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“Malapolizia”, la linea sottile tra ordine pubblico e abuso di potere

Checchino Antonini

Molti anni dopo, di fronte a un cadavere con dodici costole fratturate e la milza spappolata di un ragazzo morto nelle procedure d’arresto, faccia a terra, con i segni delle manette – qualsiasi “nerista” scriverà che si tratta di un nuovo caso Aldrovandi. Lo scriverà, sebbene con mille cautele e condizionali all’ingrosso. Riporterà invece puntualmente le dichiarazioni dei vertici di polizia o carabinieri, parole rassicuranti che, anche di fronte all’evidenza, ci marceranno pescando nel repertorio della retorica delle “mele marce”. Ma quel nerista non potrà non fare cenno al caso Aldrovandi.

Era l’alba di una domenica di settembre del 2005 quando il diciottenne ferrarese restò ucciso nel corso di un misterioso e violento «controllo di polizia» di fronte al cancello dell’ippodromo della sua città. Chi parlò a nome della Questura usò proprio questa formula «controllo di polizia». Ma i giudici scopriranno che già era partita la macchina del depistaggio. Da allora il caso Aldrovandi è l’archetipo della «malapolizia», un termine coniato da Liberazione – il primo quotidiano a raccogliere la denuncia di Lino e Patrizia, i genitori del ragazzo – per indicare i misteri e la mole di abusi nel “normale” svolgersi delle funzioni di polizia. Qualcosa di diverso ma non meno feroce dalla “straordinaria” repressione vista in atto sulle strade genovesi o alla Diaz e a Bolzaneto. Qualcosa di quotidiano, consuetudinario. Normale, appunto. Così normale che più di tre quarti dei colleghi dei quattro indagati, duecentocinquanta agenti della questura estense, manifesteranno in varie forme la propria solidarietà alle ultime quattro divise che videro vivo un ragazzo disarmato, incensurato, inerme, che non stava commettendo alcun reato. La condanna dei quattro in fondo a una faticosissima inchiesta della famiglia, sostenuta da una campagna di solidarietà in diverse città, ha scosso la proverbiale prudenza dei “neristi”, assuefatti al flusso di notizie ben pastorizzate distribuite dagli uffici stampa delle forze dell’ordine. Da allora, infatti, sono usciti un bel po’ di articoli, programmi tv e libri su quello e su altri casi di malapolizia.
Questo libro ha il merito di averne messi in fila un bel po’, nell’assenza di qualsiasi statistica ufficiale, e di aver cercato un filo nero che li collegasse. Perché non è vero che di certe cose la stampa non ne parli. All’epoca del web è quasi impossibile che un fatto di cronaca venga insabbiato. E’ vero che la stampa mainstream soffre di una dipendenza dalle fonti ufficiali – un giudiziarista penderà dalle labbra della Procura, un nerista da quelle dei comandi e così via – che ha l’effetto collaterale di produrre censura e autocensura. E’ vero che, dopo il clamore del caso Aldrovandi, quel tipo di stampa ha imparato a parlarne come sa fare lei: trasformando in spettacolo il dolore di chi, scaraventato sulla scena pubblica dalle manganellate letali di un tutore dell’ordine su un figlio o un fratello, è costretto a rivivere lo strazio più immane della propria vita inseguendo brandelli di verità e giustizia. Così può accadere che Giuliano Giuliani, un decennio dopo l’omicidio di suo figlio in piazza Alimonda, sia ancora in giro per l’Italia a mostrare il filmato dell’agonia di Carlo. Oppure Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto dopo essere desaparecido per sei giorni tra un carcere e un repartino penitenziario di un ospedale romano, si senta chiedere da un noto anchorman dell’ammiraglia Mediaset: «Ma com’era suo fratello da bambino?». Bisogna fare pena se non si riesce a ribaltare i ruoli – come è capitato a Carlo come è stato tentato con Federico. E alla fine faranno pena tutti, aggressori e aggrediti perché resta potente la retorica pasoliniana dei figli del popolo. Tutto il dolore possibile va in scena, anche il sangue buca lo schermo, purché si eviti un ragionamento pubblico su che tipo d’uomo scelga di fare il poliziotto o il carabiniere al tempo del nuovo modello di difesa e della tolleranza zero. E di quale tipo di agente riesca a far carriera operando in quello che ormai appare come il fronte interno della guerra globale. Il Viminale e Viale Romania, quartier generali di ps e carabinieri, preferiscono distrarre l’opinione pubblica fornendo tutto il know how all’industria della fiction e perfino la pletora di sindacati di polizia, con marginali eccezioni, si sottrae al confronto pubblico sulla “malapolizia”, ovvero sul moltiplicarsi di episodi di devianza da parte di cittadini in divisa e sulla relazione che questa devianza ha con i processi di rimilitarizzazione, con il modello di reclutamento e formazione in auge. E tutti si rifiutano di accettare perfino blande misure – come un codice alfanumerico sul casco di chi agisca travisato in ordine pubblico – che garantiscano i cittadini con la divisa o senza. Anzi, una delle sigle più importanti, ha inviato propri osservatori in Val Susa «per monitorare il comportamento dei manifestanti» e ha istituito una «help line telefonica» per i colleghi che occupano militarmente la valle a cui si promette «assistenza a 360 gradi gratis, anche legale se sarà necessario».
Da sempre gli unici posti al mondo in cui la gente si massacra cadendo dalle scale o si ammazza sbattendo la testa sul pavimento sembrano essere i commissariati o luoghi assimilabili. Da troppo tempo l’Italia è un «Paese di comitati», unici strumenti per la memoria collettiva, come non si stanca di ripetere Manlio Milani, la cui moglie fu uccisa nella strage di Piazza della Loggia del ’74. Lo scarto di questo libro dalla corposa bibliografia, che pure lo ha generato, sta nella capacità di far parlare le carte, di non fare leva sulla compassione per comprendere i fatti in questione. Sta nella scelta di far parlare i fatti fino a scoprire che la malapolizia è una categoria necessaria per una critica del neoliberismo. E’ proprio dentro le aree di esclusione sociale, indotte dai processi di precarizzazione delle vite e privatizzazione dei servizi, che mutano anche le politiche di controllo: questi cessa di essere uno strumento per la ricostruzione dell’integrazione sociale e diviene funzionale alla costituzione di recinti urbani, alla costruzione dello stigma per soggetti, etnie e classi “pericolose” perché marginali e subalterne. E’ così che funziona la fabbrica della paura. E, in questo senso, la legge Reale, la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi non sono più violente del pacchetto Treu o della legge 30.
Questo libro ci insegna a leggere che ogni volta che siamo di fronte a un misterioso e violento controllo di polizia bisogna iniziare col domandarsi chi controlla la polizia. «Quello che vorrei – ha spiegato Fabio Anselmo, legale degli Aldrovandi all’indomani del giudizio d’appello – è che questo caso serva per spazzare via il pregiudizio deleterio della presunzione di fidefacenza degli imputati in divisa e dei loro colleghi che indagano. Gli imputati in divisa andrebbero trattati come imputati normali e le indagini su di loro affidate a terzi. Ma questo non accade mai».

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