Come collettivo che cerca di fare inchiesta e controinformazione sul mondo del lavoro – ma anche connessione fra le varie vertenze dei lavoratori, perché si isoli l’elemento politico che ci accomuna e si si diffonda coscienza di classe, senza la quale non si vince – stiamo seguendo il dibattito di queste settimane per “riformare” il mercato del lavoro. Stiamo preparando un documento più completo sul tema, nel frattempo però vi segnaliamo una serie di articoli dove i vari aspetti del problema sono ben analizzati, perché dobbiamo da subito renderci conto della portata di quest’attacco e della gravità della situazione.
Infatti, mentre le varie manovre finanziarie toccano soprattutto le tasche dei lavoratori, con peggioramento delle condizioni di vita, del potere di acquisto (si pensi solo al costo dei carburanti, all’aumento della pressione fiscale e delle bollette, alla ripresa dell’inflazione mentre i salari sono bloccati da anni etc), questa “riforma” del mercato del lavoro, se portata in fondo, segna uno scarto decisivo rispetto al passato anche recente. Uno scarto che non ha più solo a che fare con una dimensione “economica” di impoverimento crescente, ma investe tutti gli aspetti della vita, delle relazioni sociali, di ciò che è possibile o impossibile fare e persino pensare.
Se si toccano le forme contrattuali, se si favoriscono i “licenziamenti”, si abolisce l’articolo 18, si smantellano i sindacati, si toccano gli ammortizzatori sociali, si allunga l’età lavorativa, cambia tutto il sistema di relazioni industriali, tutto il sistema di diritti, tutta la percezione che il lavoratore ha di sé e degli altri – sia dei suoi compagni che dei suoi padroni. Si prospetta così un sistema “neocorporativo”, in cui allo scontro – per quanto celato, per quanto mediato – fra capitale e lavoro, si mette una pesante sordina. Imponendo modalità di controllo feroci e contemporaneamente un consenso di massa coagulato intorno alla sua ideologia (la produttività, la carriera, il “siamo tutti sulla stessa barca”), il capitale riesce ormai a rendere il lavoro compatibile al massimo. Di questa nuova fase, Marchionne con il suo Piano, con le sue “uscite”, con il lancio della Panda a Pomigliano, ci ha fornito una prima, durissima e scintillante, raffigurazione.
Insomma, la borghesia, o meglio: la sua frazione più “avanzata”, sta mettendo mano ad un nodo centrale, a partire dal quale si diramano conseguenze infinite sulla strutturazione dell’intera società. Infatti, il capitale – bisogna ricordarlo sempre – non è una “cosa”, non è tanto o soltanto una massa di denaro, quanto innanzitutto “un rapporto sociale fra persone” (Marx), un processo in continuo movimento. La forza del suo dominio è data dalla sua capacità di rendere sempre più veloce la sua circolazione, di imporsi sul lavoro, di rendere questo suo antagonista perenne sempre più fragile e manovrabile. Da parte nostra, ci limitiamo qui solo a far notare due cose, che andrebbero ripetute ossessivamente:
1. “Riforma” delle pensioni e “licenziamenti facili” sono strettamente legati, sono mosse complementari, nonostante siano state presentate come aspetti separati – d’altronde è questo il metodo che sta seguendo il Governo: far passare un quadro di riforma complessivo ogni volta come singolo provvedimento che andrebbe a correggere una stortura di qualche tipo (stortura che viene mediaticamente presentata come “anomalia tutta italiana”, “buco nero” del sistema etc)… L’idea di fondo del Governo è che mentre si allunga l’età lavorativa, mossa necessaria per far cassa nell’immediato, eliminando il costo sociale rappresentato dal pensionato e facendo coincidere così l’intero ciclo di vita con il ciclo del lavoro, si debba intervenire per scaricare i lavoratori che raggiunta una certa età non sono più produttivi. Se infatti bisogna lavorare fino ai 66, ai 70 anni, quale imprenditore vuole tenersi sul groppone un individuo restio agli “aggiornamenti”, stanco e sfiduciato?
Considerato che si sta anche parlando (Fornero in primis) di ancorare il salario non più all’anzianità ma al ciclo di vita (dunque alla salute, all’energia del lavoratore, di modo che il picco della retribuzione si abbia quando il lavoratore è giovane e forte per poi farlo rapidamente decrescere), abbiamo di fronte un incubo non solo “economico”, ma sociale e morale: la scomposizione dei lavoratori secondo una linea generazionale, con i giovani precari che mirano nella fabbrica o nell’azienda a prendere il posto dei padri troppo tutelati, mentre questi padri saranno costretti dopo trent’anni di fatica a lavori umilissimi per totalizzare gli anni contributivi…
2. Quando si parla di “crescita” si sottintende sempre “crescita dello sfruttamento”. Dobbiamo imparare a leggere dietro le parole e le chiacchiere dei politici, dei giornalisti o dei tecnici interessati: in una situazione di crisi di questa portata, per far ripartire il PIL bisogna far ripartire gli investimenti in attività produttive – le uniche che producano ricchezza (quella ricchezza che nella Borsa e nelle transazioni finanziarie si limita a circolare, è cioè “fittizia”, direbbe Marx, pur agendo a sua volta continuamente sulla cosiddetta “economia reale”, come si è visto con l’ultima crisi del 2007). Ora, gli investimenti ripartono solo se sono profittevoli: nessun capitalista investirebbe mai in uno spazio geografico ed in un contesto sociale che non gli permette di tirare fuori il massimo guadagno. Ed il profitto è un altro modo per chiamare il plusvalore prodotto dal lavoratore, il quale perciò deve essere fatto lavorare di più in termini di tempo (estensivamente) e di più in termini di produttività, con ritmi più veloci (cioè intensivamente). Da questo punto di vista in Italia, rispetto al resto dell’Europa e del mondo, a causa di un’eredità delle lotte operaie e di una staticità complessiva della società, ci sono ancora troppe rigidità, ancora troppi diritti. Per poter “crescere” bisogna quindi far crescere la possibilità e la effettualità dello sfruttamento dei lavoratori, e bisogna quindi eliminare ogni fattore di resistenza (come i sindacati) e tenere compressi i salari. Bisogna poi liberare anche capitali, che devono potersi muovere e non restare “immobilizzati”: ecco spiegata l’enfasi sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni, sui fondi pensione integrativi … Anche il risparmio del cittadino deve essere messo in circolazione (evitando ad esempio che venga bloccato nell’acquisto di una casa, forma di investimento per eccellenza dell’italiano medio).
Non diciamo nulla di nuovo: è questa strategia che è stata duramente applicata negli anni passati negli altri paesi europei, come alla Spagna all’inizio del Duemila o come alla Germania, e che ha comportato il “miracolo” – un miracolo tutto per i padroni, visto che i lavoratori non ne hanno tratto alcun giovamento… In Spagna infatti, passata l’euforia, la disoccupazione è altissima, in Germania i salari sono bloccati da più di dieci anni (in realtà si tratta di una diminuzione del potere d’acquisto, visto che nel frattempo l’inflazione cresceva; anche se nella cantieristica la riduzione è stata anche nominale), e la posizione complessivamente “forte” del paese sullo scacchiere internazionale, che pure gli permette di assorbire quote non trascurabili di ricchezza mondiale, non impedisce che fra i proletari si diffonda la miseria più nera.
Ora la sfida della borghesia italiana è: riusciremo a fare queste stesse riforme senza che si produca un significativo movimento di resistenza e si delinei una qualche politica alternativa? È compito di ciascuno di noi dimostrare che non ce la faranno: ma per poter mettere in piedi questa resistenza dobbiamo innanzitutto sapere cosa e quanto ne va del nostro futuro e diffondere ovunque questa percezione. Questo post, e queste poche righe, vogliono essere proprio un contributo in tal senso…
– Partiamo dunque dallo stato dell’arte, ben sintetizzato da questo titolo di Repubblica: Articolo 18, il governo ci riprova. Monti: “Veti non ci bloccheranno”. Il premier ha infatti detto, svelando così il vero senso del proprio mandato – cioè quello di essere esecutore degli ordini della borghesia: “siamo stati chiamati per fare queste cose… Dobbiamo farle anche senza l`accordo di tutti. Questo è il nostro compito altrimenti non ci avrebbero chiamati”. La strategia del governo è quella di sentire singolarmente le parti in via consultiva e poi prendere autonomamente decisioni irrevocabili; tanto non c’è bisogno di negoziati: “è il medesimo metodo che ha portato nell’arco di pochi giorni a una riforma strutturale delle pensioni che i sindacati, e la loro base, hanno finito per subire, praticamente senza reazione, se si esclude uno sciopero di mezza giornata: non era mai successo, dal 1967 in poi, che le confederazioni venissero del tutto tagliate fuori dalla definizione di una legge sulla previdenza”. L’idea di fondo è quella di Pietro Ichino, che ieri ha incontrato la Fornero: per neoassunti, disoccupati e lavoratori in “nuove aggregazioni” (termine non a caso fumoso) l’articolo 18 sarà carta straccia: licenziamento individuale e per motivi economici, tecnici o organizzativi (anche qui la fumosità dei limiti va a tutto vantaggio dei padroni), in cambio una poco chiara indennità economica decrescente nel tempo…
– Qui invece un dossier sugli ammortizzatori sociali. Sebbene sia evidentemente di parte, celebrando il cambiamento del sistema, reputato come al solito vecchio ed inadeguato, è utile per sintetizzare le modifiche possibili:
1) Sulla Cig (cassa integrazione) ordinaria e straordinaria. La proposta è farla diventare unica; i vantaggi che ci raccontano sono che ne potranno usufruirne tutti indistintamente (mentre prima la straordinaria era solo per le imprese con più di 15 dipendenti). D’altra parte la fregatura è che la cig ordinaria era pagata solo dalle imprese mentre la nuova cig sarà pagata da imprese e dipendenti come succedeva per la cig straordinaria.
2) Cig in deroga. La proposta è di abolirla; i vantaggi che ci raccontano: non graverà più sulla collettività. Infatti entrava in gioco dopo le altre due e finiva “per gravare interamente sulle spalle dei contribuenti”, visto che era pagata con fondi pubblici. La fregatura: visto che è “il sintomo dell’impotenza del sistema economico a riconvertirsi offrendo alternative occupazionali ai dipendenti delle aziende in crisi”, se si cura solo il sintomo il malato muore comunque.
3) Mobilità. La proposta è di ridurla dal massimo attuale di 4 anni a 3 anni. Su questo punto non riescono a raccontarci quale sia il vantaggio, mentre la fregatura è evidente: si resta a piedi.
4) Indennità. La proposta è di estenderne la durata a 2 o 3 anni aumentandone (non si sa di quanto) l’entità. I vantaggi che ci raccontano: mentre oggi dura 12 mesi (over 50) o 8 mesi e vale tra il 60% (primi 6 mesi) e il 40% (dal 9° al 12° mese) della retribuzione con tetto massimo iniziale di 900€, nel futuro sarà più bella e permetterà di spendere e così contribuire ad alzare il livello dei consumi. La fregatura: non prevede nessun legame di lavoro con l’impresa licenziataria e sarà sempre una miseria.
– Intanto questo è il contesto reale in cui si sviluppano questi dibattiti, le cui conseguenze sono destinate a pesare da subito su centinaia di migliaia di lavoratori. Ecco un breve articolo riepilogativo dei tavoli aperti al Ministero dello Sviluppo economico: Il 2012 si presenta: 40mila posti a rischio.
– Questo studio della CGIL riassume invece molto bene le tipologie di contratto attualmente vigenti e soprattutto le loro applicazioni. Lavoro: 46 forme contrattuali esistenti, portarle a 5. Studio dipartimento mercato lavoro. Il problema semmai è nella conseguenza politica che ne trae la CGIL, che vorrebbe contrattare le briciole sul “contratto prevalente” che però, in questa veste ancora molto fumosa sembra essere né più né meno che il vecchio contratto di inserimento (con il piccolo dettaglio che però nel contesto attuale servirebbe a dismettere ancora di più il tempo indeterminato). In ogni caso il Governo Monti punta, con incontri separati, a diminuire le possibilità di manovra ed i margini di contrattazione per la CGIL. Per il sindacato concertativo, come è già avvenuto per la FIOM sotto il ricatto Marchionne, si pone ormai sempre più la domanda: “da che parte volete stare?”.
– Infine un utile articolo dalla rivista Senza Soste: Danimarca e flexicurity: quello che Ichino e altri non ci raccontano. Giusto per capire alcune fandonie che ci stanno raccontando, soprattutto a sinistra, sulla tanto decantata flexsecurity danese, che dovrebbe riuscire nel miracolo di conciliare crescita e ricchezza dei capitalisti con rispetto dei lavoratori.
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