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Crisi e conflitto sociale: spunti di riflessione

 

CRISI E CONFLITTO SOCIALE: SPUNTI DI RIFLESSIONE

E’ noto come la crisi “costringa” il capitale e i suoi rappresentanti a mettere in campo una serie di interventi violenti contro le classi popolari e contro quei ceti (si diceva medi) che pensavano di essere intoccabili e che, invece, sono prossimi alla proletarizzazione.

E non è finita. La crisi, secondo vari autori, sta passando da una fase critica a una ancora più pesante e le odierne manovre e speculazioni borsistiche sono il sintomo e il segnale di un futuro prossimo fatto di ulteriori tagli ai salari, ai diritti e alla spesa sociale.

Le risposte dei movimenti italiani di resistenza e/o antagonisti sono state ad oggi di basso profilo e non sono riuscite a intercettare in modo chiaro i lavoratori e il proletariato in genere.

E’ inevitabile mettere in discussione quindi, con grande modestia ma anche con il giusto senso critico, una serie di analisi che risultano deboli e fuorvianti rispetto alla fase e che quindi portano a proposte inefficaci.

La grande questione ci pare debba essere inevitabilmente quella della proposta dell’alternativa al modo di produzione capitalistico e della campagna per una vertenza sociale capace di rimettere in campo quei rapporti di forza necessari alla classe per ripristinare il proprio ruolo storico nella lotta per la trasformazione dell’esistente.

Occorre chiarire fin da subito che vertenza sociale non significa una qualche forma di contrattualità in seno al modo di produzione capitalistico, bensì la ricerca di quella centralità strategica dei bisogni che per natura si pone in termini di incompatibilità con il capitalismo.

E siamo consapevoli che su questo già vi sono forti differenze all’interno delle proposte in seno al cosiddetto movimento che sono il riflesso o la diretta conseguenza dell’origine dell’analisi della fase.

Ad esempio, la proposta di tassare le “rendite finanziarie” è conseguenza inevitabile per coloro che vedono nella circolazione dei capitali il centro vitale dell’attuale modo di produzione.

Su questo anticipiamo che, stante la rilevanza della questione della circolazione dei capitali, non crediamo che sia questa la strada per una analisi corretta e per proposte efficaci.

E comunque giungere a proposte efficaci sarà anche in tale scritto, ne siamo consapevoli, lavoro incompiuto. Siamo però convinti che questo possa rappresentare un contributo sintetico (e necessariamente non esaustivo) per la costruzione della “cassetta degli attrezzi” utile (sia ideologicamente che politicamente) per comprendere meglio la strada da percorrere.

Distribuzione, circolazione e produzione

a. in breve, il secondo dopoguerra

Se si ritiene – e purtroppo ancora in alcuni settori si ritiene – che la crisi attuale sia dovuta alla finanza o ai banchieri cattivi, per il tramite deii subprime prima e il ricatto del debito pubblico poi, si giunge immediatamente fuori strada.

La crisi ha radici profonde nel ciclo del capitalismo. Non deve essere infatti da un lato dimenticato che, negli novanta e inizio duemila (solo per fare la storia più recente), è stata completamente scaricata su paesi come la Russia, il Giappone, le cosiddette tigri asiatiche, l’Argentina e, dall’altro, non possono essere sottaciuti né trascurati i salti mortali compiuti dai paesi europei per entrare nella UE. Così come occorre ricordare che siamo nell’era dello scontro interimperialistico e che quindi si accentua il fatto che il più forte scarica sul più debole. Si pensi solo ai dati del debito Usa.

Detto questo occorre far risalire agli anni settanta il momento ideale dell’inizio della parabola discendente della crescita del capitalismo. Questo perché ciò che conta è che il capitale non cerca un qualche guadagno dalla circolazione della merce anche se, ovviamente, questo aspetto ha un ruolo importante nell’insieme del ciclo d-m-d. 1

Ma proprio perché il ciclo è denaro-merce-denaro il capitale mira oggettivamente e inevitabilmente alla propria valorizzazione, principalmente attraverso lo sfruttamento del lavoro e l’estorsione di plusvalore, con il fine della ripetizione all’infinito del ciclo.

Anche in questa terza grande crisi il capitalismo ha avuto lo stesso ciclo vitale delle altre due, sebbene con le particolarità della fase contemporanea, e deve essere comunque riconosciuto che, se in generale la tendenza è chiara, questa non è né meccanica e né autodistruttiva.

E’ fatto noto che il secondo conflitto mondiale (che ha seguito la crisi del ’29) abbia lasciato enormi margini per la valorizzazione. Interi territori da ricostruire, manodopera a basso costo e disperata (anche se in parte organizzata e conflittuale), industrializzazione da ripristinare, il grande capitale tedesco che lasciava almeno in parte la concorrenza internazionale, accelerazione nello sfruttamento di risorse energetiche…

Per decenni è una crescita continua. Le stesse spinte dei movimenti proletari e anticoloniali, e i possibili conseguenti rapporti di forza (interni ed esterni) di svantaggio, sono stati in buona parte gestiti con la concessione di diritti e la distribuzione di briciole alle borghesie nazionali dei nuovi stati liberati, possibilità data anche dal surplus ottenuto dal libero sfruttamento delle energie. E ove questo non fosse bastato era pronto un golpe per “rimettere le cose a posto”.

In queste dinamiche di crescita e di scontro ovviamente si inserisce anche l’Italia.

Le spinte dei movimenti popolari portano progressivamente anche da noi a uno scontro di classe importante con il quale il potere deve fare i conti. E lo fa attraverso una gestione violenta della piazza, l’uso della strategia della tensione e la concessione di diritti come lo statuto dei lavoratori. Conquista questa di grande importanza per la classe e segno di un importantissimo ruolo politico del movimento di allora e che farà sentire il peso negli anni successivi. Ma il nemico di classe non ha perso la guerra (una vittoria o una sconfitta parziale sono fatti storicamente determinati), si è infatti riorganizzato ed è intervenuto con tutti gli strumenti a sua disposizione per ripristinare il proprio comando assoluto. Ciò anche in funzione dell’approssimarsi della crisi che idealmente scoppia nel 1973 con le tensioni sul petrolio.

CRISI E CONFLITTO SOCIALE: SPUNTI DI RIFLESSIONE

Non è più possibile avere rapporti di forza in condizioni di equilibrio. Non è più possibile essere ricattati dai paesi produttori di petrolio. E, soprattutto, la valorizzazione non ha più gli ampi margini del post conflitto perché si sta arrivando all’inizio della condizione di sovrapproduzione (relativa) di merci, di capitali e di lavoro cui si aggiunge il peso particolare della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Sul punto occorre aprire una piccola parentesi e notare che è più o meno in questo periodo (anni settanta) che viene rilanciata la tesi del sottoconsumo ritenendo che i margini di produzione sono ben al di sotto delle dimensione dei bisogni. In tal senso si indica nella redistribuzione del reddito la ricetta per risolvere la crisi (in particolare con l’aumento dei salari).

In verità si tratta (al di là della giusta battaglia sul salario in sé) di un’analisi che si pone fuori dalla realtà nel momento in cui si focalizzano le finalità dell’attuale modo di produzione essenzialmente sulla domanda di merci legati alla sussistenza.

Il capitalismo non guarda ai bisogni poiché la soddisfazione di questi sono semmai il riflesso della centralità della valorizzazione e quindi dell’offerta. Non conta cosa si produce ma che si produca. E se il profitto (plusvalore) deriva dallo sfruttamento di manodopera all’interno di una fabbrica di automobili e/o di armi non si ha altro interesse che ciò si perpetui.

Tali valutazione (si consenta un’altra parentesi) sono valide anche per un’altra tesi presente nel movimento, ossia l’idea di un’eventuale decrescita (volontaria del capitalismo) con modi di produzione attenti e diretti alla sostenibilità dei bisogni e dell’ambiente.

Una valutazione questa che non è sicuramente in agenda. 2

Il capitalismo (oggettivamente e nelle sue espressioni soggettive), come detto, non agisce per l’uomo o l’ambiente ma per il profitto senza alcun calcolo morale. Semmai produce distruzione (ma sia chiaro non autodistruzione): questo lo si vede in particolare con la crisi dove ogni cosa è oggetto di mercificazione e di speculazione. Un fatto oggettivo (dettato da necessità) e spinto dalla propria forza di classe (comando).

Così, riprendendo il filo, è negli anni settanta che il capitale, ben consapevole delle proprie aspirazioni e di quelle che non le appartengono, procede ad una riorganizzazione a tutto campo.

Il primo passo di tale riassetto è nella nuova organizzazione del lavoro.

La fabbrica (fordista) si deve snellire, per arrivare in luoghi dove la manodopera costa meno ed è meno conflittuale, non assumendo più le dimensioni mastodontiche del grande complesso industriale territorialmente limitato con migliaia di dipendenti ma creando una nuova, ben distribuita e conseguentemente elastica divisione internazionale del lavoro.

Vietnam, Cina, Sud America e poi Est Europa e altre parti dell’Asia: quanto plusvalore accumulato (e quanto riutilizzabile per il reddito di cittadinanza, alla faccia dell’unità di classe!).

Ma il cambio di passo che la crisi costringe a compiere si vede, come preannunciato, anche in un altro modo. Se i profitti da produzione reale tendono ad essere insufficienti per la valorizzazione, allora il capitale si rifugia (drogandosi) nella “economia di carta” che, è noto, produce bolle e speculazione, ma anche occultazione dello stato di crisi.

La corsa inizia proprio a metà degli anni settanta e accelera con il passare del tempo fino ad arrivare al 2007 dove manifesta i suoi limiti bruciando tutto a farheneit 451.

D’altronde la carta è carta e se per molto tempo si è finto che non lo fosse il reale prima o poi si manifesta. Così come chi realmente paga (e nel capitalismo non può che essere così) i termini della crisi, ossia le classi popolari. Certo in termini agitatori la frase “la vostra crisi non la paghiamo” fa effetto ma, nei fatti, o paghi o sei marginalizzato o ribalti tutto: solo in tale momento la “classe meno abbiente” potrà non pagare. L’ultima ipotesi sarebbe (e storicamente sarà) la più naturale ma è lontano dal divenire; le prime due sono gli effetti immediati della guerra di classe scatenata dal padronato contro le classi popolari.

Il fatto è che negli ultimi quaranta anni ne sono successe di cose.

I lavoratori hanno effettivamente pagato la crisi passo dopo passo quasi senza accorgersene e in Italia il percorso è noto (anche se molti non legano gli eventi tra loro).

Eppure è tutto sotto gli occhi: cosa sono altrimenti la sconfitta sulla scala mobile, gli accordi di luglio, l’abbattimento progressivo di diritti (precarietà, salario indiretto…) e salario, il limite al diritto di sciopero? Non sono questi debiti pagati dai lavoratori in nome della civiltà (povero consumatore che subisce lo sciopero dei mezzi pubblici)? La crisi Argentina non è il prezzo che ha pagato il popolo di quel paese per le speculazioni del capitale a fronte di un economia reale passata in subordine?

D’altronde la stessa sinistra (istituzionale e anche quella che oggi in Parlamento non c’è più) si è messa nel giochino delle contrapposizioni e dei giusti sacrifici per fettine di potere (PD, sindacati confederali) facendo finta di rappresentare qualcosa e/o rappresentando quel tanto amato ceto medio. Per non parlare della progressiva perdita di credibilità che giustamente hanno avuto partiti (e perché no quotidiani e associazionismo) che oggi guardano con invidia dall’esterno i palazzi del potere.

In questo meccanismo però – e purtroppo – si è posto anche quella parte del movimento nella ricerca del nuovo che più nuovo non ce n’è (partita iva, precari, consumatori, risparmiatori e non più lavoratori come classe produttrice che necessita di tempo e mezzi per la riproduzione).

Che dire poi della fine del lavoro e della fine delle civiltà.

Intendere i cambiamenti della divisione del lavoro e la fine della guerra fredda come l’ineluttabilità del capitalismo è da criminali soprattutto perché in occidente la marginalità e lo sfruttamento consentivano le false e illusorie aspirazioni di appartenere ad una classe diversa dalla propria. 3

E sotto sotto si marcava la differenza da quei lavoratori e proletari del terzo mondo che effettivamente subivano la più indecente assenza di soddisfazione di bisogni e la più indegna marginalità all’interno di una precarietà di vita e di lavoro che solo oggi si incomincia a intravedere nel sicuro fortino d’occidente.

La colpa sta anche in chi vedeva nella centralità della circolazione di capitali il senso del neocapitalismo e che oggi torna con i piedi per terra comprendendo in pieno che le classi sono classi e il comando è il comando.

Perché insistere nel cercare ogni forma di circolazione del denaro come qualcosa di produttivo invece di capirne il vero senso di prestito verso il futuro (credito al consumo, ricerca di finanziamenti in veste di operazione di borsa…) porta inevitabilmente fuori strada.

Da qui la piena consapevolezza che tatticismi e false strategie devono segnare il passo e che l’economia reale e l’economia speculativa sono da studiare in modo diverso e la politica da mettere in campo deve essere consona alla realtà. Una realtà analizzata qui a cenni e non esaustivamente non avendo pretese particolari se non quella di riaffermare con forza che occorre ripartire dalla lotta di classe.

Divisione internazionale del lavoro, stato, guerra

Come si è già accennato, si è passati da un’organizzazione del lavoro prettamente fordista, che ha caratterizzato la produzione mondiale fino agli anni settanta, a una nuova e più efficace forma di divisione mondiale di sfruttamento. La catena unica della fabbrica si è scomposta e frammentata, portando la costruzione dei componenti da territori limitati agli angoli estremi del globo.

Ovviamente, l’esempio più prossimo per l’Italia è la Fiat che è passata dalla grande Mirafiori e dalla grande Torino dell’indotto alla massima dispersione con forte accentuazione dell’esternalizzazione. Si vede così che i vari componenti vengono costruiti in Asia e nell’est Europa e l’assemblaggio finale avviene in fabbriche terminali (non per forza italiane) dove si giunge al prodotto finito.

Uno schema che mischia un po’ di prefordismo, un po’ di fordismo, un po’ di semischiavitù e un po’ di lavoro salariato, un po’ di lavoro semigarantito, un po’ di precariètà…

Lo scopo evidente lo esprime Marchionne, senza tra l’altro avere remore su come presentarlo. Per la Fiat si deve cercare l’efficienza e quindi occorre procedere all’azzeramento dei diritti sindacali, lavorativi e salariali. Conviene la Polonia e non Pomigliano, il lavoratore parcellizzato e non organizzato, il ricatto verso lo stato italiano e l’ammiccamento a Obama, il mercato cinese e americano e non quello del bel paese. Tanto la gestione del possibile conflitto sociale diffuso non è sua competenza; semmai un pensiero al paese d’origine si ha solo se ci sono i cosiddetti incentivi per drogare il mercato (tornando così a riaffermare la centralità dell’offerta rispetto alla domanda).

E’ la logica del mercato e della ricerca del massimo profitto nonché la socializzazione delle perdite.

Con tale riorganizzazione Marchionne e i suoi predecessori hanno mostrato la vera tendenza del capitale: se è conveniente resto e se non è conveniente me ne vado.

I lavoratori Fiat (e non solo) si sono così trovati da un giorno all’altro più prossimi alla precarietà, in un contesto che abbatte definitivamente quel muro illusorio che li separava dal resto dei proletari sfruttati variamente a termine.

In ciò lo stato accetta il ruolo datogli.

Serve che venga rimodellata la legislazione del lavoro e il welfare per far recuperare forza e liquidità alle aziende? Così sia – e la crisi la pagano ancora i lavoratori e i proletari.

Serve fiscalità capace di mettere al sicuro lo stato che garantisce le banche fuse o cooperanti con il grande padronato? Via all’imposizione di una tassazione senza precedenti.

E se ci sono problemi di gestione delle piazze? Sono pronte, in nome della legalità e della civiltà e perché no anche dell’Europa, le prossime restrizione alle libertà. In Spagna e in Italia sono di questi giorni le proposte di anni di galera per chi blocca strade, ferrovie e anche per chi forma picchetti sacrosanti davanti ai cancelli contro crumiri e per il blocco dei camion. 4

Certo è che ulteriore evidenza di quanto non conti più la produzione in Italia è la ricaduta sulla riproduzione del lavoro ossia, banalmente, quel tempo e quel recupero di energie e mezzi del lavoratore per ritornare al lavoro l’indomani. Se non mi serve più il lavoratore in fabbrica che mi serve dargli una casa popolare, la sanità, la scuola…Ributtiamo l’intero corpo di lavoratori “semigarantiti” nel campo dell’esercito industriale di riserva: più ricattabile e più sfruttabile.

Se ha bisogno della sanità se la paghi. Le tasse imposte servono solo per la circolazione di liquidità in una chiara direzione, che non è quella nella fornitura di servizi. Non paghi? C’è Equitalia pronta a massacrarti.

Siamo già in questa condizione? La domanda corretta è: quanto ne siamo lontani? Quando arriveremo nelle stesse condizioni che oggi vivono i migranti? I greci oggi cercano nella spazzatura da mangiare come i migranti e minori ellenici soffrono di malnutrizione…condizione che in passato era solo delle popolazioni del terzo mondo.

Certo l’Italia (diversamente dalla Grecia) è un paese imperialista a tutti gli effetti, ma non sottovalutiamo il fatto che è quella che potrebbe essere sacrificata (insieme ad altri) sull’altare della competizione internazionale.

Già i migranti e i lavoratori del terzo mondo. Una classe unica con quella italiana ma quanto mai lontana nella logica di molti lavoratori del nostro paese che accettano i Cie passivamente e che sono pronti alla guerra tra poveri. Ed è proprio sui migranti che in questi anni si è sperimentato di tutto, mettendo in campo tutto ciò che rappresenta il controllo sociale che in seguito è arrivato o comunque sta arrivando contro l’insieme del proletariato. Ghetti fatiscenti, caporalato, ricatti mafiosi, assenza di diritti in tribunale e fuori.

L’esperienza delle cooperative mostra l’insieme di quanto detto: gli scioperi della logistica (uno dei luoghi principali di sfruttamento del lavoro migrante) sono stati attaccati a turno da mafiosi armati, crumiri organizzati in squadracce, polizia che ingloba nei propri cordoni lavoratori indecisi se aderire alla protesta o cedere al ricatto del caporale di turno, tribunali che rinviano sempre di più i processi in là nel tempo cercando se possibile di non occuparsi delle questioni. Quest’ultimo è il segno dell’indifferenza di quella parte di “potere democratica” verso i diritti che arriverà a colpire l’intera classe.

Insomma margini ce ne sono pochi.

Un misto di fascismo, autoritarismo e comunque razzismo per cercare di frammentare la classe nei meandri delle marginalità sfruttando le spinte intestine delle disperazione e organizzandole e comandandole a seconda del bisogno del potere.

Quindi il dato oggettivo è che i lavoratori italiani e migranti, entrambi non ancora coscienti, tornano a vivere la propria condizione nel ricatto e nella ricerca di offerte di lavoro diverse, cedendo così ai tempi che non consentono lotte giuste ma lunghe e difficili da sostenere specialmente con famiglia a carico. Un margine di mobilità lavorativa esiste ancora finché la corsa al ribasso lo consentirà e finché questo esercito industriale di riserva sarà utile.

Uno schema ricattatorio che passa (scegliete voi chi ha iniziato) da Caprotti-Esselunga a Marchionne-Fiat, in diverse forme, fino al referendum a Pomigliano. Un meccanismo che dice ai lavoratori di accettare il lavoro così come viene proposto (senza troppo protestare) altrimenti è tua la decisione di essere marginalizzato insieme alla tua famiglia. E comunque al limite sono pronti i manganelli.

E’ una guerra. Lo stato di diritto e la costituzione sono una chimera (non che siano comunque il nostro modello). Il capitale ha la sua struttura e la sua necessaria sovrastruttura. Lo stato è quello dei padroni ed è finalmente libero (in Italia specialmente) da quel compromesso sociale che lo ha in parte condizionato nei decenni scorsi (a partire dalla costituzione del ’48) .

C’è di più.

Siamo in Europa e siamo nella fase dell’inasprimento del conflitto interimperialistico.

La crisi in sé ha accelerato i meccanismi di polarizzazione, superando definitivamente l’idea di stato nazione, proprio per far fronte a limiti oggettivi di mercato e dell’accumulo di valore. E in ciò nuove potenze si affacciano nello scenario mondiale. 5

Le borghesie si accorpano, si fondono, diventano transnazionali e cercano sovrastrutture sovrastatali e ideologiche capaci di portare avanti i propri interessi. Così vediamo un’Italia europeista per tutelare indubbiamente gli interessi del capitale finanziario (bancario-industriale) nella violenta disputa in atto e che si appoggia all’europeismo per combattere la guerra interna. Ovviamente la lettera di agosto 2011 della BCE rappresenta proprio questo spaccato con tutte le applicazioni conseguenti. Ma anche verso la gestione degli scontri intra-europei e extraeuropei il polo continentale gioca un ruolo fondamentale.

In tal modo l’Italia (o meglio i suoi rappresentanti politici e del capitale), allo stesso tempo, si difende alla meglio dalla crisi e dalla concorrenza cercando di perdere il minor spazio possibile reinventandosi come può su scala europea, accettando l’egemonia franco tedesca e accettando di perdere guerre come in Libia dove Roma appare di fatto l’unica vera sconfitta insieme al popolo libico indipendentemente dal dittatore di turno.

E certamente fa pensare il fatto che la crisi esploda in Usa e quest’ultima, con dati economici clamorosi su debito pubblico e pil, riesca a non vivere in stato di ansia come in Europa e nel resto del mondo. Certo la crisi in USA c’è, ma il peso reale attualmente lo vivono i Piigs (e certo è che gli altri stati europei non sono al riparo da presenti e futuri scossoni). Tempo al tempo e sarà tutto l’occidente a vedere gli effetti dello scontro interimperialistico e gli europei (compresa la Germania) pagheranno dazio contro le economie emergenti. Allora sì che saremo prossimi ad una vera propria guerra.

Nel frattempo si continua con le varie guerre regionali e di rapina che servono ai vari poli per conquistare aree geopolitiche strategiche economicamente e militarmente. Su questo non sfugge il discorso sull’Iran. Non interessa qui il ragionamento sul dittatore o sul regime. Il capitalismo non si muove su basi morali. Interessa l’intersezione Cina-Iran e i possibili sviluppi su petrolio e alleanze complessive. Poi quando la crisi si acuirà si vedrà quali postazioni si hanno nella scacchiera internazionale.

Una guerra totale che si vive sia all’interno di quella che era la prima contraddizione (capitale/lavoro), sia negli altri scontri (tra borghesie: interimperialistico) che questa fase del ciclo del capitale esprime. Ogni “nostra” proposta non può non tener conto di questo.

Salario, reddito, contratti, vertenza sociale

Definiti a grandi linee i punti dai quali partire si può tornare alle condizioni dello stato del movimento e delle sue proposte.

La manifestazione del 31 marzo 2012 a Milano aveva come motore l’idea del no debito (non paghiamo il debito). Abbiamo partecipato al corteo, ma non abbiamo visto in tale proposta una particolare concretezza. Il corteo era importante perché esprimeva l’opposizione contro Monti e gli attacchi contro i lavoratori e quindi è stata letta da noi in chiave di negazione dell’esistente, ma non in senso di proposta. Infatti l’idea del “no debito” se vista in chiave agitatoria può essere tranquillamente utilizzata per dare una minima chiave di comunicazione verso chi vogliamo intercettare, ma pensare di dare un valenza teorica a tale proposta è fatalmente un errore.

Anche solo, come sopra illustrato, pensando agli ultimi decenni i lavoratori (restrizione di diritti, salario, sciopero), il proletariato (azzeramento salario indiretto e/o ciò che riguarda la riproduzione del lavoro) e i popoli (Argentina, guerre, migrazioni) hanno e stanno già pagando la crisi e il debito (che evidentemente non è loro).

Poi è evidente un fatto: i lavoratori non sono in debito perché essi offrono lavoro e ricevono salario (pessimo certo ma è quello che i rapporti di forza consentono attualmente). Semmai sono in credito di tutto il plusvalore che gli viene estorto.

Inoltre, l’idea del non paghiamo il debito riporta troppo a quel movimento di Genova 2001 sconfitto perché poco conflittuale nei fatti e perché mosso da coscienza critica e non di classe. E una cosa era condizione dell’altra.

Un’altra proposta che ci trova perplessi è il cosiddetto audit. Una proposta dalla pura valenza morale poiché fa le pulci alle voci di spesa statuale e vorrebbe intervenire su di essa veicolandola su produzione finalizzata ai bisogni. Ma con la semplice morale non si vince e il capitale che non ne ha (anarchia del mercato!) spinge tale spesa verso le proprie necessità (militari, speculazioni…) ribadendo che l’attuale Stato è sua espressa sovrastruttura o comunque lo sono le costruzioni sovrastatali: si tratta infatti della massima espressione del comando di classe.

Va detto comunque che il lavoro di studio dei promotori ha evidenziato che il peso del debito cade maggiormente sugli interessi da pagare e non sulla struttura del debito. Il che fa capire che il capitalismo oramai costringe gli stati e le strutture sovranazionali a grandi sforzi per mantenersi in vita e che qualcuno prima poi cadrà sull’altare della competizione. E che, per evitare questa caduta, gli stati saranno costretti a trovare nuove forme e nuove rapine prima di arrivare alla guerra che deciderà chi sta peggio e deve morire.

Fatto sta che l’audit è una proposta di intervento all’interno dell’esistente, ma è incapace di comprendere che l’esistente non vuole questo tipo di intervento. E qui ricadono un po’ le critiche fatte sul no debito con l’ulteriore critica sulla riformabilità del capitalismo e sulla cecità dei promotori sulle condizioni pesanti del conflitto interimperialistico.

Quanto alla decrescita lasciamo agli spiritualisti il senso di felicità. Noi siamo materialisti.

Il capitalismo ha le sue regole di crescita in base al valore. Quindi o si mette in discussione il capitalismo nei suoi mille aspetti o parlare di ridimensionare alcuni aspetti di esso è francamente fuori dalla realtà e pone solo problemi di autocoscienza a chi la propone, non ai padroni.

In tal senso vanno portate alcune critiche anche il movimento “siamo il 99%” laddove pone al centro la cattiveria dell’1% che ha la maggior parte della ricchezza. Il problema non è la ricchezza in sé (ovviamente si tenga il dato agitatorio se collegato a quanto detto prima) quanto su come continua a prodursi tale ricchezza.

Inoltre, in sé tale movimento rischio di riprodurre rigurgiti interclassisti che portano a ipotetiche alleanze moraliste. Il dato materiale non è l’alleanza con i ceti medi ma la loro proletarizzazione e quindi il ritorno generale ad un conflitto di classe più chiaro. In tale chiave non esiste quindi una qualche nuova forma di patto sociale.

Quanto alla difesa dei vari diritti giuridicamente riconosciuti dei lavoratori, come l’art. 18, occorre riflettere sull’intera questione in modo corretto. E’ evidente che la difesa di ogni singolo aspetto è fondamentale anche perché l’attacco in sé non mette (o comunque non mette solo) in discussione il rapporto giuridico tra capitale e lavoro, ma una vera difesa ideale complessiva che cerca di mantenere il lavoratore al di fuori dell’oggettivazione nel ciclo produttivo. In pratica la difesa di ogni singolo aspetto del diritto del lavoro è il mantenimento dell’idea che il lavoratore deve resistere alla sua mercificazione per darsi il respiro come soggetto classe. Ovviamente si deve rilanciare qualora ci fossero i rapporti di forza e se il capitalismo avesse da dare. In ogni caso, anche in assenza di quest’ultima condizione, la partita si giocherebbe comunque sul piano delle incompatibilità e del superamento sistemico.

Magari ripartendo dall’idea della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario che, sebbene di difficile applicazione, pone la questione della solidarietà di classe.

Anche le singole partite giocate sui contratti collettivi sono estremamente importanti. Il tutto però condizionata sul diretto e reale protagonismo dei lavoratori e non dei funzionari sindacali. Ogni singola vittoria va ricercata, ma con la consapevolezza del fatto che questa risulta essere comunque storicamente determinata e che il capitale è in grado di riorganizzarsi il giorno seguente ad ogni singola sconfitta.

E qui ritorna la questione che più conta: ossia i rapporti di forza al momento della battaglia e durante l’intero arco della guerra.

In ogni caso occorre mettere in evidenza che la difesa del contratto di lavoro (collettivo in primis) nonché dei singoli rapporti giuridici appartengono spesso volentieri al piano sindacale e sfiorano il politico. 7

E in ciò occorre ribadire che i due piani sono strettamente collegati ma non vanno confusi.

Sul punto una riflessione va posta sulla necessità di un gradualismo sindacale (legato comunque a momenti di salto di qualità), con conseguente utilizzo di una tattica intelligente a seconda del momento della specifica vertenza in atto, ma con una visione politica prospettica per il sviluppo di contraddizioni in chiave più generale. La mancanza di quest’ultima condizione porrebbe la lotta nel mero economicismo corporativo finalizzato alla gestione di briciole all’interno di un piano di compatibilità al sistema. (tra l’altro perdente in questi ultimi anni).

Proprio le lotte poste in essere nell’ambito delle cooperative hanno provato (nel loro limite) ad avere parzialmente una visione più politica basandosi non solo sulla questione della difesa della specifica condizione contrattuale ma sviluppandosi su temi importanti quali la dignità, la solidarietà tra lavoratori (es. la partecipazione a scioperi in altre aziende e siti di lavoratori del settore), la delegittimazione di capetti e sindacati concertativi, la volontà di pesare di più nei rapporti di forza all’interno dell’azienda, uscire dal particolare del luogo di lavoro e scoprire l’insieme della conflittualità di classe provando a tessere rapporti con il resto del mondo del conflitto.

Con ciò cercando di arrivare a quell’accumulo politico di forze su base materiali tanto necessario per la trasformazione dell’esistente.

Si tratta di un percorso (di lavoratori, sindacato, di realtà e militanti politici) che non è stato lineare, costruito per tentativi, con vittorie e sconfitte, in fase embrionale per alcuni aspetti e avanzate per altri, che ha tanto da conoscere e sperimentare ma che lancia una segnale nella direzione di capire il conflitto nella nuova dimensione industriale e non dell’Italia di oggi.

Su questo la necessità di aggiungere ulteriori proposte per continuare a uscire dalla dimensione aziendale e/o prettamente legata alla condizione lavorativa, aggiungendo quegli elementi necessari per quella vertenza sociale punto di partenza per la messa in discussione complessiva.

Su questo occorre quindi continuare la disamina delle varie proposte che in questi anni sono girate all’interno dei movimenti.

Un’altra proposta di questi anni, anche se oggi molto in disuso, è quella del reddito di cittadinanza. Il principio di fondo è quella di assicurare a ogni cittadino in quanto tale un reddito sicuro indipendentemente dal fatto che si lavori o meno.

E’ il principio universalistico che cerca di staccare il ruolo del proletario (facendolo diventare cittadino…consumatore…risparmiatore) dalla produzione, poiché la centralità della valorizzazione dei capitali sta nella circolazione di questi. Ovviamente dopo la scoppio del 2008 tale tesi è stata progressivamente abbandonata anche, se a guardare bene, le bolle sono scoppiate a ripetizione da metà degli anni novanta e forse qualche riflessione doveva essere fatta per tempo.

Magari anche solo valutando chi effettivamente avrebbe effettivamente pagato tale reddito visto che l’estorsione di plusvalore fuori dal fortino europeo è notevolmente aumentata.

Insiste invece la proposta di una moderna Tobin tax. Presa in origine, si trattava di una proposta della prima metà del secolo scorso che mirava a tassare le rendite produttive, in primis i terreni agricoli, sia in fase di staticità sia in fase di compravendita. I moderni pensatori hanno esteso tale proposta sulle rendite finanziarie centrando il discorso sul fatto che la operazioni di borsa e di circolazione di capitali potesse produrre valore.

La realtà ha ben dimostrato che nessun valore si è prodotto da queste forme speculative e la carta, specie dal 2008, è tornata ad essere semplicemente carta.

Da notare che questa proposta si collegava a quella del reddito di cittadinanza, ma curiosamente la prima resiste mentre la seconda no.

Reddito garantito: si tratta di erogare una qualche forma di reddito a chi si trova in stato di povertà assoluta o relativa (a seconda dei bisogni primari o secondari che riesce a soddisfare).

E’ totalmente staccata dal rapporto capitale/lavoro e in sé punta a superare i livelli minimi dei vari sussidi. Nata sugli stessi requisiti del reddito di cittadinanza oggi in verità è riproposto su un piano molto diverso staccato dal principio di valorizzazione del capitale tramite circolazione di questo con relativa tassazione. 8

Tale evoluzione ha portato settori della Fiom a prenderla in considerazione in funzione di una forma reddituale più consona ai bisogni nella fase tra un lavoro e l’altro e comunque di compensazione di salari bassi.

Salario garantito: superata la fase dei lavori socialmente utili ormai tale idea tende ad assomigliare all’attuale forma di reddito garantito anche se mantiene in termini teorici la centralità sul rapporto di lavoro.

Una delle domande che ci si pone è dove prendere le risorse per affrontare il reddito/salario garantito e la durata. Le risorse pubbliche (welfare), basate sul recupero del plusvalore estorto nonché su tasse patrimoniali reali, potrebbero risolvere il quesito superando le dette forme di tassazione delle rendite finanziarie. Certo la difficoltà nell’attuazione di tali modalità pone la battaglia dell’incompatibilità dei bisogni con il sistema vigente come centralità politica.

Reddito/salario garantito quindi potrebbe essere una proposta da tener d’acconto nella misura in cui rimane centrale il conflitto capitale-lavoro e in chiave della vertenza sociale generale finalizzata alla trasformazione dell’esistente. Se presa però singolarmente rischia di essere incapace di esprimere vera conflittualità di classe portando alle condizioni perdenti già viste al tempo del “movimento dei movimenti”.

Una grande questione irrisolta è la battaglia per il salario indiretto (concepito interamente sul recupero del plusvalore estorto). Si intende per salario indiretto tutto ciò che spetta al lavoratore al di fuori del normale rapporto salariale di lavoro produttivo e quindi di tutto ciò che compete la sua riproduzione. Dal mangiare, alla casa, dalla sanità, all’istruzione…dal pane alle rose.

Come detto in precedenza se in un determinato paese la produzione e lo sfruttamento si riducono, anche la forma riproduttiva non ha più lo stesso senso per il padronato.

Specie se le risorse statali ottenute con la tassazione servono per fini diversi dai servizi.

Diventa quindi centrale ogni singolo aspetto di difesa del territorio, dall’idea della fabbrica diffusa all’idea della difesa di ogni singolo servizio che si vorrebbe chiudere (case popolari, ospedali, scuole…). Ribadendo (certo anche in modo agitatorio ma non solo) che i lavoratori sono in credito perché i servizi appartengono a quel plusvalore estorto che deve rientrare nelle loro tasche in forma di salario indiretto. E anche qui si deve centrare la battaglia sulla centralità dei bisogni rispetto alle esigenze del capitale.

(D’altronde esiste un’altra questione, un po’ collegata a tutte le proposte viste sopra, che riguarda le imposte. L’iper tassazione sui redditi dal lavoro pone in evidenza una serie di punti. Poco importa la parte relativa al datore di lavoro se non nel già detto recupero di plusvalore estorto.

E poco importa l’idea della monetizzazione che deriva dal recupero da una eventuale battaglie sulle tasse. Molto più importante è il recupero dei servizi (come visto sopra) nonché la progressività delle imposte. Quest’ultima elusa dalla borghesia sia nei termini del reddito individuale/societario sia nei termini delle imposte indirette).

(Ovviamente tale aspetto ha senso solo in un contesto di salario diretto e indiretto altrimenti si cadrebbe non tanto nell’aspetto agit-prop quanto sull’aspetto puramente demagogico).

Qualche conclusione

La fase impone quindi al movimento una migliore capacità di analisi, di proposta e di conflitto. Ogni ambito deve essere in grado di porsi al passo con quanto sta accadendo e con le accelerazioni in atto. La crisi ha accentuato le contraddizioni sociali e il conflitto di classe è tornato ad essere evidente anche dal punto di visto del capitale e delle sue sovrastrutture che non riescono più a mascherare il proprio intervento di attacco. I tempi impongono l’intervento diretto sui diritti dei lavoratori e dei proletari in genere.

Un attacco che sarà sempre più massiccio e che evidenza il profitto come motore del modo di produzione.

In tal senso va messa definitivamente nell’angolo ogni ipotesi corporativa. 9

L’idea di intervenire nei meandri della governabilità basandosi magari su un’ipotetica alleanza con borghesie nazionali produttive, non solo è perdente ma è anche ideologicamente pericolosa in quanto toglie spazio all’opposizione di classe.

In primo luogo, perché non c’è una qualche forma di borghesia produttiva progressista.

Semmai oggi più che mai esiste una dimensione del capitale finanziario (bancario-industriale) internazionale che è ben conscio del proprio ruolo. Secondo, perché quelle ipotesi socialdemocratiche basate sull’idea di fondo di una domanda interna da sostenere tramite una redistribuzione del reddito o aumento dei salari non è più in agenda per il capitalismo.

La progressiva distruzione del welfare, al contrario, fa ben capire quanto non interessa più la riproduzione del lavoratore come è stato nei decenni passati. Molto più utile è la marginalizzazione progressiva del proletario nell’esercito industriale di riserva nella condizioni di ricattabilità e di guerra tra poveri.

Ben più importante è ricominciare a porre la centralità del conflitto di classe, la costruzione di una sua autonomia soggettiva autorganizzata/organizzata capace di uscire dalla mera resistenza per arrivare invece ad una condizione di rapporti di forza in grado di porre in essere l’alternativa di società.

La centralità del conflitto capitale lavoro quindi deve essere condotta nei luoghi di lavoro non solo su un piano meramente economicista ma con l’idea generale che, se non posso ottenere quanto spetta, allora mette in discussione tutto. E per fare questo occorre collegare la singola vertenza con le altre in altri luoghi di lavoro e nella fabbrica diffuso nel territorio, nonché assumere il compito di collegarsi a tutte le battaglie che comprendono la vita del lavoratore. Quindi dal salario alla casa, alla difesa del territorio al diritto a una qualche forma di reddito/salario nel momento di non lavoro…

Il tutto tenendo presente la centralità della reale valorizzazione del capitale e quindi il recupero di quanto prodotto realmente dal lavoratore.

Porre quindi il conflitto di classe e l’aspirazione ad un’altra società basandosi su una vertenzialità generale che ponga la centralità della soddisfazione dei bisogni e l’incompatibilità di questa con il modo di produzione capitalistico.

La centralità della classe e la centralità della propria lotta. Su una piattaforma da costruire attraverso percorsi unificanti di settori altrimenti scomposti.

Come detto fin dall’inizio non proponiamo ricette salvifiche ma vorremo porre alcune chiavi di lettura, imprescindibili a nostro parere, sapendo che un dibattito a tutto campo deve essere posto anche sulla base del metodo prassi-teoria-prassi che porta ogni volta a compiere un piccolo passo nella giusta direzione di una battaglia ideologica-culturale-politica che sia la più possibile chiara: dall’incompatibilita dei bisogni all’incompatibilità politica della classe.

contributo dei compagni e delle compagne del

Centro Sociale Vittoria di Milano

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