Qui di seguito riproduiamo un articolo de Il Sole 24 Ore che dovrebbe raccontare le proposte dello sfortunato neo-segretario del Labour Party britannico, svuotato da 15 anni di blairismo e nel bel mezzo di una crisi in cui tute le versioni del “riformismo” in ambito capitalistico sono già occupate . dai reazionari – o bruciate nella prova di governo.
Ci troviamo invece davanti a uno scontro di “figure retoriche” in cui l’inviato del Sole riconosce al volo quelle di Ed Miliband (un contafrottole come tanti altri, nel Labour degli ultimi 30 anni), mentre ne sforna di sue a getto continuo senza – forse – rendersene neppure conto.
Passi per l’oscuto avvertimento “chi mette in discussione la finanziarizzazione muore”, che sembra uscir fuori da un’introiezione completa del ruolo del grande capitale: osservare dall’alto gli sforzi dei “piccoli politici” che cercano di farsi largo, benedicendo o facendo cadere quelli “inadeguati” a salire verso Downing Street.
Ma viene veramente da ridere quando il buon Maisano ripete una litania che – fuori dalla sua redazione e detta in mezzo a un mercato rionale – gli potrebbe costare un paio di denti: la finanziarizzazione sarebbe “una macchina che ha prodotto ricchezza per tutti”. Sono quattro anni che il mondo va in cerca di una via d’uscita da una “macchina” che mangia ricchezza lasciandone quote risibili (ma individualmente enormi) nelle tasche dei “money manager”; e Maisano non se n’a ancora accorto! Certo, l’economia inglese è pesantemente “finanza-dipendente”, basta guardare i numeri che anche qui vengono riportati. Ma questo è uno squilibrio che alla lunga non può essere tollerato da una società – le attività di borsa sono delocalizzabili più facilmente e rapidamente dell’industria automobilistica – oppure un mero dato di fatto su cui non vale la pena di interrogarsi?
E qui sta la forsa inconsapevole dell’idologia “imprenditoriale”: inutile chiedersi com’è questo mondo in crisi e come possa essere cambiato. Bisogna solo trovarsi un posticno al caldo (e Il Sole paga buoni stipendi…). Di tutto il resto, chi se ne frega…
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Miliband, leader del Labour britannico, processa i fondi di private equity: è l’economia «dei predatori»
dal nostro corrispondente Leonardo Maisano
LONDRA – Essendo la “terza via” già stata occupata, anzi inventata, da un suo illustre predecessore (Tony Blair) a Ed Miliband, leader del partito laburista britannico, non resta che immaginarne una quarta. Lo ha fatto al congresso del Labour a Liverpool, tracciando i contorni vaghi di una forza che non è quella di ieri – quella di Blair e poi di Brown – né quella dell’altro ieri, ovvero il ritorno tout court ai classici della dottrina. Resta da capire che cosa ci sia sotto le efficaci illusioni retoriche di slogan affascinanti. Bocciare l’economia dei “predatori ” – rappresentata dai fondi di private equity secondo Milliband – e promuovere quella dei “produttori”, gettando alle ortiche il denaro facile della finanza per l’arcadia della manifattura, magari piccola invece che grande, è esperimento suggestivo. Certamente molto coraggioso per il radicalismo che emana. Non molto di più, anche se la carica etica che Miliband ha voluto porre nel suo argomentare ha dato connottazioni emozionanti.
Un mondo migliore fatto di buone cose tocca le corde di tutti, anche oggi. Affondare la lama nei bonus dei banchieri, nella logica del boom and bust, negli algoritmi che regolano transazioni finanziarie di cui sembra essersi perso il senso e la prospettiva, è esercizio caro a molti. Eppure da un leader di partito che aspira a Downing street c’era da attendersi altro. Quantomeno la consapevolezza che la realtà economica britannica non si può cambiare né in un giorno, né in una legislatura. Forse non si può più cambiare. Va corretta, non affossata perché contestare la finanziarizzazione dell’economia è esercizio pericoloso.
Il 9 per cento circa dell’economia nazionale gira attorno ai servizi finanziari e l’indotto che produce a cascata è un multiplo. Nessuno crede – almeno c’è da sperarlo – che Ed Miliband punti a smontare una macchina che ha prodotto ricchezza per tutti, ma quella metafora dei predatori associati ai fondi di private equity s’è piantata nella gola di molti. Anche in quella dei pochi amici che poteva contare nella City. Nè sembra aver fatto centro elevando a metafora del giusto sir John Rose, l’ex ceo di Rolls Royce. Un capitano d’impresa stimato da tutti che tanto si battè per rilanciare l’industria trascurata dall’eccessiva attenzione dedicata alla finanza. Un produttore che, ironia della sorte, qualche giorno fa è entrato nel board della banca Rothschild archetipo del banking britannico. Un passsagio che conferma l’osmosi fra due mondi che vanno riequilibrati, ma che non rappresentano il paradiso e l’inferno del business.
Il ritorno al passato che le parole di Miliband hanno evocato è stato appena corretto dalla consapevolezza, espressa più volte, che il cammino a ritroso è impossibile.
Non favorirà l’esplosione della spesa pubblica, non spingerà per il ritorno all’assitenzialismo che Blair e Brown promossero con politiche specifiche. Né Miliband ha adottato gli slogan della tradizione d’antan quelli del labourismo militante anni Ottanta. Quando sarà lui premier – ha detto – tutto ciò non accadrà e tanto è bastato a liberare una domanda: che cosa accadrà? L’interrogattivo avvolto nella confezione di una dialettica efficace resta irrisolto. I sondaggi del dopo congresso diranno se il dubbio è filtrato fra gli elettori. Quelli precedenti all’assise davano già una risposta collocando il partito Tory al governo, autore della più dolorosa correzione ai conti pubblici che si ricordi, un solo punto dietro l’opposizione. Ed Miliband non ha ancora corso, ma forse ha già perso.
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