L’università oggi…
Tutti i provvedimenti che, negli ultimi anni, hanno contribuito alla ridefinizione dei percorsi formativi, rispondevano all’assunto neoliberista imprescindibile in tempi di crisi della riduzione dell’intervento statale, della “revisione dei conti”, dei “tagli alla spesa”, insomma di tutti quei leitmotiv quantomai necessari a coprirne la vera natura: il rilancio dei profitti all’interno dell’ennesima crisi strutturale del capitalismo e la configurazione di un’università sempre meno di massa e sempre meno luogo di elaborazione di sapere e discussione critica, esplicitamente funzionale alle esigenze di ristrutturazione del mercato del lavoro.
Nell’attuale periodo di transizione che il mondo della formazione sta vivendo, quindi, il “fare cassa” a tutti i costi dell’ex ministro Gelmini e la riforma a costo zero del “tecnico” Profumo, vero e proprio manifesto ideologico dei “valori”di merito e produttività della società capitalistica, costituiscono due facce della stessa medaglia.
La dequalificazione formale e sostanziale della didattica all’interno degli atenei, la parcellizzazione degli esami in crediti formativi, i tagli indiscriminati alle risorse che dovrebbero poter garantire agli studenti i servizi minimi (mense, studentati, borse di studio, etc.) non producono altro che un sapere atomizzato incapace di cogliere in maniera critica le contraddizioni di questo sistema ed un inasprirsi della selezione di classe all’interno del processo di privatizzazione ed aziendalizzazione progressivo dell’università. La selezione, resa esplicita in entrata dall’introduzione massiccia di test d’ingresso e di autovalutazione, agisce però prepotentemente anche durante e alla fine del percorso di studio.
A conferma di questo processo che rimarca e sottolinea le differenziazioni di classe nell’accesso agli studi superiori, anche le tasse, dopo l’impennata di quelle regionali per il diritto allo studio (arrivate a 140 euro in tutte le regioni), a partire dall’inizio del 2013, subiranno un ulteriore aumento: per gli studenti fuoricorso, l’aumento rispetto ai contributi versati dagli studenti in corso sarà del 25%, del 50% o del 100% calcolato progressivamente su tre fasce di reddito. Inoltre, poiché questi contributi non verranno fatti rientrare nel corrispettivo 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario che gli atenei possono imporre agli studenti, riducendosi la base a cui viene applicato il prelievo tributario, si verificheranno aumenti consistenti anche per gli studenti in corso.
Oppure, è sufficiente pensare al meccanismo di differenziazione del 3+2+n ( in cui “n”è il numero dei master e degli eventuali corsi di perfezionamento) che ha evidentemente peggiorato i modi e la qualità della didattica, parcellizzandoli e meccanizzandoli ulteriormente, o a quello del tirocinio e dello stage che, ben prima che gli studenti transitino nel mondo del lavoro, consente alle aziende di sfruttare la loro forza lavoro praticamente a costo zero, o comunque ad un costo minoritario rispetto a quello di un lavoratore garantito a tempo indeterminato. Insomma, con la scusa dell’acquisizione di competenze tecniche e la vaga promessa di un migliore inserimento lavorativo, chi è destinato ad un futuro di precarietà comincia subito ad abituarsi al ruolo subordinato che gli spetta.
Entriamo nel Merito…
Analizzando la retorica della tanto decantata meritocrazia, ancora una volta l’università si mostra per quello che è: centro di elaborazione e diffusione della cultura dominante, fondamentale per la conservazione (e quindi per la riproduzione) dei rapporti di forza esistenti oggi nella nostra società. Il concetto di merito tende a passare come un principio neutrale se non completamente positivo, considerato quasi il rimedio contro un sistema clientelare: chi riesce ad emergere, il self made man, non ha chiesto “favori”, non ha pagato “mazzette”, ma se lo è meritato con la competizione esasperata, il “tutti contro tutti”, l’individualismo, che diventano le chiavi del successo, della carriera, dell’unica possibilità di assicurarsi un posto dignitoso in questa società.
L’ ipotetica uguaglianza delle condizioni di partenza, per cui vince teoricamente chi si è distinto nella disperata corsa all’ascesa sociale, si scontra con l’evidenza di una realtà costruita sulla disuguaglianza, in cui le differenze di classe si fanno di giorno in giorno più vincolanti.
Difficilmente saranno meritevoli gli studenti che non hanno a disposizione strumenti economici che gli consentano di studiare e laurearsi tranquillamente, gli studenti lavoratori o quelli che provengono da un contesto sociale difficile. Il concetto di merito assume dunque i connotati di un fatalismo quasi religioso e svolge una funzione legittimante del sistema che non si ferma al presente, ma che affonda le sue radici nel passato e proietta la sua ombra sul futuro: chi adesso ha, se l’è meritato precedentemente, chi non ha, invece non vi è riuscito. Così come in futuro, chi avrà raggiunto determinati livelli di eccellenza e sarà considerato capace di essersi distinto come meritevole, avrà diritto a tutto ciò di cui gli altri sono privati. In poche parole viene premiato chi ha già vinto, chi è già il privilegiato in questa società. Quelli che dovrebbero essere diritti garantiti per tutti, soprattutto per chi proviene da fasce sociali economicamente più deboli, diventano privilegi esclusivi di pochi meritevoli.
L’ideologia del merito, inoltre, sebbene nasca all’interno dell’universo della formazione, trova chiaramente la sua applicazione pratica nel mondo del lavoro. Il concetto di merito, infatti, è indissolubilmente legato all’aumento della produttività che sappiamo essere niente altro che maggiori possibilità, da parte dell’azienda, di estrarre più plusvalore relativo dalla forza lavoro, ovvero di implementarne lo sfruttamento. Quante volte ci siamo ritrovati di fronte alla distinzione tra atenei meritevoli, di “serie A”, i cosiddetti “poli d’eccellenza” e le università parcheggio? Nei primi, si formeranno i futuri quadri dirigenti, mentre gli altri serviranno a sfornare, nel momento in cui non è richiesta la presenza di forza lavoro particolarmente qualificata, bacini di rifornimento di personale tecnico-esecutivo destinato al ruolo di esercito di lavoratori di riserva. Questi ultimi laureati andranno a costituire, insieme alla bassa manodopera esclusa dall’ultima tappa del percorso formativo e dirottata perciò verso istituti professionali o inserita direttamente nel mondo del lavoro, una forza lavoro docile e precaria totalmente assoggettata alla logica del profitto, pronta ad identificare i propri interessi con quelli dell’azienda, perchè ha completamente interiorizzato i discorsi che l’ideologia dominante gli propina da sempre.
Una retorica, quindi, che finisce col costituire una sorta di “collante sociale” nella misura in cui scarica sulle spalle dei singoli, trascendendo i vincoli dettati dai rapporti di sfruttamento, la responsabilità di un momento di crisi collettiva che ha profonde ragioni storiche: chi non è capace di produrre secondo i dettami del mercato deve assumersi sulle proprie spalle l’onere di un fallimento che non dipende dalla propria soggettività, impedendo lo sviluppo di una coscienza di classe e di una conseguente unità nelle lotte. In un ciclo di mistificazione pressoché infinito che legittima le ingiustizie di questo sistema e che si autolegittima a sua volta, così come si cerca di dividere gli studenti in meritevoli e presunti “parassiti”, si tenta di differenziare i lavoratori in precari e garantiti: divide et impera, i due aspetti della dominazione della classe borghese. Tu meriti (o no), io comando. La “carota”, il premio, e il “bastone”, ossia la repressione e lo sfruttamento nei confronti di chi si organizza per lottare contro questo ingiusto stato di cose.
Consapevoli di tutto ciò, dobbiamo renderci conto, da studenti universitari e futuri lavoratori, che non possiamo e non dobbiamo considerarci isolati dal resto del tessuto sociale. Benché l’università rappresenti un momento di transizione, essa, in quanto specchio delle contraddizioni della nostra società, può tuttavia essere terreno fertile in cui sedimentare lotta e organizzazione.
Che fare?
Come riportare al suo interno le nostre esigenze e le nostre rivendicazioni, sviluppando legami di solidarietà contro lo sfruttamento di questo sistema?
Innanzi tutto con l’autorganizzazione e la partecipazione collettiva diretta, in opposizione al principio di delega e rappresentanza che ci vuole in attesa di ricevere le briciole, invece di lottare in prima persona per la nostra libertà e ridare progettualità al nostro immaginario e a tutti i possibili scenari di lotta. Per questo, come collettivi universitari, lavoriamo ogni giorno nelle nostre facoltà, prendendo le decisioni in maniera critica e orizzontale, attraverso momenti assembleari e iniziative di formazione alternativa in modo da opporre uno spirito critico alla pervasività della cultura dominante. Un ottimo modo per rispondere può essere, ad esempio, proporre iniziative no copyright come “Libreremo”, contro le nuove forme della proprietà intellettuale, o la contestazione aperta di giornate come l’“Open Day”, il “Career Day”o il “Job Fair”, promuovendo pratiche che provino in tutti i modi a scardinare i principi su cui riposa tutta la retorica e i discorsi della narrazione ideologica che la classe dei padroni ha accuratamente costruito, analizzando e ponendo in rilievo le contraddizioni che emergono all’interno di tali discorsi. Cogliere i rapporti tra formazione e lavoro e riportare questa consapevolezza nelle proprie pratiche, significa anche stabilire quanti più legami possibili con le altre situazioni di lotta che ci circondano. Per evitare di trovarsi di fronte ad un monopolio dell’ideologia del merito e della produttività, ad una completa interiorizzazione di questi criteri capace di trasformarci in garanti di questo sistema e alla logica di divisione del merito, dobbiamo contrapporre un lavoro di ricomposizione di classe. Quello che ci spinge a lottare contro lo sfruttamento è la consapevolezza che niente di quello che possiamo meritare, che possono concederci secondo le loro regole, è ciò che ci spetta realmente.
Per un’istruzione e un lavoro liberi dal profitto!
I DIRITTI NON SI MERITANO, SI CONQUISTANO!
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