Sono passati ormai due anni dalle rivolte popolari che hanno provocato la caduta dei regimi dispotici in Tunisia e in Egitto e che hanno contribuito a mettere in seria discussione il sistema di potere in diversi altri paesi del mondo arabo. Ma i segnali di cambiamento destano un grosso interrogativo: verso quale regime politico si andrà in questi paesi?
Si sapeva che la fase di transizione verso la democrazia non sarebbe stata indolore e che occorreva del tempo per rifondare lo Stato e le sue istituzioni e «ri-educare» i cittadini di questi paesi – dopo decenni di brutale sottomissione – ad interagire con le nuove istituzioni e abituarsi alla dialettica politica e culturale in un contesto sociale nuovo. Inoltre fulul nidam (resti dell’ex regime, come dicono gli egiziani) sono rimasti al loro posto in diversi settori delle istituzioni: uomini e donne che hanno goduto dei privilegi del regime sono tuttora operativi nella funzione pubblica, nell’informazione, nelle pubblica istruzione, nella pubblica sicurezza e nell’esercito. Questi fulul temono di perdere privilegi acquisiti illegalmente il giorno in cui in questi paesi si instaurasse un sistema democratico e quindi cercano di ostacolare la sua messa in piedi usando ogni mezzo possibile a disposizione. E ciò ovviamente rallenta e ostacola la fase di transizione.
A complicare le cose, vi è anche la poca dimestichezza con i valori fondanti della democrazia da parte di forze politiche che oggi sono state scelte liberamente dai cittadini per avviare le riforme. Esse sembrano confondere la legittimità data loro attraverso le urne con la legittimità di governare con «carta bianca» e quindi istituire Costituzioni e leggi che tengano conto solo della loro ideologia politica. E a giudicare dai segnali preoccupanti che giungono dalla Tunisia e dall’Egitto negli ultimi mesi del 2012, il rischio di ricaduta nel totalitarismo non è del tutto da escludere.
L’ideologia politica dominante oggi in questi paesi è quella «islamista». La fase di ricostruzione post-rivoluzionaria è stata regolarmente affidata ai partiti islamisti, appartenenti alla internazionale della Fratellanza musulmana, guida dei Fratelli musulmani egiziani. In Tunisia il partito dominante è Ennahda, «La rinascita». In Egitto i Fratelli musulmani (Fm) oggi, con il loro partito «Giustizia e libertà», controllano totalmente la scena politica, forti anche del fatto che si sono aggiudicati anche le elezioni presidenziali: l’islamista Mohammed Morsi, che al secondo turno è stato eletto con il 51,7% dei suffragi, è il primo presidente non militare giunto democraticamente al potere nel mese di giugno scorso.
Nel giro di due anni in questi due paesi la situazione politica si è completamente capovolta, passando da un regime secolare ad un sistema di governo la cui dottrina politica di fondo è l’instaurazione di uno Stato di stampo religioso nel quale la legge islamica deve essere la principale – se non l’unica – fonte del diritto e della legislazione.
Questo nuovo orientamento ideologico preoccupa una parte non indifferente della popolazione in questi paesi, la quale rifiuta l’idea che lo Stato debba imporre dall’alto ai cittadini una morale religiosa – stabilendo leggi basate su dogmi religiosi – e considera tutto ciò contrastante con i valori della libertà di coscienza, che è un punto cardine della democrazia.
Applicare o no la sharia, e in che modo, è il tema che in questa fase di transizione occupa il dibattito politico a Tunisi e al Cairo: la sharia deve essere una delle fonti del diritto, o la principale o ancora l’unica?
Forti della legittimità politica, i partiti islamisti sembrano tentati di imporre, ai loro elettori e non, il fatto che l’islam, nella sostanza, deve essere la religione dello Stato. Perché nella sostanza? Perché formalmente, e anche durante i regimi caduti, l’islam è sempre stato la religione dello Stato, ma i suoi insegnamenti – come li interpretano gli islamisti – non sono stati messi in pratica. In Tunisia, ad esempio, la poligamia, consentita nel Corano, era fuorilegge e le donne con il velo non erano ben viste dalle istituzioni, in particolare dalle forze dell’ordine.
Gli islamisti, per imporre la loro visione del mondo, hanno bisogno di dotarsi «democraticamente» di una Carta costituzionale sulla quale basare la legittimità della legge che essi intendono stabilire. E quindi la Costituzione in fase di elaborazione in Tunisia (dove l’Assemblea costituente è dominata dagli islamisti di Ennahda) e quella egiziana elaborata da una Costituente dominata dai Fm e dai salafiti, dovrebbero – salvo clamorosi imprevisti – avere una connotazione fortemente religiosa.
Tuttavia i violenti scontri di piazza avvenuti alla fine del 2012 in Egitto dimostrano il fatto che una parte della popolazione egiziana (società civile, organizzazioni sociali, politiche e culturali, minoranze religiose) intende opporsi in maniera decisa al progetto dei Fm e dei salafiti di imporre una Costituzione di parte. C’è addirittura chi ha paventato il pericolo di una deriva di tipo dittatoriale dopo che il presidente Morsi – che recenti slogan a Piazza Tahrir paragonavano a Mubarak – aveva emanato una dichiarazione costituzionale (poi parzialmente ritirata) nella quale si era attribuito una serie di prerogative che gli consentirebbero di disporre di poteri «speciali» che estendono la sua influenza su diverse istituzioni dello Stato: la magistratura in particolare. Morsi ha di fatto sostituito il Procuratore generale della repubblica e ha ridimensionato il ruolo della Corte costituzionale per impedire che essa dichiari illegittima la Costituente che ha scritto la «nuova» Costituzione: costituente dalla quale 40 membri (su 100) si sono ritirati, provocando uno squilibrio politico a favore degli islamisti. La Costituzione prodotta e poi «referendata» in fretta e furia nella seconda metà di dicembre è di fatto illegittima, perché non tutela gli interessi di tutta la collettività.
La linea politica intrapresa dai Fm ha spaccato il paese in due. Gli scontri di piazza, negli ultimi mesi, tra oppositori e sostenitori del presidente Morsi e del suo movimento sono sintomi di una crisi destinata a perdurare nel tempo peggiorando così la situazione economica e sociale già di per sé grave.
I Fm, che esercitano un controllo sociale su una parte importante della popolazione, riusciranno a conservare la loro popolarità e a vincere questo nuovo scontro, come hanno vinto quello con la giunta militare che oggi controllano in parte, dopo aver sostituito un numero non indifferente di alti gradi dell’esercito con uomini a loro vicini?
A differenza del passato, i Fm godono di un importante sostegno diplomatico da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali, i quali oggi ritengono che i Fm siano l’unica forza politica organizzata capace di dare stabilità al più importante paese del mondo arabo e all’intera regione del Medio Oriente: stabilità funzionale ovviamente agli interessi delle grandi potenze occidentali, che spesso e volentieri non coincidono con quelli del popolo egiziano. I Fm sono «il nuovo alleato» di coloro che in passato sostenevano il regime di Mubarak. E ciò sta gettando l’ombra del dubbio sulla credibilità del movimento.
Dall’esterno, i paesi arabi del Golfo (che hanno approfittato delle rivolte arabe per estendere la loro egemonia culturale, religiosa e militare sul Medio Oriente) non vedono di buon occhio il movimento dei Fm, considerato un pericoloso concorrente rispetto alla dottrina wahabita. Queste petro-monarchie stanno cercando di limitare l’influenza dei Fm attraverso la creazione di partiti e movimenti islamisti salafiti in giro per il mondo arabo. Oggi in Egitto i salafiti sono una discreta realtà politica alleata ai Fm contro l’opposizione laica e progressista. E se i Fm dovessero vincere la battaglia contro chi si oppone al loro progetto politico, non è detto che domani riusciranno a frenare i salafiti che all’occorrenza potranno anche ricorrere al jihadismo armato nello stesso Egitto, come sta già avvenendo in Libia e soprattutto in Siria. All’alba del 2013 si prospetta probabilmente per il popolo arabo una nuova «primavera»: quella islamista.
* rivista “Confronti”
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