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Conferenza di Bahrain, la normalizzazione araba rispetto all’occupazione Israeliana

La conferenza di Manama in Bahrein, tenutasi il 25 e il 26 del mese scorso, ha avuto esiti meno definiti rispetto alle aspettative; sia rispetto a quelle degli organizzatori USA, Israele e paesi di Golfo e Arabia Saudita, sia rispetto ai “contestatori”, ovvero Palestina, Iran, Siria, libano, Iraq, Algeria e tanti altri.

Hanno partecipato 39 paesi rispetto agli 82 paesi della conferenza di Varsavia (rispetto ai 191 paesi membri dell’ONU). E abbiamo notato un risultato certo che accomuna sia conferenza di Varsavia che la conferenza di Manama: l’accoglienza, la normalizzazione e l’approfondimento di rapporti di alcuni paesi del Golfo con Israele, benché questo fosse scontato per Israele, il quale non vuole continuare ad essere “il nemico dei paesi arabi”, approfittando del fatto che l’Iran oggi giorno è vista come il nemico dei paesi del Golfo (senza comunque prendere in considerazione la causa palestinese).

Prima dell’evento si inneggiava alla sua riuscita e contemporaneamente se ne temevano i risultati, indipendentemente dalle parti interessate. Si può dire che sia stata, come dice un proverbio arabo, un cammello che ha partorito un topo.

Inoltre, dalle parole conclusive di Kouchner stesso e vari personaggi importanti, si nota che le cose non devono essere andate come desideravano, a partire dalle aspre parole rivolte alla non partecipazione della Palestina. Kouchner ha affermato che la conferenza avrebbe avuto principalmente degli scopi economici, aggiungendo che l’ambito politico sarebbe stato affrontato successivamente. Proprio per questo motivo, sia lui che il ministro degli esteri del Bahrein hanno attaccato i palestinesi, fino al punto di dire che non gli erano davvero a cuore gli interessi del loro stesso popolo; il che indica quanto la mancanza di una delegazione palestinese fosse sentita e abbia avuto un grande peso, tanto che alcune delle delegazioni presenti si sono espresse in sua difesa.

Alla fine dei conti, è difficile dire quale sia stato il vero esito, tuttavia noi siamo dell’opinione che la conferenza sia più fallita che riuscita. Tuttavia si teme che gli architetti del progetto si rifiutino di accettare la realtà dei fatti. Gli USA infatti, dopo la conferenza, hanno dichiarato di voler continuare a sanzionare la Palestina per costringerla ad approvare il progetto.

In totale, le delegazioni rappresentevano 39 paesi, davanti ai quali era stato allestito un metaforico banchetto da cui ognuno avrebbe in teoria potuto trarre profitto (a partire dai 50 miliardi elargiti per il progetto di sviluppo economico, la presenza di tre grandi giacimenti di gas distribuiti sulla costa del mediterraneo e il progetto di costruzione di canali dal Mar Morto al Mar Rosso).

Tuttavia una così scarsa presenza rivela che in molti non hanno voluto partecipare (e approfittarne) a causa del conflitto, esistente nella coscienza comune, nonostante degli Stati Uniti tentino di negarlo.

Infatti esiste una priorità geopolitica rispetto a quella economica, rispettando il diritto internazionale in tale tema e i diritti legittimi del popolo palestinese. Questo lo notano non solo i palestinesi, ma anche gli altri paesi che non hanno partecipato e persino una gran parte di quelli che hanno partecipato.

Scendendo nello specifico, si può motivare la nostra opinione esaminando gli obiettivi dei partecipanti di maggior peso nella conferenza.

L’amministrazione americana guidata da Kouchner, Jason Greenblatt, appoggiata dal governo Trump, è il principale architetto del progetto. Questo progetto doveva scavalcare l’argomento politico utilizzando due argomenti principali, ovvero la sicurezza di Israele e la prosperità economica della Palestina, tramite i quali avrebbero ottenuto un prestito di 50 miliardi di dollari, i quali sarebbero dovuti essere suddivisi in micro-progetti di varia natura (si contano circa 179 proposte o progetti).

I paesi del Golfo e l’Arabia Saudita sono stati quelli che hanno portato il peso maggiore della conferenza, essendo i paesi ospitanti, oltre al fatto che sono stati fortemente criticati dai non partecipanti, tra cui la Palestina, che li ha tacciati di essere incoerenti e di aver mentito su tutta la linea. Questi paesi si erano affermati come portatori della proposta araba, ma sposando la proposta americana l’hanno disattesa; d’altra parte hanno tradito la volontà palestinese, partecipando alla conferenza nonostante le proteste; infine hanno ricevuto critiche anche per aver dato il via alla normalizzazione dei rapporti con Israele senza che questo abbia prima deciso di restituire i territori occupati, cosa che non è stata affatto gradita dal resto del mondo arabo.

Il loro ruolo doveva essere di finanziare il progetto, aspettandosi in cambio l’appoggio di USA, Israele e la NATO araba contro l’Iran. A questo fine hanno dovuto approfondire la normalizzazione dei rapporti con questi paesi (da qui l’insoddisfazione generale). Israele potrebbe contribuire alla lotta all’Iran, tuttavia a patto di sfruttare al massimo questi rapporti e alleanze, in particolare con il mondo arabo. Di conseguenza i paesi del Golfo si dovrebbero piegare alla sua volontà, oltre che a quella degli Stati Uniti, il che si traduce in uno sfruttamento delle loro risorse economiche e della loro posizione nel mondo arabo.

Dal canto loro, gli USA non sono più certi di partecipare a una potenziale guerra senza avere la sicurezza di un esito positivo, benché i paesi del golfo e l’Arabia Saudita li spingano in questa direzione. Si dice che gli Stati Uniti non siano in realtà disposti a farlo senza un tornaconto certo.

Alla terza parte interessata – ovvero Egitto, Giordania e Libano – spettava il compito di assorbire e naturalizzare i profughi palestinesi sul loro territorio (oltre a quelli che potrebbero essere cacciati da Israele), con un compenso pari a 22 miliardi di dollari (ovvero il 45% dei 50 miliardi totali, stanziati dai paesi del Golfo).

Tuttavia erano poche le figure presenti a rappresentare la Giordania e nessuna a rappresentare il Libano; chi si è presentato, tra l’altro, ha contestato la conferenza.

Benché il loro ruolo fosse determinante alla riuscita del progetto, le loro responsabilità sarebbero state troppo grandi, pertanto non erano affatto contenti dell’evento e delle critiche che avrebbero ricevuto se lo avessero appoggiato. Infatti, l’obiettivo di assorbire i profughi avrebbe conseguenze particolarmente disastrose soprattutto in Giordania, dove il numero di profughi supererebbe quello dei residenti. Il Libano è della stessa opinione, essendo esposto all’identico rischio e avendo boicottato l’evento fin da subito, perché visto come un progetto israelo-americano.

Per quanto riguarda l’Egitto, anche lì il progetto è stato rifiutato, nonostante la presenza di profughi sia minore rispetto agli altri due paesi, in quanto la situazione interna al paese non è stabile; azioni a favore della normalizzazione dei rapporti con Israele creerebbero maggiori contestazioni all’interno del popolo egiziano, considerato anche lo stato di guerra.

L’unico paese soddisfatto di questa conferenza è perciò Israele, paese che non era stato invitato a partecipare con l’intento di non “politicizzare” troppo l’evento. Ciononostante erano presenti figure quali uomini di affari e ex militari.

Il principale successo israeliano sta nell’aver reso normali e naturali i rapporti con i Paesi del Golfo davanti all’opinione pubblica internazionale e araba; in più, avendo autorità sui territori da loro occupati (soprattutto nella zona del Mar Morto), possono trarne enormi vantaggi economici, a partire da potenziali risorse idriche e futuri insediamenti.

Basandosi su ciò che viene detto dei media, la normalizzazione è già avvenuta. Inoltre Israele si è presentata all’evento con Gerusalemme come capitale (piuttosto che Tel Aviv), tanto che negli stessi giorni della conferenza vi si è tenuto un incontro molto importante (cui hanno partecipato il ministro degli esteri americano e il responsabile della difesa nazionale russa, assieme a Netanhyau) in merito alla questione Iraniana, l’annessione del Golan, i tagli di fondi ai palestinesi e il piano di annettere la Cisgiordania. Cose che non sono state contestate da nessuna delegazione, come a indicare che siano di fatto accettate e superate, pertanto è tempo di passare oltre ignorando i loro continui crimini.

I palestinesi hanno da subito contestato la conferenza in modo univoco, e con essa anche il progetto del secolo. Il loro è stato un rifiuto corale che può essere interpretato solo come positivo, alla luce delle possibili conseguenze della riuscita del progetto. La Palestina non si è piegata, nonostante le dichiarazioni che riguardano sanzioni da parte degli USA (che potrebbero anche obbligare i paesi alleati a fare altrettanto), le quali potrebbero mettere in serie difficoltà economiche il paese, ciononostante non intendono vendere né la propria libertà né i propri diritti.

In più i palestinesi dentro e fuori la Palestina, assieme a tanti popoli arabi, dal Marocco fino al libano, dall’Iraq, passando per la Giordania, il Bahrain stesso, il Kuwait, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, da tre giorni proseguono la protesta sotto la loro bandiera e si pensa anche che continui nei prossimi giorni.

Migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro il lancio del piano di pace Usa: da Nablus a Ramallah a Hebron e Betlemme, con scioperi generali, manifestazioni, scontri con l’esercito israeliano e attività di varia natura.

Benché la conferenza del Bahrain sia stata intitolata con lo slogan “pace per la prosperità”, essa mira a liquidare la questione palestinese e a cancellare i diritti nazionali del popolo; in particolare il diritto di tornare nelle case da cui sono stati espulsi dal 1948, e il diritto all’autodeterminazione e alla creazione di uno stato palestinese indipendente con piena sovranità e con Gerusalemme come sua capitale.

Workshop Bahrain è stata l’ombrello della normalizzazione araba rispetto all’occupazione, e i protagonisti affermano ora di voler lavorare con tutti mezzi per non far passere l’accordo di Trump e le sua realizzazione.

Il popolo palestinese, ha detto con sincerità e chiarezza che la sua terra e i suoi diritti non sono in vendita, e continuerà nella lotta per rovesciare l’accordo Trump e la conferenza di Bahrain. L’obiettivo sarà la liberazione nazionale e la lotta non si fermerà finche non sarà scomparsa l’occupazione della sua terra e Gerusalemme, la capitale dello Stato Palestinese, sottolineando che la politica fuorviante e ingannevole avanzata dagli Stati Uniti e alcune capitali arabe – separando la soluzione politica dalla soluzione economica – è solo un gioco chiaro e palese, destinato a distogliere l’attenzione da un’occupazione che continua la sua aggressione contro il popolo palestinese e la sua terra.

La Palestina non si arrenderà a eventuali progetti o decisioni o piani che non rispondono ai pieni diritti nazionali al ritorno all’autodeterminazione, l’indipendenza e la libertà. Non sarà intimidita da Washington e Tel Aviv e dalle loro minacce e non saranno tentati da decine di miliardi. La loro patria non è in vendita, i loro diritti e la dignità nazionale non sono in vendita.

Tuttavia è necessaria una risposta palestinese in aggiunta al “No”, che altrimenti resta un no insostanziale. Un’alternativa completa politica, unificata, popolare, propagandistica, di diritto internazionale, nei media, a livello economico e di resistenza, è necessaria per essere in grado di contrastare i disegni ostili e progredire sul metodo per raggiungere obiettivi e diritti palestinesi. L’accordo non passerà senza una copertura palestinese e prima o poi crollerà.

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