Dopo un periodo confuso di polemiche e di scontri, in cui il governo ha brillato per la sua assenza e la magistratura è stata messa sotto accusa, adesso il percorso più adatto per uscire dal tunnel tenendo insieme il diritto al lavoro e il diritto alla vita, la salute e l’occupazione, appare quello di rendere possibile la continuità produttiva dell’Ilva in regime di conversione ecologica degli impianti, con l’obiettivo di risanare l’intero ambiente urbano. Ma attuare il piano di abbattimento dei fattori inquinanti, spingendo il governo a rispettare gli impegni e obbligando la proprietà a effettuare i necessari investimenti, non è una passeggiata. Servono un confronto costante e la disposizione a una lotta ampia e unitaria.
Questa impostazione, sostenuta e resa esplicita dalla Fiom, che propone di aprire con la proprietà una vertenza, implica prima di tutto una visione non subalterna, limpida e autonoma, delle motivazioni di fondo che danno luogo all’attuale condizione di insostenibilità, umana e ambientale. «Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Così ha scritto il Gip nell’istanza di sequestro degli impianti, con poche parole andando al cuore del problema. E mettendo a nudo, nella sfera di sua competenza, un modo di produzione orientato allo scopo esclusivo del profitto, che si regge sopra un meccanismo unico di sfruttamento dell’essere umano e della natura, e che determina – in assenza di un’azione di contrasto e di controllo – la loro svalorizzazione congiunta al limite dell’annientamento.
Questo è il punto di partenza analitico dal quale non si può prescindere. Non alla magistratura si può imputare di avere sistematicamente calpestato l’articolo 41 della Costituzione – quello particolarmente inviso a Berlusconi fin dalla sua “scesa in campo” -, secondo cui l’iniziativa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E’ apparso invece del tutto evidente che vi è stato un vuoto della politica; che i partiti da tempo hanno derubricato dalla loro agenda i temi del lavoro e dell’ambiente; che i sindacati e i movimenti ambientalisti non sono stati in grado di contrapporre al potere e alla cultura dell’impresa una condivisa piattaforma alternativa.
In questa situazione, gli operai e gli abitanti di Taranto, elevati dalla Costituzione a lavoratori-cittadini titolari dei fondamentali diritti al lavoro, alla salute e a un salario per vivere dignitosamente, sono caduti in balia del potere economico dominante, dividendosi e lacerandosi in una guerra tra poveri. Ma mentre la natura non può opporsi alla propria distruzione se non con reazioni devastanti quando si spezza il suo equilibrio, nella lotta e nella costruzione di un modello alternativo di civiltà possono impegnarsi gli uomini e le donne, mettendo in sicurezza se stessi e la natura. Alla condizione che siano in grado di scoprire il meccanismo di sfruttamento del capitale. E di disporre degli strumenti culturali, pratici e organizzativi per imbrigliarlo e rovesciarne le finalità, ponendo al centro del modo di produzione non il profitto bensì l’uomo e l’ambiente, come la Costituzione italiana prescrive.
Ma proprio a questa funzione rivoluzionaria è venuta meno la politica, piegata dalla dittatura del capitale e dall’egemonia culturale del pensiero neoliberale. Con il risultato che i nuovi lavoratori subordinati del XXI secolo, uomini e donne, giovani e anziani, manuali e intellettuali, nessuno escluso a cominciare dai metallurgici dell’Ilva, si trovano oggi senza rappresentanza e rappresentazione politica. Ragione per cui si genera un vuoto di democrazia, che sta inghiottendo in un buco nero l’Italia e l’Europa. Da questo stato delle cose si dovrebbero trarre a sinistra scelte stringenti per invertire la tendenza.
Non aiutano, al riguardo, giudizi sommari che equiparano nell’impresa gli operai alla proprietà, rendendoli protagonisti dell’inquinamento e dell’assassinio della natura. Non aiuta neanche una visione in definitiva assolutoria della sinistra del nostro tempo, che fa risalire le sue debolezze e i suoi errori al peccato originale di Karl Marx, ossia alla teoria del valore lavoro: come sostiene Piero Bevilacqua, il quale scrive che «la teoria del valore lavoro su cui si fonda l’interpretazione marxista del capitale (…) ha tolto ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della ricchezza» (il manifesto del 9 agosto). Per cui, liberata dalle catene del valore lavoro, rifiorirebbe la capacità della sinistra di misurarsi con la questione ambientale.
In realtà, proprio perché ha buttato alle ortiche l’impianto analitico e il metodo di Marx, e dunque il valore lavoro, la sinistra non ha colto la crucialità della questione ambientale, vale a dire del rapporto organico uomo-natura. In assenza del quale non sarebbe neanche pensabile il lavoro, e quindi l’esistenza stessa dell’essere umano in quanto soggetto in grado di trasformare la realtà. Il rivoluzionario di Treviri non era un propagandista dell’industrialismo bensì un critico del capitale come rapporto sociale. Non era cioè un “marxista ortodosso”, categoria cui lui stesso dichiarava di non appartenere, e che ha prodotto le deformazioni industrialiste e dogmatiche del suo pensiero nei Paesi del «socialismo reale», e non solo.
Marx aveva visto benissimo che al fine di ottenere un profitto, il capitalista, oggi proprietario universale, deve separare il produttore diretto dai mezzi di produzione spezzando il nesso organico che lega l’uomo all’ambiente naturale, e disporre così in uguale misura della forza-lavoro umana e della natura. Perché – chiarisce nella Critica al programma di Gotha – «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è la manifestazione di una forza naturale, la forza di lavoro umana».
Ma poiché la relazione uomo-natura non avviene sotto vuoto, bensì per il tramite di determinati rapporti sociali, pensare di salvaguardare la natura senza rovesciare i rapporti di produzione (di proprietà) che la distruggono è una missione impossibile. A questo stato delle cose ci richiama la vicenda dell’Ilva. Ricondurre a una nuova unità dinamica – al più alto livello della cultura e della scienza – il nesso tra l’uomo e la natura, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico ha spezzato, è il compito del nostro tempo. Ed è ridicolo pensare che si possa affrontare una questione di tale portata senza la partecipazione attiva dei lavoratori e dei cittadini.
Tuttavia, se la classe delle lavoratrici e dei lavoratori non dispone di una propria autonoma cultura e organizzazione politica, capace di promuovere lotte, di stabilire alleanze e di incidere sulle scelte di governo, vale a dire non è in grado di agire come classe per sé, permarrà in uno stato di sfruttamento e di subalternità, al pari della natura. Perciò porre mano alla costruzione di un’ampia coalizione politica delle lavoratrici e dei lavoratori subordinati del nostro tempo, e di tutti quelli che subiscono le conseguenze distruttive della crisi, dovrebbe essere compito prioritario della sinistra, di coloro che vogliono cambiare lo stato delle cose presente. Non è questione da rinviare, in attesa di tempi migliori. L’impegno è di oggi, altrimenti non verranno tempi migliori.
* Autore di “Lavoro senza rappresentanza”, “Viaggio nell’Italia del lavoro” e “La bancarotta del capitale e la nuova società”