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Tav: la speculazione economica e politica del governo Monti

Come Csa Vittoria crediamo sia necessario continuare la riflessione e la campagna di controinformazione sulle lotte in corso mettendo a disposizione alcuni materiali.

La presa di posizione del Governo Monti di questi giorni sulla Tav in val di Susa era più che mai scontata: l’opera serve per restare ancorati al treno dell’ Europa.
Ma di quale Europa si parla?
In realtà in questi mesi con questa scusa la compagine governativa fatta da tecnici ha prodotto una serie di interventi di macelleria sociale senza precedenti, ma in perfetta continuità con i governi di vari colori e coalizioni che li hanno preceduti.
In tal senso quindi va vista la scelta di continuità, anche per quanto relativo alla Tav in val di Susa, incuranti dell’opera di distruzione di un territorio.

Per comprendere in tutte le sue caratteristiche queste scelte occorre innanzitutto partire da un dato certo: l’attuale governo fatto dai tecnici non è altro che l’espressione di chi lo ha voluto ossia banchieri e industriali.
Ne consegue che le scelte di intervento, in tutti i settori si voglia mettere mano, non può che essere condizionata dalla rappresentanza della classe di cui è espressione.
In particolare, si tratta di una classe padronale che da decenni ormai ha dimesso il proprio impegno industriale nel territorio nazionale puntando su meccanismi di profitti/rendite più immediate ossia su varie forme di speculazione.

L’economia reale, ossia la vera e propria produzione di merci, ha da sempre visto troppi costi e troppa conflittualità (più o meno espressa) in Italia e la scelta di delocalizzare in altre parti del mondo è stata accompagnata da importanti scelte di intervento nel settore finanziario (vero e proprio luogo di speculazione) e dall’inserimento progressivo nei vari comparti di costruzione e gestione della logistica: strade, ferrovie, costruzioni…

È in questo quadro che va inserita la volontà di costruire la Tav Torino Lione, come d’altronde le varie opere come brebemi (bretella autostradale) e tem (tangenziale esterna milanese). Interventi di discutibile utilità e giustificabili solo dal punto di vista dei vantaggi derivanti dai finanziamenti statali senza limiti reali, e quindi facilmente gonfiabili, in ciò confermando la storia di speculazioni che tradizionalmente accompagna la costruzione delle grandi opere in Italia.

Monti , uscendo dai ruoli di facciata, è pienamente consapevole che sono solo le grandi imprese le sole ad avere vantaggi: dalle ferrovie di Moretti che ormai privatizzate puntano ai profitti e competitività europea e non dei servizi agli utenti (lavoratori pendolari in primis), alla fiat che trarrebbe vantaggio dal traffico delle trasporto su gomma (brebemi) nonché dalla propria forza nel settore della effettiva produzione dei treni ad alta velocità, fino alle banche che dalla circolazione di grandi capitali statali godrebbero di notevoli plusvalenze.

Per non parlare dell’immenso patrimonio da riciclare proveniente dalle mafie e che proprio dal contatto dal settore della costruzione e della logistica trova terreno fertile per entrare nell’economia cosiddetta legale.

D’altronde negli ultimi anni i lavoratori delle cooperative hanno smascherato con le lotte la presenza di società di comodo finalizzate allo sfruttamento di manodopera (caporalato e lavoro a chiamata in primis) e di contatto tra capitalismo “legale” e “illegale”.

Va sfatato tra l’altro un’altra importante questione: le grandi opere sono utili all’economia?
Se in passato alcune interventi hanno visto effettivamente un vantaggio questi si sono avuti solo perché accompagnavano una effettiva produzione industriale nazionale.

Ma i tempi sono cambiati e le scelte della borghesia sono direzionate oramai su altri territori con manodopera meno costosa proprio perche il modo di produzione capitalistico lo impone.
Occorre inoltre ricordare le valutazioni di questi ultimi giorni dell’Economist (importantissimo giornale finanziario inglese) che valuta negativamente la Tav.
Il trasporto veloce non serve poiché le merci transiterebbero sul territorio coinvolto senza che esse possa ne essere “consumate” dalla popolazione, ne essere lavorate nelle varie logistiche della zona, ne essere (nel caso di prodotti semilavorati) inseriti nell’industria locale per divenire prodotti finito.
Il risultato è una vera e propria depressione economica del territorio e a questo punto nulla varrebbe l’elemosina del governo monti per l’ospitalità degli operai.
Il risultato sarebbe una zona devastata oltre che dal punto di vista ambientale anche dal punto di vista economico.

Diventa quindi fondamentale per i resistenti della Val di Susa opporsi con forza generalizzando il conflitto. La lotta in atto rappresenta la specificità del territorio ma anche il riflesso della crisi e le speculazioni in corso.
E di questo sono consapevoli anche gli apparati statali e il mondo padronale.

Lo dimostrano anche il ricompattamento dei vari schieramenti parlamentari, politici ed economici infine direzionati al ribadire il ruolo del comando della classe necessario all’attuazione delle varie finalità economiche.
Napolitano in tal senso non può che rifiutarsi di incontrare i rappresentanti della resistenza, e i media (altro che oscurantismo berlusconiano) sono tutti direzionati a giustificare l’opera con assurdità di vario genere in nome dell’europeismo e della condanna della violenza.
Ma di quella messa in campo dalla repressione? Le immagini delle cariche a freddo ? nulla di nuovo sotto il sole. L’obbiettivo di fare vedere un Italia forte passa anche da qui.
E se il risultato sarà la devastazione del territorio e del tessuto sociale non è importante.
Il capitalismo non è finalizzato al benessere diffuso ma alla ricerca di guadagni sempre più immediati per potere economico e politico.

Quindi bene fa chi resiste in valle.
Bene fa chi resiste davanti ai cancelli delle fabbriche e nei luoghi di lavoro.
Bene fa chi lotta per il diritto alla casa, per la scuola pubblica laica e per tutti, per la sanità, per le pensioni, contro un futuro di precarietà e sfruttamento.

UNIRE LE LOTTE, GENERALIZZARE IL CONFLITTO

Il filo rosso è uno solo, un altro mondo è necessario.

Centro Sociale Vittoria
Via Friuli angolo via Muratori 20135 Milano
www.csavittoria.org vittoria@ecn.org


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2- LE RAGIONI DEL NO AL TAV
– estratto dal sito www.notav.info
Siamo contro questa “grande opera” perché:

1 –E’ INUTILE: tutte le previsioni sul numero di passeggeri e il volume del traffico merci dei prossimi anni stimano una diminuzione della domanda. La stessa linea storica esistente è sotto-utilizzata e su di essa è già attiva una linea Tgv che collega da anni Torino con Parigi (passando per Chambery; la variante con scalo a Lione è stata soppressa per mancanza di passeggeri!).

2 – E’ DANNOSA: l’impatto ambientale e sociale dell’opera sarebbe invece incalcolabile. Nessuna risposta è stata mai fornita agli innumerevoli esposti di tecnici e istituti indipendenti sul rischio inquinamento da amianto e uranio (minerali ampiamente presenti nel sottosuolo valsusino). La lunga opera di costruzione prevede inoltre 20 anni di cantiere, scavi e trasporto di tonnellate di smarino (residuato dei lavori di scavo) su e giù per la valle che è una delle più antropizzate e industrializzate di tutto il paese, essendo già attraversata da una ferrovia, due statali e un autostrada.

3 – SPRECO DI DENARO PUBBLICO: la realizzazione di quest’opera comporterebbe un dispendio di denaro pubblico senza precedenti. Miliardi di euro estratti dalle finanze pubbliche per finanziare una vera e propria voragine di spesa difficilmente arginabile, dove nullo è l’investimento di capitali privati e massimo il “guadagno senza rischio” dei contraenti l’opera che si vedono regalati mezzi e capitali senza alcuna contropartita. Il costo di un km di Tav si aggira intorno ai 100 milioni di euro. Quanti letti d’ospedale, quante scuole, quanto stato sociale ci vengono sottratti da questa grande opera ? NO TAV = NO al DEBITO!

4 – FINANZIAMENTO ALLE MAFIE E AI PARTITI: l’architettura finanziaria che presiede alla realizzazione delle cosiddette “grandi opere” si articola in un sistema di appalti e sub-appalti in cui alto è il rischio di infiltrazione mafiosa. Un dispositivo che si rivela però molto utile per il finanziamento (poco trasparente) ai partiti politici che sono tra i principali sostenitori della realizzazione dell’opera.

5 – CHI DECIDE? – nella sua ventennale storia il movimento notav ha sperimentato forme di partecipazione e decisione politica molto avanzate che hanno costituito un esempio inedito di incontro tra soggetti tra loro eterogenei: amministrazioni locali, comitati popolari, collettivi politici e semplici cittadini. Le strategie e le direzioni di marcia sono sempre state decise insieme, in pubbliche assemblee, dove la sintesi del percorso comune non ha mai pregiudicato l’autonomia delle parti. Nella sua pratica quotidiana, il movimento notav ha posto una domanda cruciale per il futuro della democrazia nel nostro paese: a chi spetta decidere, quali processi permettono scelte condivise, chi può legittimamente parlare in nome dell’interesse generale?

Le previsioni di traffico.
Al traforo del Frejus, il traffico merci della ferrovia esistente è sceso nel 2009 a 2,4 milioni di tonnellate (MT). Si tratta di poco più di un decimo del traffico di 20 MT che erano previsti all’orizzonte del 2010, dalla dichiarazione di Modane dei ministri dei trasporti italiano e francese.
L’insieme del traffico merci dei due tunnel autostradali del Frejus e del Monte Bianco è sceso nel 2009 a 18 MT, come nel 1988, cioè 22 anni fa. La punta massima si è avuta tra il 1994 ed il 1998: da allora i due tunnel hanno perso un terzo del traffico. Questo dimostra che non c’è ragione di costruire delle nuove infrastrutture.
Il Trattato italo-francese, firmato a Torino il 29 gennaio 2001, dice al primo articolo che la nuova linea “dovrà entrare in servizio alla data di saturazione delle opere esistenti”, e l’avvocatura di stato francese ha sentenziato nel 2003 che questo significa che se non c’è prospettiva di saturazione, non c’è impegno.
Da allora la saturazione dei valichi italo-francesi, sia ferroviari sia autostradali, non solo non si è avvicinata, ma è addirittura svanita dall’orizzonte, a causa della radicale e duratura inversione di tendenza: eppure il progetto è rimasto.

L’ampia capacità delle infrastrutture esistenti.
La Valle di Susa ospita già la linea ferroviaria internazionale del Frejus il cui binario di salita è stato terminato solo nel 1984 e su cui, da sempre, si susseguono lavori di ampliamento ed ammodernamento, per mantenerla ai massimi livelli di efficienza. Sino al 2000 è stata la seconda ferrovia come volume di traffico con l’estero, poi ha cominciato a calare ed a perdere posizioni. I lavori effettuati tra il 2002 ed il dicembre 2010 l’hanno riportata ai migliori livelli di funzionalità tra i tunnel ferroviari esistenti, ma nella tratta alpina è stata utilizzata negli ultimi tre anni mediamente per meno di un quarto della sua capacità.
L’insieme delle nostre infrastrutture transalpine è utilizzato al 30% della sua capacità, in un quadro in cui anche la domanda globale di trasporto attraverso le Alpi ha cominciato a scendere ovunque. Le situazioni di collasso e di ingolfamento sono tutte nei nodi urbani, ed è lì che bisogna intervenire: la Torino-Lione affronta il problema dei trasporti dal verso sbagliato, dilatando la capienza ai valichi dove essa è sovrabbondante anche negli scenari futuri e sottraendo risorse che sarebbero necessarie a risolvere il congestionamento delle strutture urbane.
Non è vero tra l’altro che le infrastrutture creino un vantaggio in un territorio già ben servito. Le imprese emigrano verso paesi stranieri che hanno strutture per i trasporti decisamente inferiori alle nostre, perché là il costo del lavoro è minore e perché l’ Italia non ha risorse per ridare competitività e per incentivare ricerca ed innovazione. Pertanto i miliardi destinati alla Torino-Lione, che vengono sottratti a questi capitoli di spesa, penalizzano l’Italia.

L’insostenibilità dei costi.
Il totale dei costi a carico dell’Italia per la Torino-Lione sarebbe di almeno 17 miliardi di euro. In più ci sarebbero l’adeguamento dei prezzi, le modifiche di tracciato che hanno comportato oneri aggiuntivi, le eventuali mitigazioni e l’allungamento del periodo di lavori per problemi tecnici. Il solo adeguamento dei prezzi 2004-2009 ha comportato un aumento del 30 % in 5 anni!
Su queste basi non sembra fuori luogo prevedere un raddoppio dei costi di tutta l’opera considerando i precedenti dell’Alta Velocità italiana: le spese della Roma-Firenze sono cresciute di 6,8 volte rispetto ai preventivi, quelle della Firenze-Bologna di 4 volte, quelle per la Milano-Torino di 5,6 volte rispetto al 1991.
Il tunnel di base avrà costi altissimi anche per la sola manutenzione ordinaria. Per questa voce, in cui incidono fortemente le spese di raffreddamento, necessario per far scendere la temperatura a 32°C, i proponenti preventivano 65 milioni di euro all’anno.
Ma questo sarebbe solo l’inizio: il presidente della Commissione Trasporti del Parlamento Europeo, Paolo Costa, in una lettera del 2008 a “La Stampa”, ha scritto che dopo la Torino-Lione bisogna trovare altri 26 miliardi (di primo preventivo) per completare il corridoio italiano sino alla frontiera slovena. Anche qui si tratta di cifre di cui bisogna ipotizzare perlomeno il raddoppio e che,sommate a quelle che sarebbero necessarie per la Torino-Lione, danno l’idea di quale sia l’entità dell’esborso che è nell’interesse di tutti fermare, prima che affondi l’economia italiana.
Inoltre, i fondi necessari per la Torino Lione sono direttamente sottratti ad altri interventi.
Già con i primissimi finanziamenti necessari al tunnel geognostico di Chiomonte si è cominciato a prelevare dai fondi che erano già destinati ad altri capitoli di spesa: in questo caso all’ art. 6 del DL 112/2008, che assegnava risorse alla messa in sicurezza delle scuole, alle opere di risanamento ambientale e all’innovazione tecnologica.
L’economista Marco Ponti, insieme ad altri, ha calcolato che sulla base dei soli preventivi esistenti, la Torino-Lione costerà 1300 euro per ogni famiglia media italiana di quattro persone.
Le critiche ufficiali al progetto.
Le due perizie più autorevoli fatte sulla Torino-Lione sono quella commissionata dal Ministro
dei Trasporti francese a Christian Brossier ed ad altri due esperti del Conseil Général des Ponts et Chaussées, e resa pubblica a maggio 1998. Vi è poi quella del cosiddetto “audit” sui grandi progetti ferroviari, commissionato dal Governo francese al Conseil Général des Ponts et Chaussées, presentata a maggio del 2003: entrambe hanno stroncato decisamente il progetto. In Italia non è mai stata fatta una analoga verifica.
Il rapporto Brossier dice che “occorre attendere l’evoluzione del contesto internazionale e particolarmente in Svizzera ed Austria, prima di intraprendere un nuovo traforo sotto le Alpi” e che “conviene intervenire sulla linea esistente”.

Nell’audit realizzato nel 2003, la stroncatura è ancora più netta. Le proiezioni presentate da LTF vengono giudicate inattendibili. L’audit rileva che “la capacità di trasporto dei nuovi itinerari svizzeri si collocherà tra 40 e 65 MT all’anno, e che saranno in netta concorrenza con gli itinerari francesi”. Sviluppando diverse simulazioni, conclude che nell’orizzonte ventennale del 2023 “al Frejus passerà un traffico nettamente inferiore (!) a quello del recente passato e che la Lione-Torino sarà ininfluente nel rapporto gomma/rotaia ma, al massimo, si limiterà a catturare un traffico che sarebbe transitato non per i tunnel autostradali del Frejus e del Monte Bianco, ma per le ferrovie svizzere”.
Marco Ponti, professore di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano, Marco Boitani, professore di Economia Politica all’Università di Milano e Francesco Ramella, ingegnere di trasporti, tutti e tre importanti articolisti su giornali economici come “Il Sole 24 Ore”, hanno pubblicato nel 2007 un lungo saggio dal titolo “Le ragioni liberali del No alla Torino-Lione”, che sottolinea “la inesistenza di una domanda passeggeri merci tale da giustificare questa linea”.
La favola del corridoio 5.
La favola più citata è quella di un corridoio di traffico esteso tra Lisbona e Kiev. Il cosiddetto Corridoio 5 non è che una linea geografica che ha prolungato artificiosamente, da una parte e dall’altra, il tratto tra Lione e la pianura Padana. Si può definire “corridoio” una direttrice di traffico che è percorsa in modo uniforme per gran parte del suo sviluppo, ed in questo caso merita una infrastrutturazione uniforme; ma se si tratta solo di segmenti, alcuni dei quali insignificanti dal punto di vista del traffico, darle una strutturazione uniforme significa solo un immenso ed ingiustificato spreco.
Il traffico merci che entra in Italia dalla Penisola iberica sceglie l’itinerario costiero, senza “risalire” a Lione, e l’Unione Europea stessa lo ha già scorporato dall’itinerario 5. Ad Ovest, a parte il pochissimo traffico di prossimità con la Slovenia e l’Ungheria, tutto il traffico di questo asse che si sviluppi su tratte di sufficiente lunghezza, e su volumi sufficientemente importanti da render conveniente il treno, ha più convenienza a prendere l’itinerario via mare, dalla costa del Mediterraneo a quella del Mar Nero, che gli è parallelo.
Le rilevazioni dei transiti indicano che non esiste un vero corridoio merci neppure tra Lione e Torino, perché la linea ferroviaria merci francese che dovrebbe immettersi nel nostro tunnel di base proviene da Digione, dove si concentra il traffico proveniente da Nord – Ovest, che è quello maggioritario, mentre quello proveniente dalla Francia del Nord e dalla Gran Bretagna va su Milano attraverso il Sempione, che è il suo asse naturale. Il traffico su strada che attraversa il tunnel autostradale del Frejus è invece per due terzi un traffico di prossimità tra le regioni Piemonte e Lombardia e le omologhe francesi.
Anche il risparmio energetico del tunnel di base è una favola. Nella realtà il progetto e l’esercizio della nuova linea comporterebbe uno spreco di energia nettamente maggiore di qualunque risparmio, anche nelle ipotetiche migliori condizioni. Infatti, un treno della autostrada ferroviaria trasporta un peso utile che è solo il 42% di quello di un treno merci ordinario, di conseguenza il consumo energetico è di oltre due volte a parità di peso netto trasportato. In più, la ricerca condotta da M. Federici ed altri all’Università di Siena, a partire dal 2006 ha dimostrato che “il TAV mostra valori sistematicamente peggiori del trasporto ferroviario classico e la causa è da ricercarsi nella eccessiva infrastrutturazione del TAV e nella eccessiva potenza dei treni. Un TAV emette un 26% di CO2 in più rispetto ad un treno classico e il 270% in più rispetto ad un camion”.

Le grandi opere non incrementano l’occupazione.
Le imprese dei grandi cantieri si impiantano come un paese autonomo in tutto e per tutte le
forniture dipendono da grandi contratti. Ai locali restano pochissimi posti e pochi lavori
marginali. Nel cantiere del San Gottardo a Bodio su 700 persone solo una ventina erano del Canton Ticino, e, sulla testimonianza dei sindaci interessati, le altre ricadute sul territorio sono state inesistenti. Nel Mugello l’unica ricaduta occupazionale è stata quella di un gruppo di donne che si è consorziata per i lavori di pulizia dei locali, delle camere e della cucina.
Non è possibile porre condizioni di assunzione di mano d’opera locale, perchè gli appalti sono europei e le imprese non licenziano operai che si son fatta esperienza ed affidabilità in un posto per assumerne altri che sono da formare e da seguire.

La “torta” della Grande opera si stratifica in parecchi livelli e chi prende l’ultimo può appena

sopravvivere: sopra c’è la società appaltante che è creata su istruzione dei due governi. La società appaltante affida l’opera ad un General Contractor che teoricamente garantisce il rispetto dei prezzi e dei tempi e che, a sua volta, affida l’opera, tutta intera oppure una grande
tratta, ad un consorzio di grandi imprese che garantiscono l’esecuzione dei lavori e la progettazione esecutiva.
A questo punto la tratta viene spezzettata in lotti e per ognuno di esso si formano consorzi ad hoc di imprese di costruzioni, ognuna delle quali è specializzata nel particolare tipo di lavori richiesto in quel lotto: cioè gallerie, viadotti, oppure opere scavi a cielo aperto. Qui, al quarto livello c’è, per la prima volta, qualcuno che lavora effettivamente alla costruzione, ma intanto nei precedenti livelli se ne è andato dal 10 al 15% dei costi ad ogni passaggio senza toccare neppure un sasso. Il quarto livello li tocca, ma con operai specializzati capaci di operare in situazioni e con macchinari che richiedono grande esperienza, e quindi personale proprio assunto precedentemente che si sposta con i cantieri e le macchine..
Ma ovviamente ci sono lavori di più basso livello: il quinto, per cui non occorre essere specialisti, come per i trasporti delle rocce scavate, il cosidetto smarino. Qui le imprese sanno che l’offerta è grande e si rifanno economicamente rispetto ai lavori da cui possono ricavare di meno indicendo subappalti vinti da chi assicura il servizio al minor costo. Oltre un certo punto il minor costo si ottiene solo facendo qualcosa di più di quel che è lecito fare, cioè sovraccaricando quando si riesce, facendo più viaggi andando più veloci, usando camion più vecchi ed autisti precari.
La assoluta incertezza del piano dei finanziamenti si ribalta nella incertezza della continuità dell’occupazione, sia pure già prevista per un periodo limitato.
Le grandi opere che vivono alla giornata, di fronte ad incognite tecniche ed economiche terribili sono soggette a abbandoni, scioglimento dei consorzi, blocco dei lavori per mancati stanziamenti governativi ecc.. In questo quadro rischiano di offrire posti privi di garanzia per quanto riguarda la effettiva durata.

La Torino-Lione è un’opera al buio, anche dal punto di vista dei finanziamenti: l’impegno di contributo dell’Unione Europea è del 2008, ed è vincolato ad un contestuale messa a disposizione dei due Governi degli altri due terzi, circa 1000 milioni di euro da parte dell’Italia e circa 550 milioni da parte della Francia. Ma in due anni dalla decisione comunitaria il Governo italiano ha trovato solo in extremis 12 milioni per iniziare la galleria di Chiomonte: resta scoperto il restante 85% della quota italiana e l’intera quota francese sul contributo europeo. Come possono pensare di reperire i 17 (o 34) miliardi di euro ancora necessari considerando che l’Unione Europea ha impiegato 14 anni, dal vertice di Essen del 1994 al 2008, per dare questo contributo di 670 milioni su un totale di soli 5,3 miliardi per 92 progetti, ed è ben difficile che possa fare ancora qualcosa stante il peggioramento del quadro generale dell’economia?
Quest’opera non ha alle spalle le risorse necessarie a realizzarla, una volta cominciata è destinata a bloccarsi.

Il progetto della tratta italiana della parte comune.
Il progetto preliminare presentato a maggio 2010 consiste in 57,2 km della galleria internazionale a doppia canna, sino all’imbocco nella periferia a valle di Susa, dove verrà installato il grande cantiere che servirà sia la parte di galleria internazionale che la galleria di 21 km che passerà sotto il massiccio dell’Orsiera. All’uscita presso il comune di Chiusa di San Michele è prevista la connessione con la linea storica. Questa connessione è un’opera gigantesca che porta le linee ad interrarsi per chilometri in aree abitate nel tratto tra Avigliana

e Chiusa, ma il cui sviluppo complessivo ed il cui utilizzo per il momento sono solo da immaginare, dal momento che non è stata presentata la parte successiva tra Chiusa ed il nodo
di Torino.
Nel 2003 lo studio per la VIA diceva che i progettisti avevano escluso di passare sotto il Cenischia “per fortissimi rischi idrogeologici, quali l’effetto diga sulla falda superficiale“. Nel tracciato del 2010 invece viene fatta proprio questa scelta, senza neanche discutere il rischio prospettato nel progetto precedente. La sensazione di queste ed altre omissioni è che il progetto sia stato tracciato da una mano politica più che da una mano tecnica.
Che ci siano parti del progetto gravemente lacunose è stato evidenziato anche dal pool di esperti che ha lavorato per la Comunità Montana delle valli di Susa e del Sangone esprimendo

108 pagine di rilievi, sui costi e benefici, sui flussi di traffico, sul progetto, sulla sicurezza delle gallerie, sull’impatto sull’ambiente e sulla salute.

E’ credibile questa Valutazione di Impatto Ambientale?
Anche questa volta, per l’ennesima volta, non è stata una presa in considerazione l’opzione zero, cioè la possibilità di sfruttare le strutture esistenti anzichè costruirne di nuove.
Il progetto non si riaggiorna mai e non fa alcuna verifica del pregresso.
La procedura di VIA è stata snaturata sopprimendo il decreto di compatibilità ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente e del Ministero dei Beni Culturali ed affidando l’istruttoria al Ministero delle Infrastrutture. Si tratta di procedure illegittime che violano le disposizioni di legge nazionali e le direttive comunitarie, perché il CIPE, che ora decide la compatibilità ambientale, è un organo tecnico economico molto allargato che decide a maggioranza e che, in campo ambientale, non ha né prevalenti interessi né prevalenti competenze.

Gli impatti sulla salute.
I cantieri producono inevitabilmente rumori, polveri, disturbo, inquinamento e stravolgimento dell’ambiente.
Lo studio di VIA presentato da LTF calcola un incremento del 10% nell’incidenza di malattie respiratorie e cardiovascolari a causa dei livelli di polveri sottili prodotte dai cantieri. In base alle statistiche attuali questo aumento corrisponde a 20 morti in più all’anno.
Il problema dell’amianto è stato accantonato e minimizzato: si ammette la presenza di amianto solo per i primi 500 metri, nella zona di Mompantero. Ma anche se la sua presenza è particolarmente massiccia in bassa valle, è errato ignorare la sua sporadica presenza anche in alta valle. Basti ricordare che fu a causa della presenza di rocce amiantifere che l’impianto olimpico di bob fu spostato da Sauze d’Oulx a Cesana, e che la presenza di queste rocce sta bloccando e ritardando da anni i lavori della circonvallazione di Claviere.
Le misure di cautela e di smaltimento per l’amianto proposte da LTF mostrano un problema ancora irrisolto. Dire che lo si chiuderà in sacchi per spedirlo in Germania significa non rendersi conto che anche solo 500 metri di tunnel di base corrispondono a 170.000 mc, pari al carico di 17.000 TIR. Il trattamento con l’acqua lega solo momentaneamente la parte più fine delle polveri, ma poi la libera o la deposita con sorprendente facilità, soprattutto nella percolazione alla base dei mucchi: da qui il vento la sposta ovunque.
Anche le mineralizzazioni di uranio (Pechblenda) sono una realtà: il problema era stato rivelato nel 1998 dalle associazioni ambientaliste, ma LTF ed i suoi consulenti lo avevano lungamente negato. Nell’attuale studio di VIA per il tunnel di base non se ne parla nemmeno. Eppure il gruppo dell’Ambin che sarà attraversato dalle gallerie è stato oggetto di fruttuose ricerche da parte francese nel 1980 con la Minatome, e da parte italiana nel 1959 con la Somiren e, nel 1977, con l’Agip Mineraria; e su entrambi i versanti si è ipotizzato un suo sfruttamento.
La particolare pericolosità di questi minerali è che emettono raggi alfa e beta, poco penetranti e quindi poco rilevabili, ma molto più distruttivi quando, con la polvere, arrivano a contatto con la pelle e le mucose .

La mancanza di un vero confronto tecnico locale.
Nonostante le decine di incontri è mancato un autentico confronto tecnico con i rappresentanti del territorio. Non c’è mai stato quel dibattito tra tesi e repliche, fino all’esaurimento degli argomenti, che permette di andare a fondo di una questione. Nella sostanza, i promotori di questo progetto non hanno mai accettato di impegnarsi in un vero confronto pubblico e tecnico e si sono limitati ad enunciare le loro tesi. Questo ha permesso di escludere tutti gli argomenti scottanti, a cominciare dalla valutazione della reale necessità di costruire la linea in presenza di un crollo dei traffici e degli insuccessi di tutte le sperimentazioni.
E’ stato ignorato il vasto movimento di amministratori che ha chiesto la fine dell’Osservatorio e che, nel 2009, aveva coinvolto la metà degli amministratori della Bassa Valle. Tuttora partecipano all’Osservatorio solo due dei comuni effettivamente coinvolti, mentre 24 della Bassa Val di Susa hanno fatto un fronte comune contro.

L’opposizione in Val di Susa
I NO TAV, criticando il progetto, non hanno mai inteso farne una questione localistica ed

hanno espresso questo concetto con lo slogan: “né qui né altrove”. Per questo non è stato possibile circuirli con i giri di valzer che spostavano il tracciato da una parte all’altra.
La forza del Movimento è proprio nella coscienza di battersi per una causa comune: anche per quelli di altri territori che, per la disinformazione dei quotidiani, di televisioni e radio non hanno avuto modo di rendersene conto.
I politici hanno accusato i NO TAV di essere persone che si oppongono all’interesse nazionale. La verità è l’opposto: i NO TAV difendono l’interesse nazionale dagli inganni e dagli sperperi
che si camuffano sotto la copertura delle Grandi Opere.
La valle resiste da oltre 20 anni perché vi è una opposizione consapevole: perché ha esperienza di cosa significhino grandi opere e perché da sempre vive accanto ai trasporti e ne conosce i problemi reali.
Infine perchè si è formata una diffusa conoscenza dei progetti che vengono presentati.
Negli ultimi 10 anni ci sono state una decina di grandi manifestazioni con la partecipazione, ogni volta, di almeno 30.000 persone ed una raccolta di 32.000 firme realizzata in poco più di un mese.
Nell’anno 2010 si può fare il confronto tra le 30.000 persone che a gennaio hanno sfilato a 3 gradi sotto zero, ed i 320 voti presi dal candidato Si Tav alle elezioni regionali dello stesso anno.
Il 26 gennaio 2012 è avvenuta una pesantissima operazione di polizia, conclusasi con 26 arresti e più di 50 perquisizioni, contro decine di militanti del movimento No Tav in tutta Italia.
Un tentativo di isolare, criminalizzare e annientare l’opposizione alla Tav per poter dare avvio ai lavori. E infatti il 28 febbraio cominciano le operazioni di esproprio, che quasi costano la vita a Luca Abbà arrampicatosi su un traliccio per resistere, incalzato dai rocciatori e folgorato dai cavi dell’ alta tensione.
Nei giorni e nelle ore successive si susseguono, in valle, scene degne della peggiore occupazione militare, con pestaggi e rastrellamenti nei bar, mentre i giornali e le televisioni di stato e private si prestano ad una campagna diffamatoria nei confronti di un’intera popolazione, tacendo sulle ragioni della protesta e mettendo in risalto la presunta violenza dei manifestanti.

Tutto questo non ha fermato, e non fermerà, il movimento popolare contro la Tav, come ha dimostrato il corteo di 75000 persone che ha sfilato il 25 febbraio 2012 da Bussoleno a Susa per ribadire il proprio rifiuto a questo progetto inutile e devastante, in solidarietà alle persone arrestate e inquisite e per sancire la legittimità della resistenza contro le aree militarizzate dei cantieri.

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