la bancarotta del paese, dopo aver venduto a prezzi di banana alle multinazionale statunitensi e  europee tutte le imprese pubbliche argentine. Una situazione, che da parte di Obama, avrebbe meritato un rispettoso silenzio, soprattutto perché il ricordo dei 33.000 desaparecidos e dei dieci milioni di nuovi poveri ,frutto delle privatizzazioni e dei fallimenti nei differenti settori industriali, è ancora vivo in Argentina.

 

Purtroppo, per festeggiare il ritorno della destra in Argentina e il ritorno di questo paese nel “curral” (gallinaio) statunitense, Obama non ha avuto scrupoli, offendendo la memoria degli argentini, vittime del regime militare e poi quella  della demenza di Menem e Cavallo, con la proposta di dimenticare un passato criminale di cui gli Stati Uniti furono il principale inspiratore e beneficiario!

 

Questa agenda di progetti eversivi dimostra la continuità dell’evoluzione geostrategica dell’imperialismo che, oggi, muove contro gli stati sovrani del continente latino-americano nuovi attacchi ricorrendo a una metodologia sempre più sofisticata per realizzare una rottura istituzionale nei paesi con governi progressisti, senza dover arrivare al trogloditico uso delle dittature militari.

 

Un contesto che, oggi, obbliga i movimenti popolari dell’America Latina a:

1) difendere le libertà costituzionali; 2) sostenere le istituzioni democratiche; 3) proteggere  l’autonomia economica e produttiva; 4) sostenere la sovranità nazionale”.  Argomenti che non promuovono la Rivoluzione proletaria ma che, però i rivoluzionari del continente difendono perché, in questo momento, sono le principali rivendicazioni che il movimento popolare può portare avanti.

 

Un concetto più volte esposto da Attilio Boron – noto scienziato politico argentino, presidente dell’ istituto di ricerca socio-politico argentino, CLACSO – secondo il quale e in linea con Luciano Vasapollo (Contrappunto Internazionale 3 e 4) “…il ritorno geostrategico dell’imperialismo in America Latina si è fatto sentire soprattutto in quei paesi dove l’anti-imperialismo aveva assunto posizioni importanti anche nelle istituzioni. Per questo, la vittoria della destra in Argentina con l’elezione di Maurizio Macri,  è appena una componente regionale dell’attacco che l’imperialismo sta muovendo in tutta America Latina, per fermare l’affermazione del progetto dell’ALBA bolivariana, per contrastare l’intensificazione del processo di integrazione regionale attraverso l’Unasul, la CELAC  e il Mercosul  e per impedire l’affermazione  dei progetti formulati dai BRICS in America Latina, creando una situazione caotica dal punto di vista economico e istituzionale in Brasile…”.

 

Un contesto complicato e difficile che non è capito da un’infima minoranza della sinistra chi nei suoi roboanti articoli comunicati dice Raul Castro si prepara a svendere Cuba, che Lula ha fatto carte false per farsi eleggere presidente, che Dilma è una traditora, che Cristina Kikcner è solo un’incompetente vedova allegre, che Maduro non sa come affrontare l’opposizione e che Evo Morales, dopo aver perso il referendum, si avvia sul cammino del definitivo declino politico etc. etc. Accuse da autentico giornalettismo che evidenziano la mancanza di profonde conoscenze analitiche, programmatiche e perché no anche storiche, sull’evoluzione del contesto geostrategico dell’America Latina, dei suoi conflitti di classe nazionali, delle relazioni conflittuali con l’imperialismo statunitense e del regime di dipendenza imposto dal FMI e dalla Banca Mondiale.

 

La dinamica interclassista del lulismo  e le speranze del movimento

 

Nella riflessione collettiva realizzata insieme al professore Luciano Vasapollo, nell’ambito del programma Contrappunto Internazionale, risulta evidente che il principale obbiettivo del lulismo riguarda il rafforzamento della centralità dello Stato Federale e della sua capacità di attenuare le differenze sociali, promuovendo forme di assistenza sociale per i settori popolari più carenti (12% della popolazione) e il credito al consumo anche per i settori popolari (carte di credito controllate). In questo modo le grandi riforme strutturali (agraria, del   lavoro, trasporti, edilizia popolare, piccola e media impresa, difesa della natura, etc. etc.) restarono archiviate nel cassetto delle buone intenzioni durante i primi due governi di Lula e così pure in quelli di Dilma.

 

Il riferimento storico al 1964 – l’anno del colpo di stato civico-militare – non è casuale e tantomeno è un titolo retorico per promuovere la difesa del PT o dello stesso ex-presidente Inàzio Lula da Silva, oggi al centro di pesanti manipolazione promosse dalla TV Globo e valorizzate dall’ala politica della Magistratura e dalla poderosa “Policia Federal”. Infatti, la crisi politica brasiliana, che “i Grandi Media” europei datano erroneamente nel 2014, in occasione dei Mondiali di Calcio, in realtà, cominciò alla fine del secondo governo di  Lula, cioè nel 2011, quando il ciclo benefico del “lulismo” e quindi del relativo modello economico, conosciuto per  “desenvolvimentismo programmatico” (nuovo sviluppo programmato), si eclissarono rapidamente, lasciando, in un mare di guai il proprio PT e, soprattutto, il successore di Lula, Dilma Roussef.

 

Prima di entrare nel merito dell’attuale crisi politica, che può sconvolgere il cosiddetto “Ordem e Progresso” del Brasile con una possibile soluzione autoritaria, è necessario ricordare che il modello politico promosso da Lula nel 2003 con il documento “Carta aos Brasileiros” (che in realtà era il compromesso del nuovo governo con  gli impresari), non prevedeva nessun tipo di rottura politica con il mercato e, tantomeno con la struttura politica oligarchica che aveva governato il Brasile fin dai tempi dell’Impero. In poche parole, il lulismo proponeva al capitalismo brasiliano di rafforzare lo stato, riordinando le relazione tra impresa e forza di lavoro occupata, per poi risolvere il problema della povertà assoluta e promuovere l’apertura economica conquistando “politicamente” nuovi mercati, soprattutto in Africa e in America Latina. Un’opportunità per il capitalismo brasiliano liberarsi dalle limitazioni imposte dal mercato statunitense e dall’OMC (WTC – World Trade Organization).

 

Il lulismo – trasformato da Josè Dirceu, Andrè Singer e Luis Gonzaga Belluzzo in teoria politica – è, in pratica il sinonimo di un pragmatismo politico che, da una parte ripropone in chiave tropicale, alcuni elementi del modello interclassista inventato dalla socialdemocrazia tedesca e da quella olandese, presenti anche  nella formazione della centrale sindacale CUT e poi dello stesso PT. Dall’altra, utilizza numerosi concetti dei sindacati gialli statunitensi, tra cui quello dell’interdipendenza degli interessi tra lavoratori e padroni nei momenti di crisi e della separazione tra rivendicazioni prettamente economiche e quelle di stampo socio-politiche.

 

L’analisi collettiva realizzata  con il professore Luciano Vasapollo sottolineava che gli  elementi formativi sono stati determinanti per definire l’affermazione del pragmatismo lulista nei primi otto anni di governo del PT, anche se poi questo pragmatismo ha dato vita a molteplici e contradditorie  relazioni di collaborazione con le principali componenti della borghesia brasiliana. Infatti, in cambio di una governabilità stabile, Lula e il PT garantivano agli impresari, ai commercianti, ai banchieri e ai latifondisti una pace sociale duratura esercitando un pressante controllo dei movimenti popolari e sindacali. In secondo luogo, il governo trasformava il BNDES (banca pubblica per lo sviluppo) in un’agenzia finanziaria per gli impresari cui offriva generosi prestiti applicando tassi sussidiati per gli investimenti produttivi. Inoltre il BNDES passava a finanziare tutta una serie di programmi di assistenza sociale che nel tempo hanno determinato incalcolabili benefici finanziari e commerciali grazie all’esplosione del consumismo  popolare.

La grande problematica del lulismo è che sia  Lula e poi Dilma, nelle campagne elettorali hanno sempre promesso al movimento popolare programmi di riforme interessanti dal punto di vista politico. Programmi di governo che proponevano la realizzazione di un concreto programma di riforme strutturali, grazie al quale il PT ha potuto vincere quattro elezioni presidenziali consecutive ed eleggere più di dieci governatori. Il dramma è che né Lula e soprattutto Dilma non hanno realizzato nemmeno il 20% di quei programmi!

A questo punto chi non conosce la storia del PT e non ha vissuto “da dentro” la lotta tra le tendenze per il controllo e la definizione della strategia politica del PT, certamente sale sul podio per accusa Lula e Dilma di tradimento, di revisionismo etc. etc. come se il PT fosse un partito socialista e il lulismo una tendenza comunista. Purtroppo il “non sapere”, gioca brutti scherzi, giacché Lula non ha mai seguito un corso di formazione socialista, il che non vuol dire che abbia un grande rispetto per Cuba e per Fidel Castro!

 

La formazione sindacale di Lula fu fatta nell’ambito dei programmi di formazione che il ministero del lavoro del governo militare realizzò con i sindacati gialli statunitensi. Dopo di che seguì l’ideale interclassista della socialdemocrazia tedesca intrattenendo strette relazioni con i teorici della SPD che, in Germania proponevano una “Grande Coalizione” per entrare nel governo.

 

Un contesto che è stato sempre molto chiaro nella lotta interna del PT, al punto che più volte è stata sfiorata  la rottura con le grandi tendenze della sinistra del partito (la trotskista Democrazia Socialista, la leninista Forza Socialista, la cattolica progressista Articolazione di Sinistra e il Refazendo di Wladimir Palmeira). Tendenze, che però non sono mai riuscite a rappresentare più del 38% del PT e che solo in momenti particolari (1996/2004)  Democrazia Socialista governò la città di Porto Alegre, mentre Forza Socialista divenne egemone in Belèm, capitale dello stato amazzonico di Parà. Dei più di cinquecento sindaci e dei dieci governatori eletti dal PT, 90% di questi erano legati alle tre tendenze di orientazione  progressista che Lula, unificò nel 1996 nella super-tendenza “Articolazione”, con la quale Lula ha potuto essere l’indiscusso segretario del PT, dominare la centrale sindacale CUT, la federazione dei sindacato dei petrolieri FUP e  tutte le federazioni rappresentanti le associazione dei consumatori e quelle di quartiere. In realtà la tendenza “Articolazione” è sempre stata il vero PT, tanto che poi nel 2003, dopo i primi mesi di governo, Lula e la direzione del PT espulsero i quattro deputati e l’unica senatrice della sinistra, Heloisa Elena, che in seguito crearono il PSOL (Partito per il Socialismo e la Libertà). Un partito di classe che però non ha mai raggiunto il 10% dell’elettorato.

 

Dire oggi che Dilma è una traditrice degli interessi di classe non ha senso, perché Dilma Rousseff, dopo gli anni di carcere e soprattutto dopo le torture sofferte, ha fatto una severa autocritica sul suo passato guerrigliero, per poi integrarsi interamente nel sistema capitalista e militare nel PDT, il partito di Brizola, la cui referenza politica europea era il laburismo inglese e l’Internazionale Socialista di Mitterrand e Schröder. Fu, quindi in questo partito e non nel PT, che Dilma Roussef iniziò la sua scalata politica, arrivando a essere nominata segretaria per l’energia, nel governo dello stato di Rio Grande do Sul, durante il governo di Collares (PDT) ed essere la prima, in Brasile, a mettere in pratica il social-neoliberismo ed anche ad autorizzare le prime privatizzazioni nel settore dell’energia elettrica!

 

Con questa biografia politica si capisce perché Lula, dopo che i suoi fedeli delfini, Josè Dirceu e Josè Genoino,  furono condannati per lo scandalo del “Mensalao” (compra dei voti dei parlamentari con i fondi delle imprese pubbliche), scelse Dilma Roussef come successore.

 

Il “desenvolvimentismo” a confronto con la “razza padrona” 

 

I tre elementi centrali e positivi del “desenvolvimentismo lulista” furono: 1) la massificazione dell’assistenza sociale. 2) il rafforzamento dello stato federativo, con cui Lula riuscì a smontare la tesi dello “Stato Minimo” che l’FMI e la Banca Mondiale avevano introdotto in Brasile con il presidente Fernando Henrique Cardoso (PSDB) e  prima di lui con Fernando Collor (PRN), per legittimare lo smantellamento delle imprese pubbliche e la rispettiva privatizzazione – logicamente a prezzi di banana – in favore di multinazionali europee e statunitensi. 3) essere riuscito a impedire la revisione di quelle leggi del lavoro, che i parlamentari della razza padrona non avevano fatto in tempo a rimodellare durante i due governi di Fernando Henrique.

 

D’altra parte Lula sapeva che se avesse ceduto sul fronte del lavoro, poi  il PT avrebbe perso tutte le elezioni, da quella presidenziale alle comunali,  visto che 72% dei suoi elettori erano lavoratori, urbani e rurali. Inoltre il governo Lula stabili che tutti i prodotti dei programmi di assistenza sociale dovevano essere al 100% originari delle industrie brasiliane. In questo modo l’occupazione aumentò e in certi momenti la crescita dell’industria arrivò a toccare un tasso record di 7,2% l’anno.

 

E’ opportuno ricordare che i governi del PT ha conquistato la maggioranza per eleggere presidenti  Lula e poi Dilma, però non ha mai avuto la maggioranza nella Camera dei Deputati e soprattutto nel Senato. Per questo il PT ha dovuto contrarre  un’alleanza ampia che contemplava a sinistra il PCdoB e il PSB, al centro il PMDB e nel centro-destra i piccoli partiti legati alle chiese evangeliche e pentecostali, che, in maggioranza, erano formati da elementi opportunisti che votavano le leggi del governo solo se in cambio ricevevano  innumerevoli favori, soprattutto nelle proprie regioni elettorali.

 

Un’altra importante considerazione elaborata con il professore Luciano Vasapollo riguarda il tema della gestione e della programmazione dello sviluppo che il “desenvolvimentismo” lulista operò una momentanea frattura  con le multinazionali e con quei settori ”internazionalizzati” della borghesia, da sempre favorevoli alla totale apertura con gli Stati Uniti e l’Unione Europea e quindi desiderosi di gettare l’economia del Brasile nelle mani dei conglomerati e dei gruppi transnazionali. Per questo i primi quattro anni del governo Lula si caratterizzarono per una euforia generalizzata, alimentata  dagli alti tassi di sviluppo (dal 5,5% fino al 7,2%) e da una poderosa crescita  dell’industria petrolifera (1 milione di barili il giorno) avvalorata dalle continue scoperte di giacimenti di petrolio e di gas nell’Off-Shore del “Pre Sal” atlantico.

 

Però, nonostante la pace sociale, nonostante lo sfrenato consumismo e nonostante i guadagni che il “desenvolvimentismo” di Lula garantiva, alle banche, ai settori industriali e ai commercianti, in alcuni settori della borghesia e nell’alta classe media covava un grande sentimento di ripulsa nei confronti del lulismo e quindi del PT.

 

Secondo Virginia Fontes – la teorica marxista brasiliana molto vicina al MST – la “…razza padrona, incastellata nei suoi uffici dell’Avenida Paulista, in Sao Paulo, non ha mai smesso di teorizzare la sua ostilità nei confronti  dei nuovi inquilini del Palazzo del  Planalto di Brasilia, cioè Lula e i suoi ministri del PT.  Un’ostilità, che si è immediatamente materializzata dal 2010,  quando risultò evidente la fine del ciclo del “desenvolvimentismo. Motivo per cui il conflitto storico classista, con l’avvicinarsi della crisi  economica  si trasformò in un conflitto permanente nella Camera dei Deputati, nel Senato Federale in Brasilia, nei parlamenti dei venticinque stati ed  anche in quelli delle grandi metropoli, in particolare Sao Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre, Curitiba e Belo Horizonte….”.

 

L’evoluzione di questo conflitto ha praticamente disarmato l’efficienza e il concetto di “compromesso storico tropicale” idealizzato da Lula, disarmando per completo il PT, il governo e lo stesso presidente Lula e poi la sua successore Dilma Roussef. A questo punto e dal momento in cui ricominciavano le manifestazione  e le proteste per le mancate riforme del movimento popolare, Dilma e il PT non avevano più argomenti validi per interloquire con i vari settori della borghesia, dell’oligarchia politica e quindi con gli industriali perché i settori della borghesia internazionalizzata e vicina  agli USA, scendeva in piazza per denunciare la corruzione del PT appoggiando le indagini della magistratura.

 

Impeachment per Dilma, rinuncia di Michel Temer e prigione per Lula?

 

Le manifestazioni per l’impeachment nei confronti della presidentessa Dilma Rousseff, che a gennaio avevano agitato alcune metropoli brasiliane, in particolare Sao Paulo,  oggi si sono spostate nella capitale federale, Brasilia. Innanzitutto per evitare lo scontro con le centinaia di migliaia di manifestanti mobilizzati dal Fronte Popolare del Brasile a Sao Paulo e a Rio de Janeiro, e poi per mantenere sotto pressione i deputati e i senatori, che il 15 aprile dovrebbero  votare la richiesta di impeachment, formulata dal presidente della Camera dei Deputati ed ex-alleato del PT, Eduardo Cunha.

 

Nonostante l’impeachment sia sprovvisto di fondamento giuridico, lo stesso è diventato nozione giuridica in base alla lettura politica di alcuni fatti accaduti durante l’ultimo governo di Lula e il primo di Dilma. Fatti criminosi che però, se effettivamente provati, dovrebbero essere giudicati dai giudici del Tribunale  Superiore Federale (con funzioni equivalenti alla nostra Corte di Cassazione e Corte Costituzionale) e non dai parlamentari.

 

Questa alterazione nella procedura giuridica si deve al fatto che la proposta dell’impeachment è divenuta un “presupposto di ordine giuridico”, quando il gruppo mediatico Globo, della famiglia Marinho, ha cominciato a veicolare, a livello nazionale e in tutti i suoi organi (Agenzia Globo News, TV Globo, Radio Globo, Journal O Globo), articoli, editoriali, reportages e soprattutto testimonianze di parte che anticipavano la colpevolezza della presidentessa Dilma Roussef, dell’ex presidente Lula e logicamente del PT. Una condanna mediatica che presentava Dilma e Lula come gli unici responsabili di un miliardario giro di affari, alimentato dai differenti centri di corruzione, quasi tutti controllati da uomini legati all’opposizione del  PSDB e anche del PMDB.

 

In realtà la direzione della televisione TV Globo – che con le sue famose “novelas” raggiunge il 72% delle udienze in tutto il Brasile –  seguendo l’esempio delle televisioni del Venezuela e dell’Argentina ha realizzato un autentico golpe mediatico nei confronti del governo di Dilma Roussef, fin dal mese di agosto dell’anno passato, appoggiando la proposta dell’ impeachment. Cosa che il movimento popolare subito denunciò, nella speranza che il governo di Dilma si difendesse assumendo una posizione politica aggressiva e di sinistra, soprattutto nei confronti della TV Globo. Invece,  l’assurdità e il senso anacronistico del governo Dilma e dello stesso Direttorio Nazionale del PT prevalsero nuovamente, con il governo che rinnovava tutti i contratti di pubblicità e di  patrocinio culturale con la TV Globo, nella speranza di ottenere dalla direzione del gruppo Globo un ridimensionamento degli attacchi mediatici sofferti.

 

In realtà, la vittoria della TV Globo e il golpe mediatico realizzato nei confronti del governo  federale e del PT dimostrarono, chiaramente, che la proposta dell’impeachment poteva diventare l’arma fatale che la borghesia internazionalizzata stava ricercando per ribaltare, in primo luogo e in suo favore, la lotta per il potere all’interno delle differenti componenti della borghesia brasiliana. In secondo luogo, la campagna per l’impeachment permetteva alle eccellenze della borghesia internazionalizzata di unificare il potenziale anti-PT  e quindi tentare promuovere l’intervento delle forze armate, anch’esse estremamente divise sul rispetto della legalità e dell’ordine costituzionale.

 

L’unico neo di questo scenario è rappresentato dall’alleanza che il gruppo Globo e le  eccellenze della borghesia internazionalizzata hanno dovuto contrarre con Eduardo Cunha, una specie di Verdini brasiliano, diventato il “Big Boss” della Camera dei Deputati, grazie agli innumerevoli atti di corruzione, suborno e ricatti, con i quali è riuscito a comprare il voto dei deputati dei piccoli partiti di ambito regionale e di una parte di quelli del PMDB e del PSDB. Infatti, il 3 marzo il Supremo Tribunale Federale condannava Eduardo Cunha Federale per corruzione  passiva e lavaggio di denaro!

 

Una condanna che per le eccellenze della borghesia paulistana, cioè dello stato di Sao Paulo e della sua omonima capitale, (una megalopoli con sedici milioni di abitanti in cui si concentra 38% del parco industriale nazionale), non è determinante per rinunciare al progetto di impeachment. Per questo non hanno avuto dubbi e ricorrendo al machiavellico teorema “il principia giustifica i mezzi”, hanno trasformato l’impeachment di Eduardo Cunha nel manifesto per “…la liberazione dalla dittatura e dalla corruzione del PT !”…

 

C’è da dire che la richiesta dell’impeachment formulato da Eduardo Cunha nei primi mesi del 2015 è nato da un contesto completamente differente. Infatti, alcuni giornalisti vicini al PT nell’ottobre del 2014 cominciano a pubblicare alcune inchieste che smascheravano il sistema di corruzione che Eduardo Cunha aveva impiantato nello stato di Minas Gerais.  In risposta, Eduardo Cunha, credendosi attaccato direttamente dalla presidentessa, Dilma Rousseff, contrattaccò con la proposta di impeachment contro la presidentessa Dilma!

 

E’ evidente che dietro  questo scenario di cronaca nera c’è pure la smisurata ambizione personale di Eduardo Cunha che  con l’impeachment, sogna di diventare presidente “ad interim”, caso il Parlamento voterà a favore del suo impeachment. Un sogno che potrebbe realizzarsi,  poiché Infatti l’attuale vice-presidente, Michel Temer, lider nazionale del PMDB, venuto a conoscenza della richiesta di impeachment dichiarò che se la presidentessa Dilma sarebbe deposta, anche lui si dimetterà. In questo modo per Eduardo Cunha si aprirebbero le porte del “Palacio do Planalto “, cioè la Presidenza.

 

Apparentemente tutto ciò potrebbe sembrare un gioco di carte marcate elaborato, all’interno del PMDB, da Eduardo Cunha e dal vice-presidente Michel Temer. Invece non è così, poiché Michel Temer, ex-presidente del PMDB  (Partito del Movimento Democratico Brasiliano) sa che se lui assume la presidenza a causa dell’impeachment contro Dilma, il PMDB rischia un serio problema di disgregazione politica con i nutriti gruppi di associazioni regionali di impresari e commercianti che abbraccerebbero  il cammino dell’astensionismo. In secondo luogo, i settori popolari che rappresentano il 40% del partito si frantumerebbero emigrando nel PT e nel PSB. Per questo, Michel Temer ha subito annunciato la sua rinuncia preventiva, per evitare una drammatica spaccatura all’interno del PMDB e quindi impedire che il partito – o quello che resterebbe del PMDB – potesse essere controllato dal gruppo di Eduardo Cunha, notoriamente legato all’ex-presidente Fernando Collor e soprattutto alle poderose chiese evangeliche e sette pentecostali di Rio de Janeiro e Sao Paulo.

 

Un’altra importante riflessione fatta da Luciano Vasapollo sull’annunciata rinuncia di Michel Temer è legata al futuro del PMDB nelle elezioni del 2018. Infatti, se Temer rinuncia nel 2016 alla nomina di presidente non può, poi, ripresentarsi nel 2018 come candidato del PMDB e chiedere agli elettori di essere eletto presidente e chiamare il PT nella coalizione di governo!

 

Per questo abbiamo un nuovo scenario con l’attuale governo di Dilma Roussef, che continuerà immobilizzato dalla destra, nella speranza di poter concludere il mandato. Di conseguenza, nel mese di gennaio a candidatura di Lula era data vincente con un 64% poiché prometteva realizzare (per la terza volta) tutto quello che la destra aveva  impedito che Dilma facesse,  vale a dire le riforme strutturali e un programma di crescita economica sostentata.

Una emozionante promessa ha subito riconquistato le speranze frustrate nella maggioranza degli elettori del movimento popolare. Ciò permetterebbe al PT di governare per altri otto anni, lasciando al PMDB nuovamente l’insignificante incarico di vice –presidente e l’onere politico di dover assecondare le leggi presentate dal PT!

 

E’ evidente che se Michel Temer e la direzione nazionale del PMDB vogliono vincere le elezioni presidenziali del 2018 devono sperare che Dilma Roussef continui governando i prossimi due anni sempre nella difensiva e che  il giudice Sergio Moro della Procuratoria di Curitiba e i giudici Gilmar Mendes e Joaquim Barbosa del Tribunale Supremo Federale continuino a distruggere l’immagine politica di Lula, impedendo la sua candidatura con l’accusa di corruzione.

 

Una situazione che accontenta tutti, dalle eccellenze della Casa Bianca, ai rappresentanti della razza padrona paulistana, senza dimenticare i vari “pastori” delle chiese evangeliche. Però per le elezioni del 2018, non è da escludere la formazione di una nuova coalizione governativa tra  il PMDB e il  PSDB dell’ex-presidente Fernando Henrique Cardoso, da sempre suggerita da Obama per favorire  il ritorno della logica del mercato e del liberismo in Brasile. Un’ipotesi che  la lotta di classe, con scioperi, manifestazioni e scontri violenti con la polizia nelle università, nelle favelas, nelle città e nei campi all’interno agricolo del paese, rompendo l’inadeguata pace sociale del lulismo.

 

E il Colpo di Stato chi lo fa?

Tutti sanno che la vittoria dell’Impeachment e la nomina di presidente ad interim di Eduardo Cunha provocherebbe una profonda crisi di rappresentanza politica, in funzione della quale il movimento popolare potrebbe riguadagnare una consistente unità per poi, nel 2018  andare alle elezioni con i necessari cinquantadue milioni di voti per avere un  governo maggioritario senza più l’intermediazione del PMDB e dei piccoli partiti  regionali.

Su questa base che sorge l’interrogazione marxista formulata dall’economista  Luciano Vasapollo: secondo cui “…L’imperialismo permetterà l’affermazione di un governo di sinistra dopo essere riuscito a deporne uno di tendenza più o meno socialdemocratica e che non ha mai messo in discussione l’essenza del capitalismo?”

 

E’ evidente che l’impeachment è il prologo del colpo di stato che la borghesia  imperialista reclama per  “…riportare ordine nel paese”, ma che l’imperialismo sta preparando per introdurre un nuovo ciclo economico. Anche nel 1964 il colpo di stato civico-militare fu preceduto da una turbolenta movimentazione parlamentare provocata prima dalla rinuncia del presidente Janio Quadros e poi da un radicale programma di riforme di sinistra  che il successore, Joao Goulart, pretendeva implementare nel Brasile con l’appoggio del movimento popolare, dei sindacati, delle leghe contadine e logicamente dei partiti di sinistra, primo fra tutti il Partito Comunista. Nel 1964, come oggi l’essenza politica del 1964, il colpo di stato si muove unicamente per riaffermare gli interessi economici dei conglomerati “globalizzati” e per imporre la geo-strategia dell’imperialismo.

 

Il 1 marzo Il Fronte Brasile Popolare e gli altri quattro movimenti hanno pubblicato un manifesto per mobilizzare il popolo brasiliano contro l’impeachment, lanciando, quindi, un appello alla direzione del PT (Partito dei Lavoratori) per ricollocare questo partito nel solco tracciato dal movimento popolare di cui l’obbiettivo centrale è; 1) la realizzazione di un autentico programma di riforme  strutturali; 2) la difesa della democrazia riconquistata dopo ventiquattro anni di dittatura militare; 3) il mantenimento delle conquiste socio-economiche; 4) l’affermazione della sovranità del Brasile.

 

Achille Lollo è corrispondente in Italia del giornale “Brasil De Fato”, articolista internazionale del giornale web “Correio da Cidadania”, Editor dei programmi di WEbTV “Quadrante Informativo” e “Contrappunto Internazionale”. Collabora con  la rivista “Nuestra America”.

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