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Presagi di tempesta

Non si è ancora concluso del tutto il conflitto originato dalla marcia degli indigeni che si opponevano al progetto dell’autostrada che doveva passare per il TIPNIS, che già se ne annunciano altri.

Questo non deve meravigliare chi conosca minimamente le dinamiche della politica boliviana. Si sa che anche prima che si insediasse alla presidenza Evo Morales, erano già pronti piani destinati a frustrare il lavoro di questo governo. Quella è la cosa più normale in queste situazioni. E, inoltre, è successa in tutte le parti del mondo. Dove emergeva un governo popolare o rivoluzionario e dove governi democratici sostituivano dittature, la resistenza esplodeva precocemente; era, virtualmente, un’azione di riflesso delle classi spodestate e dei loro sostenitori, generalmente esterni, manipolatori che muovono i fili dalla metropoli. Non è forse successo così dopo la Rivoluzione Russa del 1917? 14 paesi intervennero cercando, come disse un politico britannico, di soffocare in culla la creatura. Non è successo così pure con la Rivoluzione Cubana e l’intervento yankee alla Baia dei porci? Non è successo così con molte altre rivoluzioni che non erano necessariamente di orientamento socialista? Non ci inventiamo niente. Sono fatti scritti nelle pagine della storia universale. Bisogna tenerne conto in ogni momento. È dovere elementare di sicurezza. Questo non vuol dire che non si deve correggere tutto ciò che è necessario e criticare le carenze in maniera costruttiva, anche severamente, se è il caso.

Le rivoluzioni e colpi di stato che si sono susseguiti in America Latina contro governi progressisti di orientamento socialista o popolare sono anche storia conosciuta e molto lunga per ripeterla. Nostra intenzione è solo risvegliare i ricordi del lettore. Da prima e dopo gennaio del 2006, sono numerosi i fatti che rivelano la presenza di resistenze di diverso ordine. Sempre, la destra e l’imperialismo, sapevano dove andare a fare leva, dove si doveva seminare zizania, dove dovevano mantenere i loro agenti e collaboratori, dove infiltrare i loro operatori, quando usare come leva gli errori dell’avversario, le sue carenze visibili e, infine, trasformare tutto questo in un articolato sistema di cospirazione.

A volte i piani sono esplosi come schegge di disordini, scioperi cittadini, alcuni di grandi proporzioni, come quelli di Sucre, Santa Cruz, el Beni e Pando. Fortunatamente alcuni di questi episodi hanno provocato tale rifiuto nell’opinione pubblica che hanno ricevuto una condanna unanime non solo nazionale, ma del mondo. Ci riferiamo alle vessazioni contro i contadini quechua, costituenti e l’attacco alle istallazioni ed equipaggiamenti della polizia, ecc. ecc. a Sucre nel 2008. Il piano più fortemente elaborato è stato quello con il quale ha operato il Commando capeggiato dal mercenario boliviano-ungherese Eduardo Rózsa Flores. Questi portava la “tecnica” del terrorismo-guerra civile- secessione del paese. “Tecnica” inventata dai pianificatori della CIA e messa in pratica in Kossovo da…. (guarda caso!) l’ambasciatore statunitense espulso dal nostro paese Philip Goldberg. Questi ha “agganciato” lì Rózsa e poi se l’è portato nel paese. Il complotto è stato opportunamente mandato all’aria, provocando i rimbrotti della destra e dai media maneggiati da questa, che ebbero persino la faccia tosta di negare le prove schiaccianti a carico di molti cospiratori, soprattutto orientali. Anno anche saputo utilizzare, o sarebbe meglio dire “mascherare”, sotto l’apparenza di innocenti richieste o giuste cause, a organizzazioni sociali e sindacali, comunità indigene. Il caso della marcia del TIPNIS è, in questo senso, molto eloquente. Per cominciare si deve insistere in qualcosa che fu chiaro fin dall’inizio: i dirigenti della marcia, impegnati e sostenuti da delle ONG e da un ente come USAID, del governo USA, non hanno mai voluto giungere a un accordo né discutere e appianare le possibili differenze che potevano esserci nel trattare l’argomento. Il loro obiettivo era deteriorare l’immagine del presidente, simulare la difesa dell’ambiente, del Parco nazionale Isiboro Sécure e con questa bandiera arrivare alla sede del governo. Con una concertazione e insistenza degne di migliori propositi, i mezzi di comunicazione, lanciando immagini e discorsi in gran quantità, sono riusciti a sensibilizzare l’opinione pubblica. Hanno sommato, senza sforzo, lo schiamazzo oppositore della destra, dell’ultrasinistra e degli scontenti. Hanno raggiunto il loro obiettivo di arrivare a La Paz circondati da un alone da vincitori. Il governo ha commesso errori di trattamento e ha fatto alcune concessioni. E questo gli è valsa perdita di autorità e la diserzione soprattutto delle classi sociali medie. A chiusura della storia ancora i dirigenti della CIDOB (quelli della marcia) giocano con i termini, facendo pietra di paragone dei problemi l’interpretazione del termine INTANGIBILITA’.

Qui è dove si rivela il fondo del problema. I dirigenti della marcia hanno seri e “metallici” impegni con predatori di materie prime (legname ed altre), con agenzie straniere di turismo e avventura (ugualmente predatorie). Hanno proposto per il Decreto Supremo regolamentatore, un Art.8 che dice tutto: l’intangibilità si riferisce “alle minacce esterne, prodotte da terzi e/o dallo Stato”. L’Art.10 completa il quadro: “Lo sfruttamento esclusivo delle risorse… del TIPNIS da parte dei popoli che lo abitano”. È un’interpretazione, naturalmente, inaccettabile e incompatibile con gli interessi del popolo e dello Stato Plurinazionale di Bolivia.

La questione rimane molto più chiara quando prendiamo l’esperienza dell’estero. Comunità della CONAIE (indigeni dell’Equador) vollero negoziare direttamente con multinazionali petrolifere per aree con riserve provate di idrocarburi. Questo ha causato seri mal di testa allo Stato dell’Ecuador. Qui il signor F. Vargas è stato molto esplicito in questo senso. Ha dichiarato ai mass media che si doveva interpretare l’intangibilità come riferita esclusivamente allo Stato boliviano. Tutto questo deve essere di monito per tutto quello che si sta pianificando. Stanno arrivando ore difficili. Si stanno facendo riunioni segrete e riservate che, sotto l’egida dello spionaggio straniero, si armano nuovi vespai di provocazione e azioni implicitamente violente. Ma non bisogna arrendersi. L’appello a rinnovare l’agenda di ottobre e a farne una nuova ha due obiettivi: precisare la direzione dello sviluppo sociale e accentuare il suo contenuto rivoluzionario, di transizione, recuperando la correlazione di forze per il Cambiamento. Il secondo è un problema di direzione e organizzazione. Non si può continuare senza strumenti organici di direzione e senza chiarezza nei metodi di azione.

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