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Salario minimo garantito: tutti contro Juncker

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Una volta messa al sicuro “la pagnotta”, sono in molti ad esternare quello che avevano sempre taciuto o addirittura osteggiato durante il loro mandato. Lo ha fatto spesso l’ex direttore della Banca Mondiale Joseph Stiglitz, è toccato adesso al presidente uscente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker.

L’alto esponente della tecnocrazia di Bruxelles, ha avanzato la proposta di introdurre un salario minimo a livello europeo per sostenere il reddito dei ceti sociali in maggiore difficoltà nella crisi. Juncker arriva addirittura a citare Marx  e a parlare di classe operaia, con grande scandalo di politici ed economisti benpensanti: “Bisogna ritrovare la dimensione sociale dell’unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro altrimenti perderemmo di credibilità e approvazione della classe operaia per dirla con Marx”.

Ma il tempo e le dinamiche della storia mutano continuamente e la questione del salario minimo garantito appare assai diversa nei diversi contesti. Ad esempio, anche in questa occasione, scopriamo che Cgil Cisl Uil sono contrari al salario minimo così come lo sono i liberisti. I sindacati concertativi sono contrari al salario minimo sia nella versione di reddito minimo garantito, ammortizzatore sociale universale, sia come salario da elargire come diritto soggettivo slegato dalla condizione lavorativa e di reddito dell’individuo.

In entrambi i casi Cgil, Cisl e Uil bocciano la proposta. Secondo Guglielmo Loy, segretario confederale Uil: “Il salario minimo garantito è uno strumento da Paesi sottosviluppati”. Una affermazione decisamente curiosa, visto che tranne che in pochi paesi tra cui l’Italia, il salario minimo è previsto nella maggioranza dei paesi europei (non certo sottosviluppati) e spesso con una congruità (1.400 euro in Belgio, più di 1.300 euro in Francia) che apparirebbe un sogno anche per molti lavoratori “regolari” o precari in Italia, che spesso sono costretti ad accettare contratti capestro a poco più di 5 euro lordi l’ora.

Sul piano politico si dice contrario il prof. Carlo Dell’Aringa, neo-candidato Pd, ex presidente dell’ARAN, l’agenzia negoziale per la Pubblica Amministrazione che abbiamo imparato a conoscere durante molti rinnovi contrattuali dei lavoratori pubblici e non certo per le sue posizioni a favore di questi, secondo cui “L’analisi di Juncker è giusta ma in Paesi come il nostro in cui la contrattazione collettiva è forte non sarebbe la soluzione più adatta” mentre si dice favorevole – a condizione di cambiare la Legge Fornero- un altro esponente del Pd, Cesare Damiano. Come conviveranno dentro lo stesso gruppo parlamentare resta un enigma con la soluzione a fondo pagina: tra le due posizioni vince sempre la prima.

Ma sia nella contrarietà di Cgil Cisl Uil che in quella del prof. Dell’Aringa c’è una grande mistificazione. Alla domanda più ovvia sul perchè in Italia non esista lo strumento del salario minimo garantito, occorre dare una risposta con piede nel recente passato ed uno nell’inquietante presente.

Negli anni Settanta infatti i sindacati erano contrari ad interventi legislativi in materia di contrattazione (sia sulla rappresentanza che, ad esempio, sul salario minimo) perchè si sentivano forti di quello che riuscivano a strappare al padronato attraverso il conflitto e la mobilitazione. Una legge sarebbe stato un limite alle possibilità del movimento operaio di portare più avanti possibile l’asticella dei propri diritti perchè i rapporti di forza erano a favore del lavoro e non del padronato.

Ma il tempo è passato ed ha pesato. Ormai, grazie alla complicità di Cgil Cisl Uil, e a trenta anni di accordi bidone, svendite e concertazione al ribasso, la contrattazione tra le parti sociali non copre più niente,  anzi, la fine della stessa contrattazione nazionale realizzata dagli ultimi accordi, consegna alla giungla della “contrattazione aziendale” i livelli salariali spingendoli sempre più un basso. Altro che “contrattazione forte” come afferma il prof. Dell’Aringa. Il ricatto occupazionale e la scomparsa di una copertura nazionale sui contratti, di fatto hanno ormai deregolato ogni parametro consentendo al padronato di gestire a proprio piacimento sia i livelli salariali che l’organizzazione del lavoro. In tal senso i padroni e gli ideologi liberisti sono contrari al salario minimo perchè sanno che possono pagare molto meno i lavoratori. Dopo essere riusciti a smantellare l’oggettività di parametri tramite la fine della contrattazione nazionale con la complicità di Cgil Cisl Uil, vedono come il fumo agli occhi una nuova parametrazione salariale fissata per legge.

Se negli anni Settanta, dunque, una legge sul salario minimo o sulla rappresentanza sarebbe stata una limitazione alle possibilità di conquiste più avanzate nella contrattazione tra le parti sociali, nel 2013 una legge che introduce un salario minimo garantito sarebbe una barriera al totale arbitrio padronale e uno strumento di tutela e autonomia per lavoratori, precari e disoccupati. Una cosa buona dunque, ma che Juncker ha evocato solo alla fine del suo mandato e dunque della possibilità di trasformarlo da evocazione a fatto concreto.

Sembra che funzioni così: le cose giuste andrebbero fatte… ma l’importante è non farle quando si possono fare. A meno che i lavoratori nel nostro e negli altri paesi europei, soprattutto nei paesi Pigs, non impongano con la lotta che le cose giuste vanno fatte quando servono: anche sul salario/reddito minimo garantito.

da www.usb.it

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