In Italia esistono tre grandi gruppi proprietari di giornali. Uno è quello che fa capo all’ex premier Berlusconi, alla cui famiglia fa riferimento un impero che va dal Giornale a case editrici, televisioni e riviste. Nella stessa area politica gravita Libero, di proprietà della società Angelucci, a capo di un impero di cliniche private. L’altro colosso della carta stampata è il gruppo Rcs mediagroup, un cartello rappresentativo del salotto della finanza italiana, che detiene la proprietà del Corriere della Sera, oltre che di libri, periodici, radio, televisioni digitali e satellitarie, nonché operatore di raccolta pubblicitaria. Nel patto di sindacato che lega tra loro i maggiori azionisti del gruppo figurano Mediobanca, Giuseppe Rotelli (l’esponente della più grande azienda ospedaliera San Donato, la maggiore in Italia), la famiglia Pesenti, la famiglia Della Valle, la famiglia Ligresti, Marco Tronchetti Provera, il gruppo Benetton, Intesa Sanpaolo, Assicurazioni generali, Banco popolare.
E tra i giganti mediatici non può mancare il gruppo editoriale l’Espresso dell’ingegnere Carlo De Benedetti, cui appartiene Repubblica, additato dall’opinione corrente come il vero giornale ispiratore del Pd. Alle spalle si collocano la Stampa, la testata controllata da Fiat, e il Sole 24 Ore, la corazzata di casa Confindustria. E per completare il giro citiamo anche il Messaggero di proprietà della famiglia Caltagirone.
E’ solo un affresco sommario, ma tanto basta a capire che nessuno tra i gruppi proprietari nominati può essere definito un editore puro. Tutti i soggetti che controllano la proprietà dei principali giornali italiani sono, direttamente o indirettamente, riconducibili a gruppi economici, aziende, banche e società finanziarie che si muovono nell’orbita dei propri interessi. Sarebbe tutt’altro che difficile ricostruire il mosaico del potere che conta – quello che abita i consigli d’amministrazione e i salotti dell’economia – dalla mappa delle proprietà dei giornali. Il conflitto d’interessi – vale a dire l’intreccio tra affari e politica – non si esaurisce affatto nella galassia dei media berlusconiani, su cui l’attenzione si è concentrata nell’ultimo quindicennio. La commistione tra gli interessi dei gruppi economici dominanti e la linea editoriale-politica dei giornali da essi controllati è sotto gli occhi di tutti. In uno scenario simile il principio della libera concorrenza – evocato dalla vulgata ostile ai finanziamenti pubblici all’editoria – ha il sapore di una favola. Quale libero mercato si potrebbe instaurare in un regime di aperta sproporzione di forze tra giornali che possono contare su potentati economici e altri che invece no? Come può esserci una distribuzione equa delle possibilità di accaparrarsi i lettori se solo alcuni giornali hanno accesso esclusivo alle concessioni di pubblicità? Si può definire libero mercato un gioco truccato in cui un contendente, a differenza dell’altro, ha le mani legate dietro alla schiena?
Non si può dire che il vecchio Marx non avesse colto nel segno quando nell’Ideologia tedesca – l’opera più ferocemente materialistica – scriveva che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». La classe che dispone dei «mezzi della produzione materiale» dispone anche dei «mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale». Le idee dei poteri forti – continuando a parafrasare Marx – non sono altro che la versione teorica dei «rapporti materiali dominanti», vale a dire di quei rapporti sociali che fanno di una classe la classe dominante.
La questione del chi possiede i mezzi di comunicazione di massa è legato al problema del come si fa informazione (ma forse è più esatto dire globalmente comunicazione) e degli effetti che determina nello spazio pubblico delle opinioni. Il potere di condizionamento dei media non si può definire con formule semplicistiche. Gli studi sulle comunicazioni di massa hanno abbandonato da tempo la teoria ipodermica o bullett theory, affermatasi a cavallo tra le due guerre mondiali e che supponeva che l’azione dei mass media consistesse «in una sorta di iniezione di idee e comportamenti su un pubblico di massa sostanzialmente passivo» (Ugo Volli, Il nuovo libro della comunicazione, Laterza). Sembra più verosimile che l’effetto delle comunicazioni non sia quelo di influenzare direttamente il comportamento. Piuttosto esse tendono a modificare la maniera in cui il destinatario struttura «la propria immagine dell’ambiente», scriveva uno studioso americano D. Roberts nel 1972. Sono i giornali e le televisioni che scelgono i temi da mettere all’ordine del giorno (agenda setting), di conseguenza il pubblico dà attenzione o trascura, minimizza o enfatizza «elementi specifici degli scenari pubblici». Può essere, per fare un esempio, che i giornali non riescano a convincere i lettori l’articolo 18 vada abolito. Ma stanno convincendo l’opinione pubblica che è il tema centrale di cui discutere. Dov’è la neutralità?
* Liberazione 22 dicembre 2011
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ipanema66
E il sostegno dato a Prodi durante il suo mandato? Il manifesto fu all’epoca la copertura a sinistra di quell’infame processo di privatizzazioni che ora sta mostrando tutta la sua ferocia sociale .Molti articoli apparsi allora ,e in parte anche recentemente,mostravano il segno inequivocabile della teoria del “meno peggio”(da che?) . Il capitale come sempre ringrazia a posteriori !