Per “tecnica” possiamo intendere quell’insieme di saperi che permettono al governo di ristabilire l’efficacia economica in grado di garantire le condizioni per cui lo Stato possa, in sostanza, continuare ad esistere così come lo conosciamo (cioè con la propria struttura istituzionale, il proprio diritto, le proprie relazioni internazionali), insomma permettendogli di ritornare ad avere una direzione politica nel minor tempo possibile. Ciò lascerebbe presumere che non ci sarebbe politica nel “tecnico”, cioè, per dirla in breve, un’immaginazione o una pianificazione del futuro. Il governo tecnico è come il lubrificante nel mangianastri che ha iniziato a stonare e necessita quindi di manutenzione, o almeno così lo sta vivendo il paese; prima o poi bisognerà però fare i conti col fatto che non si usano più le audiocassette. Ma è proprio vero che non c’è politica nella tecnica? Ristabilire l’ordine finanziario non è di per sé una direzione politica nel momento in cui mantiene il potere sproporzionato dei creditori rispetto agli indebitati? La risposte a queste domande sono complesse, ma una cosa semplice da vedere c’è: non esiste più un’opposizione ufficiale (escludendo la Lega euroscettica e complottista). Come si dà una democrazia senza opposizione? Tant’è che il dibattito politico si interroga solamente su come redistribuire equamente i sacrifici, e non su come redistribuire più equamente la ricchezza. In sostanza, chi fino ad ora è stato agevolato da politiche miopi, mafie, falle nella tassazione di vario tipo, pagherà certo qualcosa in più (vedi ipotesi di tassa patrimoniale), mentre invece chi già faceva sacrifici, era sottoposto al ricatto della precarietà, ha perso il lavoro, aveva contratti non garantiti, continuerà a pagare come prima in nome del risanamento. Ma per questi ultimi soggetti la voglia di pagare ancora è ben poca.
Resta infatti l’opposizione, questa volta di stampo globale, dei movimenti: c’è sempre più affinità tra gli occupanti di Wall Street, gli scioperanti del porto di Oakland e gli indignados spagnoli. La caratteristica principale di queste esperienze è proprio quella di ripensare la democrazia. In tutte queste piazze la critica della rappresentanza (come falsa nella sua rappresentazione, come incapace di assolvere ai propri doveri o come malfunzionante e corrotta) si unisce di certo alla critica della “rappresentanza di movimento”, ossia dell’egemonia di leader, collettivi o gruppi organizzati nel processo decisionale. Lunghissime assemblee di centinaia (spesso migliaia) di persone sono in grado di prendere decisioni comuni e condivise sulla prosecuzione delle mobilitazioni e in alcuni casi anche sulla pratica diretta di nuovi modi di gestione del sociale. E’ un esperimento che sta funzionando da qualche settimana anche a Bologna, dove l’11/11 (giornata di mobilitazione globale) più di millecinquecento persone hanno occupato un cinema dismesso per farne la propria “piazza coperta”. Il simbolo ironico di queste centinaia di persone è ben presto diventato “Santa Insolvenza”. Una santa molto determinata (apparsa prima sotto forma di statua di cartapesta, poi impersonata da un noto transessuale bolognese) che è apparsa in molteplici luoghi della città esprimendo la propria rabbia e indignazione e talvolta realizzando i primi obiettivi concreti, ad esempio impedendo lo sgombero di una famiglia che non era più in grado di pagare l’affitto, permettendo a registi emergenti di far conoscere la propria opera (attraverso il cinema occupato), radunando attorno a sé centinaia di cittadini che hanno visto in lei una parvenza di speranza futura.
La politica della Santa prevede che si ragioni di un default (insolvenza, bancarotta) che metta in discussione il sistema del debito, il cui ricatto impedisce politiche che guardino più in là dell’austerity. Le speculazioni sui mercati sono sempre più finalizzate ad imporre criteri di presunta efficienza economica in tutti i settori della vita sociale quali pensioni, formazione, università, trasporti (ecc…), che ancora erano fondati su finalità di benessere pubblico. Proprio questa impostazione neo-liberista è tuttavia quella che ha causato la crisi (in questo senso “la crisi non è nostra e perciò non vogliamo pagarla”). Nella pratica si tratta anche di rivendicare l’insolvenza dove questa impossibilità di pagamento è già palese (come è per la famiglia che deve pagare l’affitto, il precario che deve pagare il biglietto dell’autobus, le bollette dell’acqua sulle quali speculano aziende private nonostante il referendum).
A partire da queste rivendicazioni si sta sviluppando un nuovo sentire comune e nuovi modi di stare insieme: nuove forme di solidarietà attraverso le quali occorre riprendere ciò che la crisi ha tolto o minaccia di togliere. Così è stato per l’ex cinema Arcobaleno in piazza Re Enzo, un luogo inutilizzato che è stato restituito alla cittadinanza e gestito in comune, permettendo a centinaia di persone di respirare finalmente un’aria completamente nuova. Dopo cinque giorni il cinema è stato sgomberato per volontà del sindaco (la democrazia diretta sgomberata da quella rappresentativa si potrebbe dire). Dunque si ha che: il privato chiude il cinema perché non è in grado di mantenerlo e non riesce a venderlo; centinaia di persone lo riaprono, lo rendono funzionante e lo restituiscono alla collettività; l’istituzione pubblica sgombera quello spazio collettivo e pensa di poter chiudere quell’esperienza facendone murare gli accessi alle forze dell’ordine (fintanto che i pompieri si sono pubblicamente dissociati). Dalla polvere alla polvere, il ciclo della valorizzazione finanziaria.
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