La bolla universitaria
Malcolm Harris, n+1, Stati Uniti
Negli Stati Uniti andare all’università è sempre più costoso. E anche se ottenere un finanziamento per pagarsi gli studi è facilissimo, la laurea non è più una garanzia per trovare un posto di lavoro. Così il debito degli studenti aumenta.
Il Project on student debt, che valuta i costi dell’istruzione negli Stati Uniti, ha calcolato che nel 2009 gli studenti statunitensi si sono laureati con un debito medio di 24mila dollari. Nell’agosto del 2010 i prestiti agli studenti hanno superato le carte di credito come maggiore fonte di debito del paese, avvicinandosi a mille miliardi di dollari. Quando si parla del debito al consumo, i politici, sia democratici sia repubblicani, assumono subito un atteggiamento moralistico. Ma nessuno ha il coraggio di dire che l’istruzione universitaria è un cattivo investimento. La convinzione che una laurea rappresenta un vantaggio per la società americana ha permesso la crescita di una bolla dell’istruzione universitaria che adesso sta quasi per scoppiare.
Dal 1978 le tasse dei college statunitensi sono aumentate di oltre il 900 per cento, 650 punti più dell’inflazione. Per capirne meglio le proporzioni, basta pensare che l’aumento del prezzo delle case – la bolla immobiliare che ha mandato in crisi prima l’economia statunitense e poi quella mondiale – è stato solo di 50 punti rispetto all’indice dei prezzi al consumo. Ma mentre la fiducia degli studenti nell’istruzione universitaria è aumentata, quella dei datori di lavoro è diminuita. Secondo Richard Rothstein dell’Economic policy institute, al di fuori del mercato gonfiato della finanza i salari dei laureati sono rimasti fermi o sono diminuiti. La disoccupazione ha colpito in modo particolare i neolaureati, e dopo la recessione del 2007 è quasi raddoppiata. Il risultato è che la generazione più indebitata della storia americana non trova un lavoro che le permetta di estinguere i suoi debiti.
Per quale motivo, allora, i finanziatori continuano a concedere somme a cinque zeri a giovani che vanno incontro a uno dei tassi di disoccupazione più alti degli ultimi decenni e a un mercato del lavoro globale sempre più competitivo? Nel caso della bolla immobiliare, le banche si sentivano protette perché potevano trasformare i prestiti a rischio in titoli garantiti dai mutui ipotecari, facili da vendere in un mercato convinto che i prezzi delle case potessero solo salire. Combinando prestiti diversificati a seconda delle regioni (quindi, in teoria, distribuendo il rischio), le banche riuscivano a convincere le agenzie indipendenti di rating che i loro prodotti finanziari erano sicuri. Ovviamente non lo erano. Ma dato che non saremmo americani se non potessimo monetizzare il futuro dei nostri figli, nel settore dell’istruzione quei prodotti finanziari esistono ancora. Sono gli student loan asset-backed securities, o Slabs.
Gli Slabs sono stati inventati nei primi anni novanta dall’ex colosso del rifinanziamento dei mutui Sallie Mae e si sono diffusi nell’ambito dell’ondata di asset-backed security (titoli negoziabili emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione) che ha raggiunto il culmine nel 2007. Nel 1990 circolavano Slabs per un valore di 75,6 milioni di dollari; al loro apice hanno superato i duemila miliardi. Il valore degli Slabs scambiati è passato da 200mila dollari nel 1991 a quasi 250 miliardi nel quarto trimestre del 2010. Però lo scambio di titoli garantiti da carte di credito, finanziamenti per l’acquisto di automobili e mutui fondiari è diminuito di circa il 50 per cento, mentre gli Slabs non hanno subìto la stessa sorte. Sono ancora considerati investimenti sicuri, tanto che i consulenti finanziari li vendono ai fondi pensione e agli anziani. Ai finanziatori non è parso vero di trovare un mercato secondario così fiorente, e non hanno avuto alcun problema a sostenere le spese fuori controllo degli studenti. Oltre a sapere che possono liberarsene facilmente, hanno anche un altro motivo per non preoccuparsi: le garanzie federali.
Con il programma federale di prestiti alle famiglie per l’istruzione (Federal family education loan program o Ffelp) che è appena stato chiuso, il tesoro degli Stati Uniti aveva deciso di garantire i prestiti privati agli studenti universitari. Questo significava che anche nell’eventualità di un crollo del mercato e di un’ondata anomala di insolvenze, il governo aveva previsto per legge il salvataggio delle banche che avevano erogato i prestiti. Come se non bastasse, nel maggio del 2008 il presidente Bush ha firmato l’Ensuring continued access to student loans act, che autorizzava il dipartimento dell’istruzione ad acquistare direttamente i Ffelp nell’eventualità di un calo della domanda.
Nel 2010, per compensare i costi della riforma sanitaria, Barack Obama ha interrotto il programma, che però era ormai diventato un affare da 60 miliardi di dollari all’anno. Anche se il tesoro ha smesso di garantire i prestiti, gli Slabs continueranno a essere concessi ancora per parecchio tempo. Quello che hanno scritto gli analisti di Barclays Capital nel 2006 sembra ancora valido: “Per questo settore prevediamo una crescita sostenuta del volume delle concessioni perché l’aumento dei costi dell’istruzione continua a superare quello dei redditi delle famiglie, delle borse di studio e dei prestiti federali”.
A scopo di lucro
Prestiti e costi sono entrati in quel tipo di circolo vizioso che si verifica quando prestare diventa remunerativo e al tempo stesso apparentemente privo di rischi: il continuo aumento delle tasse universitarie significa che gli studenti devono chiedere più soldi in prestito, più prestiti significano che le banche possono creare più pacchetti di titoli da vendere, più vendite significano che le banche hanno più capitale da prestare e quindi le università possono continuare ad aumentare i costi. Il risultato è che gli studenti sono indebitati per 800 miliardi di dollari, più del 30 per cento dei quali sono convertiti in titoli negoziabili, e il governo federale ne è direttamente o indirettamente garante.
Se tutto questo vi suona familiare, è normale, e i paralleli con il mercato immobiliare alla vigilia della crisi non finiscono qui. Il corrispettivo dell’aspetto più deteriore del mercato dei subprime sta nelle università private a scopo di lucro. Un tempo erano le disuguaglianze nell’istruzione primaria e secondaria a impedire a una grossa fetta della classe lavoratrice di affrontare i costi delle lauree quadriennali. Oggi istituzioni private come l’università di Phoenix o la Kaplan sono la risposta del mercato a questo problema.
Se per i corsi quadriennali il debito è alto, le cifre per le università a scopo di lucro che offrono corsi biennali sono apocalittiche: il 96 per cento dei loro studenti si accolla un prestito e dopo quindici anni il 40 per cento non è ancora riuscito a estinguerlo. Nel 2010 il Government accountability office ha avviato un’indagine sul loro funzionamento: gli agenti hanno finto di essere studenti e hanno scoperto che le quindici istituzioni a cui si sono rivolti usavano tecniche di reclutamento e finanziamento ingannevoli, mentre in quattro casi si trattava di vere e proprie truffe. È emerso che le università pagavano i reclutatori, li sceglievano sulla base di false credenziali, camuffavano i costi reali e incoraggiavano i candidati a mentire quando compilavano i moduli per il sussidio federale.
I corsi dei college a scopo di lucro non sono affatto convenienti come dichiarano gli spot televisivi, anzi sono quasi tutti più costosi delle loro alternative non profit. E per riuscire a vendere le loro lauree spendono un capitale in pubblicità. Come nel caso della crisi immobiliare, anche in questo settore è difficile capire quali sono le mele marce. Le istituzioni a scopo di lucro hanno subito cercato l’appoggio dei poteri tradizionali nel mondo dell’istruzione, della politica e dei mezzi d’informazione. Richard C. Blum, consigliere d’amministrazione della California University (e marito della senatrice californiana Dianne Feinstein), tramite la sua società di investimenti è anche l’azionista di maggioranza di due dei più grandi college a scopo di lucro degli Stati Uniti. La Washington Post Company possiede la Kaplan higher education, e costringe il Washington Post a pubblicare articoli con imbarazzanti apprezzamenti sulle università a scopo di lucro. L’università leader del settore, quella di Phoenix, è addirittura entrata in società con la rivista Good, finanziando un redattore specializzato nei temi dell’istruzione. Grazie a questi contatti, ai miliardi spesi in pubblicità e ai quasi nove milioni di contributi alle lobby e alle campagne elettorali solo nel 2010, nell’ambito dell’istruzione statunitense il settore delle università a scopo di lucro cresce più di ogni altro.
Il valore dell’istruzione
Cosa ci ha insegnato la crisi immobiliare? Cosa succede quando i ragazzi non possono pagare? Il governo federale raccoglie solo i dati degli studenti morosi nei primi due anni di restituzione del finanziamento, ma dal 2005 a oggi la percentuale di quelli che non riescono a pagare è aumentata ogni anno. Secondo gli analisti, solo il 40 per cento è in regola con i pagamenti, gli altri hanno chiesto una proroga o non pagano. L’anno prossimo il dipartimento dell’istruzione calcolerà il tasso di morosità sulla base di tre anni dall’inizio delle rate anziché due. Secondo le proiezioni, i risultati saranno sconcertanti: la morosità della classe 2008 passerà dal 7 al 13,8 per cento.
Poiché sempre meno studenti hanno il reddito necessario per restituire i prestiti (se non facendo altri debiti), la morosità di massa sembra inevitabile. A differenza di quanto è accaduto durante la crisi dei mutui, la risposta del governo a un’eventuale bolla dell’istruzione universitaria è già scritta nella legge. Se non può restituire un prestito garantito dallo stato, il titolare presenta una richiesta a una cosiddetta agenzia di garanzia statale, che a sua volta la gira al governo federale.
Il contributo federale è legato al tasso di morosità annuale dei clienti che si rivolgono all’agenzia: per i prestiti emessi dopo l’ottobre 1998, se il tasso supera il 5 per cento, il rimborso scende all’85 per cento del capitale e degli interessi maturati, se supera il 9 per cento, cala al 75 per cento. Ma i tassi delle agenzie di garanzia sono calcolati in modo da non riflettere il vero tasso di morosità degli studenti. Tra tutte le agenzie che hanno chiesto il rimborso federale l’anno scorso, nessuna ha raggiunto il fatidico 5 per cento.
Con tutte queste protezioni alle spalle, gli Slabs sono un investimento migliore di quanto lo fossero la maggior parte dei titoli garantiti dagli immobili. Il vantaggio del salvataggio preventivo è che spesso non è necessario: se gli investitori sanno di essere protetti dai rischi hanno meno motivo di innervosirsi quando i titoli scendono, e quindi è meno probabile che si verifichi un crollo speculativo. Nel peggiore dei casi è il governo che paga per mandare al college gli studenti e, a parte l’arricchimento dei finanziatori privati e degli speculatori, questo non sarebbe un gran male se si crede nell’intervento dello stato, nell’istruzione gratuita o anche negli stimoli fiscali keynesiani.
Ma finora abbiamo esaminato solo una faccia della medaglia. Non c’è dubbio che gli studenti che prendono un prestito attribuiscono un grande valore all’investimento che vogliono fare. Se un ragazzo di 18 anni prende in prestito 200mila dollari, non può permettersi di fare un cattivo investimento. L’istruzione superiore può sembrare un terreno improbabile per una bolla speculativa simile a quella immobiliare. Mentre il prezzo delle case si basa su quanto i potenziali acquirenti in competizione tra loro sono disposti a pagare, si presume che il prezzo dell’istruzione universitaria sia legato ai suoi costi (fatta eccezione per le università a scopo di lucro). Ma il rapido aumento delle tasse universitarie non corrisponde al valore dell’istruzione: nessuno può sostenere che la qualità dell’insegnamento o il valore di mercato di una laurea sono aumentati di dieci volte negli ultimi quarant’anni. Allora perché le università aumentano le tasse così tanto e così spesso? “Perché possono farlo” è una risposta che può andar bene per i proprietari di casa che vogliono ottenere il massimo dai loro investimenti, o per le università a scopo di lucro che cercano di avere più soldi dallo stato, ma sembra una risposta terribilmente cinica nel caso dell’istruzione non profit.
Innanzitutto i soldi non vengono usati per migliorare la qualità dell’insegnamento. Come ha scritto Marc Bousquet, un ricercatore che studia il funzionamento dell’istruzione universitaria, in How the university works: “Se in questo momento siete iscritti a quattro corsi, ci sono buone probabilità che uno sia tenuto da una persona che ha un dottorato e che sul piano professionale, della preparazione e del servizio, non ha subìto i controlli normalmente riservati ai titolari di cattedra. A tenere gli altri tre corsi, invece, potrebbe esserci qualcuno non ancora laureato, che è stato scelto da un dirigente amministrativo e non dai professori di ruolo, che forse non pubblicherà mai nulla sulla materia che insegna, che è nella rosa di possibili candidati perché è disposto a lavorare per un salario da fame (spesso nell’illusione di poter prima o poi arrivare a una cattedra) e che non ha intenzione di rimanere in quell’università per più di tre anni”.
Obiettivi da manager
Questo non si può certo definire un miglioramento. Circa quarant’anni fa, quando le tasse universitarie hanno cominciato ad aumentare a ritmi esponenziali, le proporzioni erano invertite. Oggi una buona percentuale degli insegnanti precari che lavorano nelle università è formata da studenti appena laureati. Con i debiti che hanno, le università li possono costringere ad accettare un salario inferiore al minimo: sono una grande fonte di manodopera didattica a buon mercato. E poiché ci sono meno possibilità di ottenere una cattedra, i giovani che hanno un dottorato di ricerca, travolti dai debiti, possono solo accettare incarichi precari e salari tenuti bassi dal nuovo esercito di laureandi-lavoratori. Invece di produrre un corpo insegnante più preparato e più professionale, l’aumento delle tasse e dei debiti ha ottenuto il risultato opposto.
Ma se gli insegnanti ben pagati non sono né l’origine né i destinatari dell’aumento delle tasse, forse vale la pena di vedere chi c’è in cima alla piramide. Mentre gli incarichi didattici sono diventati sempre più precari e mal pagati, non si può dire lo stesso di quelli amministrativi. In passato, gli amministratori erano in genere docenti con qualche responsabilità in più. Oggi somigliano ai manager delle grandi aziende, e ricevono stipendi simili. Alcune università piene di spirito imprenditoriale hanno introdotto questo cambiamento, e le pressioni del mercato hanno costretto le altre a seguire l’esempio, pagando stipendi da capogiro per i tanto richiesti amministratori.
Anche nei college senza scopo di lucro gli amministratori di alto livello e i responsabili finanziari portano a casa stipendi a cinque o sei zeri, più vicini a quelli dei loro colleghi dell’industria che a quelli dei docenti. E mentre la percentuale dei professori che possono aspirare a una cattedra è diminuita, il numero dei dirigenti è salito alle stelle, in termini sia relativi sia assoluti. Se continuerà così, il dipartimento della pubblica istruzione calcola che entro il 2014 nelle università senza scopo di lucro che offrono corsi quadriennali ci saranno più amministratori che docenti. Un settore amministrativo più grande consuma anche una fetta maggiore dei fondi disponibili, quindi è comprensibile che negli ultimi quindici anni le quote di bilancio per i docenti e i servizi agli studenti siano diminuite.
Quando si assumono manager aziendali, si finisce per essere gestiti come un’azienda. Così, la gara per ottenere fondi dal governo e dai privati è diventata l’obiettivo principale delle amministrazioni universitarie. Sia le grandi università statali sia i college privati d’élite non sono più interessati (se lo sono mai stati) a formare dei cittadini istruiti. Non si preoccupano quasi più nemmeno di formare la futura classe dirigente. Prevalgono, per usare le parole di Bousquet, “le istanze imprenditoriali, la vanità e le manie degli amministratori: digitalizzare il curriculum! Costruire la piscina/il campo da golf/lo stadio migliore dello stato! Portare più anime a Dio! Vincere il campionato interuniversitario!”. Questi costosi progetti fanno parte di un nuovo ciclo: le università-azienda devono essere competitive nel reclutare gli studenti che potrebbero diventare ricchi ex alunni, quindi devono spendere in attività extracurricolari interessanti, il che significa che hanno bisogno di più soldi, e quindi di più studenti che pagano.
I college a scopo di lucro non sono gli unici fissati con la vendita del loro prodotto. E se un corso di studi umanistici non riesce a dimostrare la sua utilità economica per l’università (che non può permettersi di avere “pesi morti”) e per gli studenti (che capiscono la necessità di una laurea spendibile sul mercato), allora subisce dei tagli: la strategia di gestione neoliberista per eccellenza. Gli studenti sembrano aver recepito il messaggio, perché la laurea in economia è diventata la più popolare del paese.
Quando nel suo discorso sullo stato dell’unione Barack Obama ha parlato della necessità di mandare più americani all’università, l’ha fatto nel contesto della competizione economica con la Cina, come se sfornare laureati equivalesse a produrre acciaio. Da quando il tirocinio non retribuito per accumulare crediti (in cui praticamente gli studenti pagano le tasse per lavorare gratis) sostituisce sempre più le ore di lezione, l’università commerciale borghese sta soppiantando l’accademia. Anche i genitori, comprensibilmente preoccupati, incoraggiano i figli ad avere innanzitutto un curriculum attraente. Per gli studenti era più facile credere che l’istruzione universitaria avesse un valore inestimabile quando non era in vendita.
Favole
Dunque le tasse sono aumentate vertiginosamente e la quota spesa per i docenti e i servizi agli studenti è diminuita, il valore di mercato di una laurea è calato e la maggior parte degli studenti non può più permettersi di godersi gli anni del college come un periodo di avventura intellettuale. Ma c’è un’altra cosa chiara: l’istruzione universitaria somiglia sempre più a una truffa.
Conosciamo le conseguenze della morosità per i creditori, gli investitori e i loro garanti del tesoro, ma che succede ai morosi? I proprietari di case che si sono trovati con un debito superiore al valore dei loro immobili potevano sempre liberarsene. Gli studenti non sono così fortunati: non possono liberarsi della loro laurea, anche se hanno preso in prestito più denaro di quanto possono guadagnarne nel mercato del lavoro. Gli americani sopraffatti da debiti normali (come quelli accumulati sulla loro carta di credito) hanno la possibilità di dichiarare bancarotta, e anche se è un processo doloroso che gli impedirà di ottenere credito in futuro, liberarsi di migliaia di dollari che non si possiedono non è sempre una cosa negativa. Gli studenti non hanno questa scelta. Prima del 2005 anche loro potevano usare la formula della bancarotta, ma la “legge per impedire l’abuso dell’istituto della bancarotta e difendere i consumatori” ha esteso l’inestinguibilità a tutti i prestiti per l’istruzione e alle carte di credito usate per pagare le tasse universitarie.
Oggi i debiti per l’istruzione sono diventati eccezionalmente punitivi. Non solo gli studenti non possono dichiarare bancarotta, ma i loro prestiti non hanno una scadenza e i creditori possono reclamare stipendi, contributi previdenziali e perfino indennità di disoccupazione. Se uno studente non paga, l’agenzia di garanzia, anche se è stata rimborsata dal governo federale, ha diritto a riprendersi tutto quello che può (anche se è già stata risarcita per la sua perdita), quindi è incoraggiata a perseguitare gli ex studenti fino alla tomba.
Quando è scoppiata la bolla immobiliare le conseguenze erano prevedibili, ma non prestabilite. Nel caso della bolla dei prestiti agli studenti la conclusione sarà la stessa, ma la forma è stata decisa in anticipo. In aggiunta ai miliardi che hanno speso in pubblicità, attività sportive, abbellimento dei campus e lussi vari, i college hanno beneficiato di un’opinione pubblica che considera l’istruzione universitaria un bene sociale supremo. Da quando i baby boomer hanno cominciato a fare figli, la laurea è sembrata la panacea per tutti i mali sociali, la metafora di un tipo speciale di successo.
Sentiamo ancora raccontare favole sulle persone sfuggite ai ghetti andando all’università, sulle lauree che garantiscono una vita soddisfacente e su un capolavoro dell’istruzione americana come la legge che consente di pagarsi gli studi con il servizio militare. Ma questi non sono veri modelli di vita, sono solo trovate pubblicitarie. E di solito sono accompagnate dal modulo per la richiesta di un prestito.
Traduzione di Bruna Tortorella.
Internazionale, numero 898, 20 maggio 2011
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