Domenica 26 Giugno 2011 14:54
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In queste pagine vogliamo condividere alcune riflessioni tratte da alcune nostre riunioni, per provare a capire insieme quello che sta succedendo in Italia in questi ultimi mesi. Ovviamente si tratta solo di spunti, rapidi e imprecisi, e non di un quadro completo della situazione; di una ripresa e una verifica di alcuni “movimenti” che stiamo constatando da tempo a partire da un singolo “tassello” – che però è estremamente significativo.
Abbiamo infatti pensato di discutere le Considerazioni finali di Draghi (governatore della Banca d’Italia in scadenza di mandato, ora candidato presidente alla Banca Centrale Europea) presentate il 31 maggio 2011, perché nel suo intervento – già in “tempi normali” determinante per orientare il capitale ed il mondo politico, ma oggi decisivo per tutti gli attori sociali, che infatti lo hanno continuamente citato – molti aspetti della situazione economica e politica italiana sono sistematizzati ed esposti1.
Quella di Draghi è una vera e propria analisi di fase dal punto di vista del capitale, che anche noi dovremmo sfruttare per prevedere il futuro, ed in qualche modo giocare di anticipo rispetto allo scenario che si sta delineando. Le sue Considerazioni finali sono insomma le nostre preliminari, e si potrebbe provare a recuperare molti di questi elementi inserendoli però in una lettura della situazione fatta da un punto di vista opposto. Per non combattere contro i fantasmi, o limitarsi ad agire di rimessa, come purtroppo spesso ci accade.
1. Perché analizzare le Considerazioni?
2. Nel merito dell’intervento di Draghi: il capitalismo italiano
3. La svolta “neocorporativa”
4. Chi può tradurre in realtà questo programma? Gli scenari politici
5. Conclusioni? Diciamo aperture
1. Ma perché vale la pena analizzare proprio le Considerazioni? Innanzitutto, anche se Draghi non va in profondità su molti aspetti, fa un quadro chiarissimo della situazione. Ogni parola è pesata, ha un valore, è un segnale per qualcuno. D’altronde ciò è connesso al ruolo ed all’autorità che Draghi interpreta. Bankitalia è forse l’istituzione che meglio rappresenta il capitalismo italiano, perché è quella meno condizionata politicamente. È infatti una necessità del capitalismo quella di dotarsi di strutture in qualche modo “indipendenti” rispetto alle dinamiche politiche di ricerca del consenso e agli interessi di “bottega”, che riesca magari a comporre su un livello più alto le pulsioni e le intenzioni dei singoli capitali2. In questo senso possiamo considerare che dalle banche centrali arrivino indicazioni “sincere”, “pure”: chiaramente sta a noi prendere questi elementi e svilupparli, calandoli nel contesto concreto e riscontrandoli nelle singole vicende che di volta in volta irrompono sulla scena come dal nulla (il caso Marchionne, la vicenda Geronzi, il caso FINCANTIERI etc).
Peraltro le cose che dice Draghi nelle Considerazioni sono, come abbiamo potuto constatare in altre circostanze, “universalmente” e trasversalmente accettate da parte dei soggetti che intervengono nella sfera politica ed economica3. Una consapevolezza che ha lo stesso Draghi, il quale, riferendosi alla divisioni ed alle turbolenze della vita politica italiana, sostiene proprio che:
“antiche contrapposizioni sono in gran parte venute meno. In Europa, i progressi verso forme sempre più avanzate di integrazione e, in Italia, una inedita condivisione della diagnosi dei problemi che affliggono l’economia rappresentano favorevoli punti di partenza. Va raggiunta una unità di intenti sulle linee di fondo delle azioni da intraprendere. Ciò che può unire è più forte di ciò che divide”.
In poche parole Draghi afferma che per la prima volta o – meglio – per la prima volta da un bel po’ (come si dirà dopo si riferisce agli anni 1990-93), tutto il padronato e la borghesia condividono le stesse priorità, la visione dei problemi che affliggono il paese e i nodi su cui si deve intervenire. Ovviamente si deve raggiungere l’unità d’intenti: attraverso una serie di mediazioni si dovranno elaborare delle azioni che non scontentino o scontentino al minimo le diverse frazioni della classe dominante. Ma resta fermo che quello espresso da Draghi è il programma della borghesia italiana per questi anni, e che “la condivisione della diagnosi” è il passo decisivo e ormai acquisito per concentrarsi e mettere in atto un’offensiva che mira a cambiare radicalmente gli assetti del paese nel medio e lungo periodo (tutto questo, quasi superfluo dirlo, mentre le classi subalterne sono oggettivamente frammentate e soggettivamente incapaci di darsi consistenza).
Anche per questo Draghi enumera tanti dati, dati che è imprescindibile conoscere e tenere bene a mente, ed insiste nel paragone con la Francia, il paese europeo più simile a noi dal punto di vista sociale, occupazionale, bancario etc. Questi dati e questa comparazione servono infatti a dimostrare irrefutabilmente quanto il nostro capitalismo sia per molti aspetti in “ritardo”, e dunque a motivare la necessità di una “svolta”. Draghi intende delineare bene il nostro sfasamento rispetto al paradigma francese e tedesco per obbligare la politica all’intervento.
Ovviamente, la relazione di Draghi è interessante anche per le reticenze. Il tema che non tocca, o almeno non articola, è quello della disoccupazione. Sia perché su quello sarebbe difficile fare paragoni, visto che i criteri per constatarla in Italia e in Europa sono diversi4, sia perché il problema dell’occupazione non è assolutamente nelle “corde” e negli obbiettivi di un analista neoliberista, e questo la dice lunga su quali siano le preoccupazioni di chi ci “governa”. Constatazione anche questa banale, ma comunque da fissare, perché nella rimozione del problema “occupazione”, visto come variabile dipendente del profitto, si consuma la tragedia di milioni di vite. Anche in questo senso, quello della pura e semplice negazione della maggior parte dell’umanità, quella di Draghi è l’agenda politica dell’oggi.
2. Entriamo ora nel merito di alcuni passaggi dell’intervento di Draghi, che ci appaiono rilevanti in quanto fotografano lo stato del capitalismo italiano. Daremo per scontato una lettura complessiva del testo, e cercheremo di battere solo sugli aspetti che non sono stati adeguatamente tematizzati dai media borghesi5 o dai compagni, che purtroppo hanno dedicato scarsissima attenzione alla relazione6.
Partiamo da un assunto: Draghi ha “ragione” a puntare il dito contro le mancanze del sistema italiano, e le debolezze che evidenzia segnano esattamente il perimetro in cui ogni forza politica oggi si deve muovere. In Italia “la produttività ristagna”, “il sistema produttivo perde competitività”, “si inaridisce l’afflusso di investimenti diretti”, “le dinamiche retributive sono modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: la domanda interna ne risente”, mentre “la struttura produttiva italiana [è] più frammentata e statica di altre”, “l’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali paesi europei”, ed “è necessario recuperare efficienza nella spesa” (pp. 11-13)… Mentre nel resto del mondo gli equilibri cambiano velocemente, con i BRICS che spingono la crescita, mentre i paesi “centrali” dell’UE sono in fase ascendente, l’Italia si scopre in una “fase laterale”. A questa diagnosi impietosa dobbiamo aggiungere, cosa a cui Draghi pure accenna, che in Italia si potrebbe porre nel breve periodo anche un problema di tipo finanziario, che esalterà quelle che sono le manchevolezze del sistema. Gli attacchi speculativi sono rischi all’ordine del giorno7, ma esistono anche pressioni internazionali meno “dirette”, come gli avvertimenti delle agenzie di rating sul declassamento dell’Italia8.
Insomma, come paese capitalista abbiamo forti limiti, e non è per caso che il PIL è stato praticamente vicino allo zero dal 2000 al 2007, finché la crisi non l’ha affossato definitivamente. Se finora il sistema ha tenuto, e la gravità del problema non è stata avvertita nemmeno da larghe fette della popolazione, che tutto sommato pensano ancora di poter “tirare a campare”, è perché in Italia c’era stata nei decenni precedenti una grande tendenza al risparmio. Grazie al ricorso al risparmio non si è percepito quanto realmente si sia perso negli ultimi dieci anni in potere d’acquisto: così molti lavoratori dipendenti danno fondo ai soldi accumulati per tenere lo stesso livello dei consumi o un livello appena ridimensionato9. Un discorso diverso ma complementare si deve fare per chi accede invece ora sul mercato del lavoro, e solo con molta fatica e con l’aiuto di quell’ammortizzatore sociale tutto italiano che è la famiglia riesce ad arrivare alla fine del mese.
Ovviamente, Draghi lo accenna appena, il sistema italiano è riuscito a tenere per svariati altri motivi: come il ricorso al nero in tutte le sue forme (fino ad arrivare alle condizioni schiavistiche in cui lavorano gli immigrati nel nostro paese), ma anche perché ha compiuto prima degli altri delle riforme che sono andate a minare le possibilità di contrattazione dei lavoratori, l’attività sindacale, ed anche il salario, sia diretto che differito. In questo senso l’Italia si è mossa tempestivamente, e la riforma delle pensioni, che Draghi assume come uno dei punti di forza del nostro sistema ne rappresenta un buon modello.
Ed è anche a questo tipo di riforme, fatte per tempo (cioè prima che avanzi il conflitto sociale) e volte a rinforzare il comando del capitale e la divisione di classe, che guarda Draghi. Infatti, a partire da questo quadro, il governatore di Bankitalia arriva a delineare un vero e proprio programma di riforme da cui nessun governo potrà prescindere: concentrazione delle imprese, riforma della giustizia civile, liberalizzazioni, riforma dell’istruzione, ottimizzazione delle risorse… Convergono qui tutti i caratteri di quella svolta neocorporativa che, invocata dai tempi della transizione incompiuta del ’90-’93, deve ora portare l’Italia ad essere il più simile possibile ai paesi a capitalismo “avanzato”.
3. Proviamo a definire meglio questa svolta neocorporativa, che è richiesta dalla “nuova” fase del capitalismo a livello mondiale. Premessa è che la crisi del 2007 ha determinato una tale quantità e qualità di cambiamenti (e sul piano internazionale questo è a dir poco evidente) che anche nel nostro paese si stanno smuovendo equilibri rimasti invariati per decenni. Come fu negli anni ’70, la crisi porta ad una profonda ristrutturazione della produzione, delle relazioni industriali, delle condizioni di vita dei lavoratori. E come nella fase ’90-’93, in cui la caduta del Muro di Berlino offrì un’occasione ghiotta per riconfigurare i rapporti fra le classi, fase a cui non a caso Draghi fa più volte riferimento come un modello positivo di intervento (arrivando persino a consigliare quelle modalità alla Grecia), stiamo assistendo a degli spostamenti significativi. Sul piano economico (con processi di smantellamento, privatizzazioni, acquisizioni, concentrazioni etc, e con il cambiamento delle relazioni industriali); sul piano politico (con le riconfigurazioni in atto negli schieramenti e con un protagonismo politico diretto da parte di soggetti legati alla dimensione economica, come Montezemolo o Marchionne); sul piano istituzionale e giudiziario (con l’attacco all’equilibrio dei poteri, con un rafforzamento del potere esecutivo, con la presenza di un Presidente della Repubblica favorevole alla “transizione”, vicino al grande capitale, al progetto dell’UE, alle posizioni italiane più imperialiste). Insomma, anche se potrebbe prevalere comunque la tendenza italiana alla “conservazione”, che smorzerà almeno in superficie il portato della “transizione”, ci sono consistenti segnali per affermare, con Della Valle, che “il tappo è saltato”.
Ora, di corporativo questa nuova fase ha in comune con la vecchia che cerca a tutti costi la compatibilità fra lavoro e capitale. Cioè si cerca sempre di negare autonomia al proletariato, provando a frammentarlo ed assorbirlo, legandolo ai sindacati filopadronali, e soprattutto vincolandolo (anche soggettivamente) al proprio padrone. Proprio come – seppur in modi diversi – facevano le corporazioni durante il fascismo, o come si è provato a fare prima con la concertazione, poi con la politica di attacco ai lavoratori negli anni zero, quando è avvenuto il superamento della concertazione in favore di un’impostazione estremamente direttiva e coercitiva dei rapporti di lavoro tanto nel pubblico quanto nel privato… Tuttavia ora questa compatibilità fra lavoro e capitale non viene ricercata più con un compromesso né con i lavoratori, né con le loro burocrazie, ma con un asservimento totale del lavoro, anche nelle sue forme più “garantite” e persino “privilegiate”, alle esigenze del capitale.
Detto in altri termini, il concetto è: il grande capitale continua sempre a “devastare” il proletariato, perché la sua sola esistenza è una minaccia, ma rispetto al passato è ora più forte (dal punto di vista dei rapporti di forza interni) e/o più disperato (dal punto di vista esterno, della competizione mondiale) e quindi disposto anche a rompere con altri settori sociali, che fino a poco tempo fa garantivano la stabilità e venivano anche giocati contro il proletariato, perché non si può più permettere di nutrire fasce di piccola e media borghesia, ordini professionali etc. Insomma, per reggere la competizione ogni centesimo deve diventare produttivo, e bisogna quindi tagliare sugli sprechi del sistema, sugli anacronismi, sulle nullafacenze, sull’arretratezza tecnologica etc.
Draghi presenta queste posizioni quasi in forma pura, quando parla di lotta al nero, o di liberalizzazioni10, avendo poco prima “reso onore” – e non a caso – a Tommaso Padoa Schioppa. Ma c’è un altro elemento su cui vale la pena attirare l’attenzione. Nella svolta neocorporativa c’è infatti anche un alto contenuto ideologico, che Montezemolo esprime al meglio: non bisogna solo intervenire con provvedimenti, coercitivamente, ma bisogna cambiare la mentalità, l’approccio, le abitudini:
“La crescita di un’economia non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un paese. Scriveva ancora Cavour: “Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico… Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue dei suoi progressi economici”. Occorre sconfiggere gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese; è questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese”.
L’ideologia del merito è in questo progetto una leva decisiva, anche per cooptare i giovani e “le persone per bene” che sono stanche di un sistema fondato sulle raccomandazioni, sulle inefficienze. Ma questa nuova mentalità si deve smarcare persino dalla Chiesa cattolica (e così possiamo leggere il percorso “laico” di Fini11), che rappresenta un residuo tradizionale, che relega il welfare dello stato ad una base familiare, che impedisce di pensare sino in fondo l’individuo (oltre a costituire di per sé un contropotere ed uno spreco enorme). Attenzione: non stiamo parlando di fantascienza: è proprio questo quello che è successo ad esempio in Spagna in questi ultimi dieci anni. D’altronde i margini per una politica di questo tipo ci sono: basta affrontare il problema del recupero sul “nero” in tutte le sue forme12. In questo senso colpisce il fatto che Draghi parli di ridurre “l’onere fiscale che grava sui tanti lavoratori e imprenditori onesti”. L’aggettivo, che in qualsiasi paese normale non sarebbe usato, perché non esisterebbe proprio il problema dell’esistenza pubblica e di una certa legittimità degli evasori, indica quali sono gli elementi da pressare per rendere possibili le riforme.
Come dire: stanno venendo meno i pilastri del vecchio corporativismo italiano, che si basava appunto su una forte evasione fiscale e sull’illegalità dei “piccoli”, che permetteva alle imprese di recuperare sui profitti (ma che alla lunga non consentiva l’ammodernamento dell’apparato produttivo, gli investimenti in ricerca per migliorare la produttività e diversificare la produzione spostandola sul segmento tecnologicamente più “avanzato”, non permette di attrarre investimenti perché non ci sono garanzie e vige un arbitrio incomprensibile per gli investitori esteri). Ma sta venendo meno anche tutta quella fitta rete di privilegi, di arcaismi e sacche improduttive, di una larga ed inefficiente presenza dello Stato, di una forte spesa pubblica volta quasi tutta a “dare il posto” per creare consenso e smorzare il conflitto sociale. Anche qui, per le necessità imposte dalla crisi, per l’esigenza di “ottimizzazione” e per la subordinazione ai dettami neoliberisti, si è dovuto tagliare.
Ma se la grande borghesia attacca ampie fasce sociali, settori di lavoratori, piccola borghesia impiegatizia, ordini professionali, e piccola imprenditoria, su cosa costruisce il consenso? Sugli individui ormai atomizzati e messi l’uno contro l’altro, ed in particolare sui giovani. A questo proposito nel documento di Draghi c’è un riferimento preciso. Draghi sembra quasi partire dando ragione a chi in questi anni ha denunciato le insopportabili condizioni di precarietà, ma si capisce presto dove vuole arrivare:
La diffusione nell’ultimo quindicennio dei contratti di lavoro a tempo determinato e parziale ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione, ma al costo di introdurre nel mercato un pronunciato dualismo: da un lato i lavoratori in attività a tempo indeterminato, maggiormente tutelati; dall’altro una vasta sacca di precariato, soprattutto giovanile, con scarse tutele e retribuzioni. Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani; spronerebbe le unità produttive a investire di più nella formazione delle risorse umane, a inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera.
Tradotto, vuol dire che: in Italia, purtroppo per noi (cioè per loro), la precarietà non è trasversale, come ad esempio in Spagna o in Inghilterra, ma è segmentata in modo generazionale. Bisogna quindi spalmare la condizione precaria su tutta la forza lavoro, indipendentemente dall’età, dare la possibilità ai “migliori” di emergere e tagliare le gambe ai “tutelati”. In questo modo si creerebbero dei blocchi sociali meno omogenei, che sono meno pericolosi. Si prepara insomma una manovra che vada a disattivare una bomba sociale, quella giovanile, che è oggettivamente innescata; e si romperà materialmente ogni residua solidarietà di classe, mettendo, grazie al risentimento, l’uno contro l’altro. Ovviamente non si lavorerà tanto sulle condizioni materiali dei giovani, ma sulle aspettative dei giovani, sulle loro possibilità di carriera, perché il sistema comunque non è più in grado di garantire come in passato ampie ridistribuzioni13.
Insomma, come si è constatato parlando di Marchionne – che si è posto come avanguardia del grande capitale ridefinendo le relazi oni industriali e rompendo assetti consolidati – o dei lavori dell’Assise di Confindustria – che hanno segnato proprio un ricompattarsi di pezzi di padronato intorno al grande capitale –, si sta aprendo un periodo di transizione, che in qualche anno ristrutturerà profondamente il sistema-Italia. Nel frattempo non sono da escludere eventi (scossoni, attacchi speculativi, sortite di singoli capitalisti rappresentativi, pressioni della UE) che accelerino il processo.
4. Ma chi può farsi carico di tradurre in realtà il programma di Draghi? Detto in altri termini, quali scenari politici ci attendono nel breve periodo? Sintetizzando al massimo, al momento sulle politiche economiche ci sono tre posizioni:
a) quella “classica” corporativa di Tremonti, molto semplice, estremamente conservatrice: si vuole rispettare il patto di stabilità, ma solo con una politica di tagli, quasi sempre orizzontali. È una politica che va a impattare soprattutto sui lavoratori dipendenti, che punta su qualche misura più di forma che di sostanza, e che recupera molto poco dal “nero”. Tremonti prova a superare questa fase dura mirando solo al pareggio del bilancio e sperando di beneficiare della ripresa internazionale. Non è una politica di grandi interventi, anche perché il blocco sociale che esprime non ha interesse nelle privatizzazioni tipo FINCANTIERI, perché non può competere a quel livello, e vuole continuare con il vecchio corporativismo. Ma è un discorso alla lunga perdente: nel migliore dei casi non si può viaggiare alla crescita dell’1% mentre gli altri viaggiano al 3%; senza contare che i limiti dell’Italia sono strutturali, e quindi il problema sarebbe, ben che vada, solo rinviato…
b) la posizione di Berlusconi e quindi della Lega, che pur di mantenere il loro potere sono disposti a tutto, anche a non rispettare il patto di stabilità. E quindi propongono misure folli, come quella della riforma fiscale ad ogni costo. Da questo punto di vista a tutto il padronato Berlusconi non sembra più credibile, e infatti Confindustria, pur restando divisa fra una componente che vorrebbe svoltare nettamente, e una continuista, che appoggia il progetto di Tremonti, promettendo il sostegno in cambio di una diminuzione della pressione fiscale e dell’intervento sulle rendite finanziarie, sembra avere comunque mollato Berlusconi14.
c) infine c’è la posizione della grande borghesia e dei filo europeisti, portata avanti da Fini, da Casini, da Montezemolo, dal PD, da Repubblica e da svariati altri soggetti istituzionali15. Questi premono per un programma di liberalizzazioni e per una serie di riforme strutturali, per un recupero massiccio dell’evasione, e per uno scompaginamento delle corporazioni. Ma al momento hanno delle difficoltà ad articolare politicamente la loro proposta: mancano i numeri, una reale alternativa di governo, un largo consenso nel paese.
Anche per questo motivo non sono da escludere nel breve periodo soluzioni di “composizione parziale” fra le diverse parti politiche16. Bisogna ad esempio notare come Tremonti nella passata settimana si sia impegnato in un giro di confronti con tante realtà sociali, accentuando la sua distanza dalla linea Berlusconi, e si stia cautamente avvicinando a Draghi e all’Unione Europea, almeno sulla questione del pareggio di bilancio. Si potrebbe anche ipotizzare che intorno a Tremonti si possa coagulare un nuovo blocco politico, con uno scambio intorno al federalismo fiscale17, e rispetto ad altre misure minori. Gli scenari restano aperti, ma quello che è certo è che un cambiamento si è messo in moto.
5. Ora, se è questo è lo scenario in cui ci dovremo muovere nei prossimi mesi, che fare? Ammesso che le tendenze che abbiamo riscontrato siano in atto, come possiamo/dobbiamo intervenire? Decisamente, sarebbe presuntuoso provare a dare nel giro di qualche riga una risposta che sia sensata, anche perché qualsiasi risposta si dovrebbe basare su una pratica di lotta, su sperimentazioni e vittorie anche parziali, su percorsi in controtendenza, che possano essere ripresi, allargati, generalizzati… Ci sembrerebbe infatti retorico e ideologico stendere qui la “classica” lista di rivendicazioni, spesso banali quanto velleitarie, mancando poi di strumenti efficaci che ci possano servire a contrastare questa spietata lotta di classe dall’alto.
Però sicuramente possiamo provare a dire alcune cose che spesso sono dimenticate dagli stessi compagni, e cercare di ricostruire una percezione esatta di quelle che sono almeno le nostre potenzialità. E dunque provare a capire, a partire dallo sguardo che altri posano su di noi e dalla stessa tensione storica, quale possa essere il nostro compito. Insomma, più che di “conclusioni” qui dobbiamo parlare di aperture: di un tentativo di mettersi all’altezza dei problemi, di una consapevolezza che ci fa evitare i vicoli ciechi – questo non sarà certo il “che fare”, ma una specie di serietà che gli è preliminare.
Non vogliamo riprendere qui la nota analisi marxiana, già evocata, e risaputa dagli stessi borghesi, che il capitalismo non può risolvere che momentaneamente le sue contraddizioni, e che quindi anche questa ristrutturazione del sistema che abbiamo provato a delineare, per quanto sia dolorosa e segni un arretramento spaventoso nel breve e medio periodo, potrebbe consentire sui tempi lunghi degli avanzamenti (non solo infatti se il ciclo di accumulazione riparte potrebbero ripartire anche le lotte, ma è il capitalismo stesso a fabbricare i suoi becchini: se si spingono le masse verso la proletarizzazione alla lunga queste potrebbero trovarsi più disperate, riconoscersi più facilmente fra di loro e dare inizio ad una nuova fase politica). Ci vogliamo solo riferire a qualcosa di più piccolo e circostanziato, un passaggio trascurabile, ma che a pensarci bene è quasi un’epifania…
Torniamo ancora una volta al testo di Draghi. Verso la fine della sua relazione, nel momento di maggior pathos, il governatore tira fuori Cavour. Una citazione che è stata presentata come un atto di “rispetto” per le istituzioni, mentre in realtà il governatore intendeva suggerire che le istituzioni si devono mettere al servizio dello “sviluppo”, cioè del “capitale”: in altri termini, che il progresso economico non deriva solo da cause economiche e che la politica deve intervenire con tutti i suoi apparati ad aprire la strada più larga possibile al programma borghese. Ma c’è un’altra citazione di Cavour, che Draghi aveva fatto poco prima, a cui la stampa non ha dato troppo peso: “le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Che intende qui Draghi? Perché questa excusatio non petita? A chi si sta riferendo?
Per capirci qualcosa in più, è essenziale riprendere il contesto che spinse Cavour a pronunciare questa frase, e la sua stessa figura politica. Cavour fu uno dei pochi liberisti italiani, uno che cercò di modernizzare il Piemonte importando il modello economico e politico inglese e francese, uno che per farlo ruppe con la destra più reazionaria e con buona parte dei cattolici. Il richiamo a Cavour nella storia italiana ha sempre espresso in qualche modo una professione di liberismo “puro”, contro gli intrecci corporativi e i tratti retrivi che hanno caratterizzato la vicenda nazionale, una proposta di “grande progetto” da contrapporre ai piccoli accordi sottobanco, alla politica del “giorno per giorno” etc18. Quando Cavour parla in favore delle riforme, è perché vede che in Italia la situazione si sta facendo esplosiva, fra malessere e rivolte dei contadini e agitazione di gruppi di democratici e radicali. Alla destra più reazionaria quindi dice: se continuiamo così rischiamo di saltare tutti; la repressione da sola non basta, ci vogliono misure che incanalino il malcontento. Dovete cedere qualcosa, ma non vi preoccupate: avrete indietro gli interessi. Ma bisogna muoversi presto, fare in tempo le “riforme” proprio per rafforzare quell’autorità che è sotto pressione.
Ora, se si capisce bene a quale sia la destra a cui si riferisce il nostro Draghi/Cavour – quella più gretta e berlusconiana, con il suo blocco sociale e le sue simpatie da italietta fascista – non è altrettanto immediata la comprensione di chi rappresenti oggi la minaccia all’autorità. Apparentemente nessuno: mai gli organi di potere hanno potuto dormire sogni così tranquilli in Italia, mai le forze rivoluzionarie sono state così sconfitte, e non esiste nemmeno lontanamente un’alternativa politica che rifiuti gli assunti del liberismo. Però allo stesso tempo Draghi non può non riferirsi a noi, ed a chi pretendiamo di rappresentare, il proletariato. La minaccia persiste, e la sua citazione è a tutti gli effetti un avviso. Perché?
Perché chi gestisce il potere vede, molto più di noi, le cose su una scala storica e geografica più vasta, e sa che dietro l’angolo ci possono essere sorprese inattese. Sa, al limite della paranoia, che il sistema è contraddittorio e produce chi questa contraddizione la può sfruttare, sa che un’intera generazione ha di fronte, comunque vadano le cose, il drastico ridimensionamento delle proprie aspettative e condizioni di vita, e sa che nella storia spesso le cose sono cambiate in tempi rapidissimi. Sa che il mondo è più grande di questo buco di provincia che è diventata l’Italia, e che non si è mai immuni dal “contagio”.
Ed è proprio questa sopravvalutazione, o giusta valutazione, che i padroni fanno di noi, a dover essere la nostra forza nell’immediato. Sentono che la loro autorità è minacciata, temono che le cose non andranno così lisce: bene, mettiamoci all’altezza dei loro incubi.
note
1. Il testo completo dell’intervento è scaricabile qui.
2. Notiamo en passant che il capitalismo degli ultimi decenni si è affannato nel tentativo di costruire organismi apparentemente “imparziali”, proprio per armonizzare ed ottimizzare i comportamenti dei diversi capitali nazionali, com’è stato nel caso della politica monetaria comune.
3. Questa falsa universalità merita quanto meno di essere sottolineata: se da un lato Draghi allude ad una sorta di “visione comune”, e questo ora è indubbiamente vero, da un altro lato bisognerebbe capire a quale soggetto questa visione è comune. In altri termini, è rimossa a priori qualsiasi altra posizione, l’arroganza dei padroni si presenta con una veste scientifica e come l’unico punto di vista possibile.
4. Giusto per fare un esempio, da noi i cassaintegrati sono valutati come occupati, mentre all’estero chi prende il sussidio di disoccupazione o riceve altre forme di ammortizzatori sociali è conteggiato come disoccupato.
5. Ovviamente “IlSole24Ore” ha dato ampio spazio alla relazione. Si veda ad esempio G. Gentili, Ultima chiamata per la crescita (che non a caso sottolinea: “Ripartire, dunque, ma da dove? In generale, da una lotta senza quartiere contro gli ‘interessi corporativi’ che s’intrecciano ed opprimono il Paese, ha osservato Draghi. E poi, ecco uno dei passi fondamentali delle sue ultime ‘considerazioni finali’, facendo leva sul bilancio pubblico come elemento di stabilità e insieme di propulsione della crescita economica”).
E ancora l’articolo di Stefano Folli, Sulle riforme crescono le contraddizioni intorno al premier, in cui risalta netta la percezione che una bella fetta del padronato italiano abbia scaricato Berlusconi.
Questa invece la lettura del Centrosinistra, prevedibilmente antiberlusconiana, ma sostanzialmente concorde con Draghi. M. Giannini allude addirittura ad un possibile programma per il governo a venire, Le prediche utili al governo che verrà (“Sul piano dell’economia reale, oggi l’Italia è una gigantesca palude, con piccole eccellenze e un grande futuro dietro le spalle. Un Paese paralizzato dall’inazione dell’esecutivo e dalla rendita dei monopoli, dall’inefficienza delle amministrazioni e dalla resistenza delle corporazioni […] Quale Paese lasciamo ai nostri figli?”, si chiede il governatore. Risanamento e modernizzazione sono sfide mancate, ma non ancora perdute. Ascolti Draghi e ti convinci che il declino non è un destino. Il ritorno a Cavour che dice “il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico” ti fa ben sperare […] Insieme a quello di Draghi a Via Nazionale, altri cicli si stanno chiudendo in questo tribolato Paese. “Tornare alla crescita” è un programma eccellente, per il governo che verrà”).
C. Clericetti, ne Il decennio perduto, prova nell’ultimo paragrafo almeno ad articolare una timidissima critica al modello neoliberista (“le ricette che [Draghi] propone sono in parte incontestabili […] in parte riconducibili al pensiero economico che ha prevalso nell’ultimo ventennio e che è ancora dominante a livello europeo. Le sue osservazioni sul problema della precarietà e sull’eccessivo dualismo del mercato del lavoro non arrivano ad esplicitare una ricetta precisa, ma suonano simili a quelle di molti economisti di destra che paradossalmente trovano grande ascolto anche in una parte della sinistra. L’insistenza sulla disciplina di bilancio […] l’avvertimento sui rischi di inflazione e il ribadire che il compito della Bce è prima di tutto garantire la stabilità monetaria, suonano come una immedesimazione completa nella linea che la Banca centrale di Francoforte e il governo di Berlino hanno finora fortemente sostenuto con l’appoggio della Commissione europea. Insomma, con Draghi a Francoforte, se queste sono le premesse, non ci sarà nessuna svolta: vestiremo alla tirolese”).
6. Qui un commento di Emiliano Brancaccio. Si distingue Francesco Piccioni su “Il Manifesto”. Pessimo invece il commento di Galapagos sempre su “Il Manifesto”, che aiuta solo a far capire la miseria di questa sinistra incentrata sull’antiberlusconismo e non sull’anticapitalismo.
7. Ci sono ad esempio avvisaglie di tentativi di speculazione sull’Italia: il comparto bancario italiano paradossalmente sta risentendo di più della crisi greca, pur non essendo esposto come le banche francesi e tedesche.
8. Cfr. Dubbi di Moody’s su riforme, tassi e crescita, del 17 giugno, e Moody’s, sotto osservazione società pubbliche ed enti italiani, del 20 giugno. Moody’s afferma che la “revisione del rating si concentrerà soprattutto sulle prospettive di crescita per l’economia italiana nei prossimi anni, ed in particolare sulla rimozione di importanti e strutturali colli di bottiglia che possono frenare la ripresa economica nel medio termine“. Già il 20 maggio, la seconda agenzia internazionale, Standard&Poor’s, aveva tagliato da stabile a negativo l’outlook sul debito dell’Italia, citando le attuali deboli prospettive di crescita…
9. Questo punto è ben evidenziato da Draghi a p. 11: “Le dinamiche retributive sono da noi modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: la domanda interna ne risente. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia; i consumi reali delle famiglie, cresciuti del 18 per cento in Francia, sono aumentati da noi meno del 5, e solo in ragione di una erosione della propensione al risparmio”.
10. Cfr. Antitrust, l’allarme di Catricalà. “Liberalizzazioni ferme, rischio vitalità”: “Riforme bloccate e liberalizzazioni accantonate, con rischi pesanti sulla ripresa economica […] L’Autorità, prosegue Catricalà, ‘ha dovuto denunciare pericolosi tentativi di chiusura dei mercati dettati dagli interessi particolari in settori come le farmacie, le assicurazioni, alcune professioni, i trasporti […] Deve essere recuperato il tempo perduto’ […] I colli di bottiglia sono tradizionalmente ormai sempre gli stessi: ‘ferrovie, gestioni autostradali e aeroportuali, governance bancaria e assicurativa restano i settori sui quali è prioritario introdurre assetti di mercato realmente competitivi’”, 21 giugno 2010.
11. Vale la pena leggere questa intervista di Aldo Cazzullo sul Corriere del 16 giugno dove Fini, proprio a partire dalla relazione di Draghi, dice: “si sta per chiudere una fase. Forse per certi aspetti si è già chiusa […] oggi la reazione della società prefigura la crisi di un sistema: lo si chiami berlusconismo o bipolarismo muscolare o Seconda Repubblica”. E poi butta lì una frase che nasconde la preoccupazione di una perdita di consensi da parte della Chiesa cattolica, a causa di un certo laicismo e della spinta verso il modello neocorporativo di cui è interprete Fli. Cambiamento è anche “laicità delle istituzioni; che non significa mancare di rispetto alla Chiesa”.
12. Vediamo una delle applicazioni possibili di questa tattica: tasso la rendita finanziaria, faccio emergere la rendita immobiliare, la tasso, e vado a recuperare risorse che colmino quel gap che si è creato tassando la rendita finanziaria e sul piano del debito pubblico. Fra l’altro così abbasso i livelli inflattivi (siccome non conviene più troppo, scendono i prezzi delle case e degli affitti). Insomma, è attraverso manovre di quadratura come queste che si cercherà di omogeneizzare l’Italia agli altri paesi europei.
13. In realtà, così facendo, il capitale, proprio perché è incapace di sanare una volta per tutte le sue contraddizioni, innesca sul lungo periodo una bomba sociale ancora più grossa perché si trova di fronte un proletariato più omogeneo e quindi potenzialmente più conflittuale.
14. Marcegaglia: Subito manovra e avanti con la riforma fiscale, del 20 giugno.
15. Napolitano in primis. Ma da questo punto di vista l’intervento di Giuliano Amato a Ballarò del 21 giugno ha detto tutto. Amato si è richiamato anche lui più volte a Draghi, ha anche lui paragonato questa fase a quella dei primi anni ’90, ha invocato l’unità nazionale (nella forma di un governo tecnico), ha affermato esplicitamente che bisogna “fare sacrifici”, e lavorare di più a parità di salario (addirittura utilizzando strumentalmente Di Vittorio) etc.
16. Da questo punto di vista è interessantissimo l’intervento di Carlo Sangalli, presidente della Confcommercio, nella relazione all’assemblea annuale.
17. Su cui Draghi dice: “Il federalismo fiscale può aiutare, responsabilizzando tutti i livelli di governo, imponendo rigidi vincoli di bilancio, avvicinando i cittadini alla gestione degli affari pubblici. Due condizioni sono cruciali: che i nuovi tributi locali siano compensati da tagli di quelli decisi centralmente e non vi si sommino; che si preveda un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa”.
18. Addirittura, per polemizzare contro i giolittiani, che dicevano di essere gli eredi di Cavour mentre facevano una politica corporativa, che si proclamavano liberali mentre vivevano ancora nel “feudalismo economico” e nel parassitismo statale, Gramsci arrivò a pubblicare sull’“Avanti!” il celebre discorso cavourriano in favore del libero scambio!
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