I poteri dei cittadini
Gaetano Azzariti
Il dibattito sui sistemi elettorali in Italia appare concentrato sulla modellistica e sui calcoli delle convenienze particolari delle singole parti in causa; rischia così di perdere il suo specifico, l’orizzonte di senso e di valore. Bisognerebbe ricordare che i sistemi elettorali non sono tanto un metodo per stabilire chi deve ricoprire cariche pubbliche di vertice, ovvero una tecnica di traduzione dei voti in seggi, ma sono, soprattutto, un mezzo di legittimazione del ceto politico, definendo la relazione concreta tra elettori ed eletti. È questo l’orizzonte che appare oramai appannato, inghiottito dal variopinto panorama di proposte ad alta tecnologia, delicata alchimia e complessa composizione. Sennonché la torsione tecnocratica e di convenienza che domina la discussione politica e la riflessione scientifica sui sistemi elettorali – ma che in realtà tende ad affermarsi, su un piano più generale, come paradigma di legittimazione nelle post-democrazie – alimenta ormai la disaffezione di molti dalla “vita activa”. Si è giunti a corrodere quello spazio politico che, secondo l’insegnamento di Hannah Arendt, si pone alla base dell’agire responsabile, la cui assenza rischia di tradursi in una nichilistica «espropriazione del mondo», che farebbe precipitare in una situazione di generalizzata illibertà la condizione umana e, in particolare, ridurrebbe a mero rituale ogni comportamento elettorale. Mostrare allora ciò che collega i sistemi elettorali alla democrazia, alla rappresentanza politica reale, appare tanto più necessario in un tempo di accresciuta distanza tra il Palazzo e la piazza. Indispensabile se si vogliono evitare i reali rischi di una chiusura della politica nelle logiche deboli dell’auto-rappresentazione di sé, ma anche di una parallela e simmetrica chiusura della società civile entro una logica distruttiva di egoismo solipsistico, che troppo spesso assume ormai il volto collettivo dell’antipolitica nelle diverse forme dell’indifferenza o dello sberleffo, comunque inquietanti o impotenti.
Diventa sempre più urgente interrogarsi su cosa fare per uscire da una situazione di progressivo distacco della società politica dalla società civile. Nello specifico si tratta di valutare le proposte di modifica dei sistemi elettorali.. Anzitutto, dal punto di vista tecnico e formale, si dovrebbe evitare il pericolo della ricaduta nella modellistica elettorale. Non si tratta di inventare un altro mostro, collezionando pezzi di sistemi stranieri. Di Frankestein elettorali abbiamo già verificato l’improprietà. Dovremmo uscire dall’artificiale e tornare all’umano: il che vuol dire, per i sistemi elettorali, riscoprire la semplicità delle regole della rappresentanza. Se non una testa un voto, almeno un corpo di regole univocamente indirizzate a dare voce al demos . Inoltre, dal punto di vista politico e sostanziale, le proposte di modifica elettorale potrebbero essere valutate in base al seguente criterio: quanto esse favoriscono la riespansione di un’effettiva rappresentanza politica o quanto, invece, contribuiscono al permanere della logica di auto-rappresentazione del ceto politico. I due principi guida indicati dovrebbero indirizzare il legislatore, consapevole della gravità della crisi della rappresentanza politica, a fuoriuscire dalla retorica della governabilità, sostituendo a essa la considerazione dei poteri del rappresentato. Si smetta allora di andare alla ricerca di modelli elettorali sempre più distorsivi. In tal modo non solo si allontana sempre più l’elettore dal suo rappresentante, ma non si riesce neppure ad avvicinare il corpo elettorale al Governo, quest’ultimo diventato sempre più espressione di complicità tattiche tra partiti disomogenei e privi di un comune indirizzo politico. In tal modo si sono tradite finanche le promesse formulate da quasi un ventennio per giustificare le distorsioni maggioritarie. A forza di votare per il Parlamento al fine improprio di scegliere il Governo, siamo giunti al commissariamento del governo. Un esecutivo “tecnico” che non è certamente espressione diretta o indiretta del corpo elettorale, bensì puro prodotto delle istituzioni. Scelto dal Capo dello Stato e sostenuto da gran parte dei nominati in Parlamento, senza che vi sia stata alcuna incidenza della rappresentanza popolare. Magari un bene per la salvezza dell’Italia, ma decisamente un Governo “strano” – come ama ripetere in nostro attuale Presidente del consiglio – espressione del fallimento – spero solo momentaneo della politica che opera nel vuoto della rappresentanza. Si tratta di risvegliare la rappresentanza e con essa le forze politiche. Poi, reso più stretto il vincolo con l’elettore, anche la scelta del Governo troverà una sua composizione lineare e di maggiore omogeneità d’indirizzo politico. La scelta dei rappresentanti viene prima di quella del Governo: è questa la regola aurea delle democrazie parlamentari che la debolezza della politica ha fatto spesso dimenticare, non ultima tra le cause che hanno proiettato la politica nel suo instabile e temibile isolamento dalla società. Bisognerebbe dunque proporre una riforma del sistema elettorale in grado di porre al suo centro l’idea di restituire la dignità perduta a quel sovrano sempre evocato, ma spesso manipolato, a quei cittadini che – come dispone la nostra Costituzione – hanno diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. E’ necessario realizzare un sistema di rappresentanza politica di carattere inclusivo. Si potrebbero ad esempio far competere tutti gli aspiranti rappresentanti in collegi uninominali di limitate dimensioni, con poi un riparto dei seggi operato in grandi circoscrizioni se non addirittura a livello nazionale, nel rispetto della proporzionalità dei suffragi ottenuti dalle liste collegate. Ciò potrebbe non garantire al vincitore del singolo collegio l’elezione (ma meglio sarebbe dire al minor perdente). Assicurerebbe però uno stretto rapporto di rappresentanza con il territorio. E, in fondo, sono proprio le logiche della rappresentanza che devono essere principalmente sostenute, ancor prima del seggio al singolo candidato. E poi, com’è noto, vi sono technicalities che possono salvaguardare la rappresentanza effettiva e il voto per collegi uninominali. Ma ciò – mi rendo conto – richiederebbe di rimettere in discussione l’ultimo ventennio, la retorica del maggioritario, l’ossessione governista, gli squilibri prodotti tra una sempre agognata primazia dell’istituzione governo e un Parlamento umiliato e offeso. Si tratterebbe in breve di rimettere in discussione la cultura politica ancora egemone, sebbene in crisi di prospettive e ormai confusa. Così si dovrebbero anche ricondurre i partiti alle finalità indicate dall’art. 49, che li indica come un mezzo di partecipazione, non costituiti per l’unico scopo di prendere il potere, dovendo invece concorrere a determinare la politica nazionale. Forse troppo, certamente troppo, per i nostri tempi persi. E allora, cedendo – ma solo alla fine – al realismo triste dei giorni nostri, ci si potrebbe accontentare, provando a iniziare, approvando in Parlamento un sistema elettorale semplice e comprensibile agli occhi dell’opinione pubblica, meno distorsivo e più rappresentativo. Si finirebbe per scoprire che anche la governabilità sarebbe in grado di trarne giovamento.
Il dibattito sui sistemi elettorali in Italia appare concentrato sulla modellistica e sui calcoli delle convenienze particolari delle singole parti in causa; rischia così di perdere il suo specifico, l’orizzonte di senso e di valore. Bisognerebbe ricordare che i sistemi elettorali non sono tanto un metodo per stabilire chi deve ricoprire cariche pubbliche di vertice, ovvero una tecnica di traduzione dei voti in seggi, ma sono, soprattutto, un mezzo di legittimazione del ceto politico, definendo la relazione concreta tra elettori ed eletti. È questo l’orizzonte che appare oramai appannato, inghiottito dal variopinto panorama di proposte ad alta tecnologia, delicata alchimia e complessa composizione. Sennonché la torsione tecnocratica e di convenienza che domina la discussione politica e la riflessione scientifica sui sistemi elettorali – ma che in realtà tende ad affermarsi, su un piano più generale, come paradigma di legittimazione nelle post-democrazie – alimenta ormai la disaffezione di molti dalla “vita activa”. Si è giunti a corrodere quello spazio politico che, secondo l’insegnamento di Hannah Arendt, si pone alla base dell’agire responsabile, la cui assenza rischia di tradursi in una nichilistica «espropriazione del mondo», che farebbe precipitare in una situazione di generalizzata illibertà la condizione umana e, in particolare, ridurrebbe a mero rituale ogni comportamento elettorale. Mostrare allora ciò che collega i sistemi elettorali alla democrazia, alla rappresentanza politica reale, appare tanto più necessario in un tempo di accresciuta distanza tra il Palazzo e la piazza. Indispensabile se si vogliono evitare i reali rischi di una chiusura della politica nelle logiche deboli dell’auto-rappresentazione di sé, ma anche di una parallela e simmetrica chiusura della società civile entro una logica distruttiva di egoismo solipsistico, che troppo spesso assume ormai il volto collettivo dell’antipolitica nelle diverse forme dell’indifferenza o dello sberleffo, comunque inquietanti o impotenti.
Diventa sempre più urgente interrogarsi su cosa fare per uscire da una situazione di progressivo distacco della società politica dalla società civile. Nello specifico si tratta di valutare le proposte di modifica dei sistemi elettorali.. Anzitutto, dal punto di vista tecnico e formale, si dovrebbe evitare il pericolo della ricaduta nella modellistica elettorale. Non si tratta di inventare un altro mostro, collezionando pezzi di sistemi stranieri. Di Frankestein elettorali abbiamo già verificato l’improprietà. Dovremmo uscire dall’artificiale e tornare all’umano: il che vuol dire, per i sistemi elettorali, riscoprire la semplicità delle regole della rappresentanza. Se non una testa un voto, almeno un corpo di regole univocamente indirizzate a dare voce al demos . Inoltre, dal punto di vista politico e sostanziale, le proposte di modifica elettorale potrebbero essere valutate in base al seguente criterio: quanto esse favoriscono la riespansione di un’effettiva rappresentanza politica o quanto, invece, contribuiscono al permanere della logica di auto-rappresentazione del ceto politico. I due principi guida indicati dovrebbero indirizzare il legislatore, consapevole della gravità della crisi della rappresentanza politica, a fuoriuscire dalla retorica della governabilità, sostituendo a essa la considerazione dei poteri del rappresentato. Si smetta allora di andare alla ricerca di modelli elettorali sempre più distorsivi. In tal modo non solo si allontana sempre più l’elettore dal suo rappresentante, ma non si riesce neppure ad avvicinare il corpo elettorale al Governo, quest’ultimo diventato sempre più espressione di complicità tattiche tra partiti disomogenei e privi di un comune indirizzo politico. In tal modo si sono tradite finanche le promesse formulate da quasi un ventennio per giustificare le distorsioni maggioritarie. A forza di votare per il Parlamento al fine improprio di scegliere il Governo, siamo giunti al commissariamento del governo. Un esecutivo “tecnico” che non è certamente espressione diretta o indiretta del corpo elettorale, bensì puro prodotto delle istituzioni. Scelto dal Capo dello Stato e sostenuto da gran parte dei nominati in Parlamento, senza che vi sia stata alcuna incidenza della rappresentanza popolare. Magari un bene per la salvezza dell’Italia, ma decisamente un Governo “strano” – come ama ripetere in nostro attuale Presidente del consiglio – espressione del fallimento – spero solo momentaneo della politica che opera nel vuoto della rappresentanza. Si tratta di risvegliare la rappresentanza e con essa le forze politiche. Poi, reso più stretto il vincolo con l’elettore, anche la scelta del Governo troverà una sua composizione lineare e di maggiore omogeneità d’indirizzo politico. La scelta dei rappresentanti viene prima di quella del Governo: è questa la regola aurea delle democrazie parlamentari che la debolezza della politica ha fatto spesso dimenticare, non ultima tra le cause che hanno proiettato la politica nel suo instabile e temibile isolamento dalla società. Bisognerebbe dunque proporre una riforma del sistema elettorale in grado di porre al suo centro l’idea di restituire la dignità perduta a quel sovrano sempre evocato, ma spesso manipolato, a quei cittadini che – come dispone la nostra Costituzione – hanno diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. E’ necessario realizzare un sistema di rappresentanza politica di carattere inclusivo. Si potrebbero ad esempio far competere tutti gli aspiranti rappresentanti in collegi uninominali di limitate dimensioni, con poi un riparto dei seggi operato in grandi circoscrizioni se non addirittura a livello nazionale, nel rispetto della proporzionalità dei suffragi ottenuti dalle liste collegate. Ciò potrebbe non garantire al vincitore del singolo collegio l’elezione (ma meglio sarebbe dire al minor perdente). Assicurerebbe però uno stretto rapporto di rappresentanza con il territorio. E, in fondo, sono proprio le logiche della rappresentanza che devono essere principalmente sostenute, ancor prima del seggio al singolo candidato. E poi, com’è noto, vi sono technicalities che possono salvaguardare la rappresentanza effettiva e il voto per collegi uninominali. Ma ciò – mi rendo conto – richiederebbe di rimettere in discussione l’ultimo ventennio, la retorica del maggioritario, l’ossessione governista, gli squilibri prodotti tra una sempre agognata primazia dell’istituzione governo e un Parlamento umiliato e offeso. Si tratterebbe in breve di rimettere in discussione la cultura politica ancora egemone, sebbene in crisi di prospettive e ormai confusa. Così si dovrebbero anche ricondurre i partiti alle finalità indicate dall’art. 49, che li indica come un mezzo di partecipazione, non costituiti per l’unico scopo di prendere il potere, dovendo invece concorrere a determinare la politica nazionale. Forse troppo, certamente troppo, per i nostri tempi persi. E allora, cedendo – ma solo alla fine – al realismo triste dei giorni nostri, ci si potrebbe accontentare, provando a iniziare, approvando in Parlamento un sistema elettorale semplice e comprensibile agli occhi dell’opinione pubblica, meno distorsivo e più rappresentativo. Si finirebbe per scoprire che anche la governabilità sarebbe in grado di trarne giovamento.
Questo articolo anticipa parte di una relazione al convegno «Legislazione elettorale, ruolo dei partiti, trasformazioni della rappresentanza» che si tiene oggi a Napoli, a partire dalle 10.30 presso l’Istituto italiano di studi filosofici..
da “il manifesto”
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