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Grillo: anomalia o laboratorio?

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 Con Un Grillo qualunque (Castelvecchi Editore) Giuliano Santoro fornisce utili elementi per comprendere il “fenomeno Grillo”. La ricostruzione della storia professionale come personaggio televisivo (Grillo sostiene di essere un prodotto della rete, ma in realtà fa un uso beceramente televisivo di Internet, manipolando le emozioni, p. 157) sottolinea il rapporto con la tv di Antonio Ricci, da cui Grillo ha preso molto, in particolare  dal Gabibbo, alfiere dei sentimenti popolari contro i potenti. La ricostruzione della storia politica evidenzia la base eclettica su cui si è formato, attingendo un po’ ovunque, dagli umori popolari, come quelli formatisi dal basso e raccoltisi in Genova 2001, e da quelli artificiosamente pompati dall’alto contro la “casta”.

Su questa base Santoro delinea caratteristiche e contenuti del grillismo. Che si possono sintetizzare, mi pare, nel modo seguente: è un populismo che evoca un “noi” contro i vizi che appartengono a “loro”, la “casta”, con caratteri di antipolitica in quanto propone di sostituire alla democrazia rappresentativa la “democrazia diretta”, in realtà una democrazia im-mediata, senza “corpi intermedi” tra rappresentanti e rappresentati, con connessione diretta tra seguaci e leader. Il brodo di coltura nel quale si è sviluppato il rifugio nella rappresentazione, di cui Grillo è parte, è “la crisi di sovranità, l’incapacità della rappresentanza di governare i fenomeni economici e sociali…  come la globalizzazione e la fine del lavoro salariato novecentesco e la sua scomposizione nelle mille facce del diamante produttivo postfordista” (p. 158).

Grillo, poi, giunge alla fine del berlusconismo, e ne assume in eredità alcuni caratteri: il fastidio per tutto ciò che è pubblico (Anche lo spazzino viene visto come membro della Casta, in quanto dipendente pubblico a tempo indeterminato, p. 147), l’idea simile a quella dell’Uomo Qualunque che la politica può essere cambiata solo insufflando nel sistema gente che “non c’entra nulla”, come un Berlusconi talmente ricco da non aver bisogno di rubare, o un comico, a sua volta già benestante, ma più genuino dei politici ipocriti.

Altri elementi che Grillo riprende da Berlusconi sono, scrive Santoro, la retorica di destra della meritocrazia e l’elogio del modello di governo privatistico. Peraltro, aggiunge, Grillo non disdegna di civettare con temi di una destra ancora più estrema, come, per esempio, con lo Scec (Sconto che cammina o Solidarietà che cammina), che nasce da analisi economiche vicine al signoraggio, che individuano i guasti del capitalismo nell’assenza della “sovranità monetaria” e non nello sfruttamento dell’uomo e della natura, riecheggiando i motivi delle destre estreme, da sempre ossessionate dal tema dell’usura e del governo del mondo a opera dei banchieri con riferimenti più o meno espliciti ai pregiudizi antisemiti.

Il successo di Grillo e del suo guru telematico Casaleggio rappresentano, sottolinea Santoro, un modo efficace di riabilitare l’ideologia del mercato di fronte al fallimento storico del neoliberismo, in quanto la rete consentirebbe di instaurare una concorrenza perfetta tra le idee, tra le quali i singoli sceglierebbero, “inter-attivamante”, sulla base del proprio “stato di grazia” o giudicandone il tasso di verità.

Nelle conclusioni Santoro avverte che sarebbe schematico sostenere che Grillo sia la semplice prosecuzione di Berlusconi con altri media, mentre, rispetto a questo, fa un passo avanti, in quanto riesce, con l’utilizzo sapiente della tecnologia (rete/tv) ad approcciare la realizzazione dell’utopia tecnocratica della destra di costruire una macchina che possa trasformare i molti nell’uno, distruggendone la diversità.

 

Il libro fornisce una trama di lettura del grillismo argomentata e stimolante: un rilancio del neoliberismo che si associa ai semi di un nuovo totalitarismo. Non di meno lascia, a parere mio, sullo sfondo alcuni interrogativi essenziali per comprenderne appieno la portata e gli effetti che sta producendo nel panorama politico e per chiedersi se il grillismo rappresenti una dinamica reale o solo un’invenzione mediatica. Se sia, insomma, in grado di lasciare il segno al di là delle sorti del capo e dell’involucro in cui è contenuto.

La prima domanda riguarda le componenti sociali maggiormente attratte dal M5S. Un Grillo qualunque affronta, in più riprese, l’argomento per rilevare che i settori più coinvolti sono giovani laureati, spesso con lavori precari o imprenditori di sé stessi, che si percepiscono, per lo più, come progressisti. La collocazione maggioritaria degli aderenti è, dunque, nel cosiddetto “lavoro cognitario”. Pure la base elettorale è costituita in buona parte dalle stesse figure, anche se nel suo crescere attira sempre più un elettorato di più varia composizione sociale, deluso dal centro-destra e, meno, dal centro-sinistra.

Quali i motivi dell’attrazione? In generale in questi strati va crescendo un senso di frustrazione che deriva dalla convinzione di possedere un bagaglio di conoscenze e di competenze che non è possibile valorizzare pienamente. Quali maggiori opportunità di valorizzazione prospetta Grillo? Essenzialmente due. La prima: la politica ha bisogno di onestà e competenze, che, secondo Grillo, mancano del tutto alla “casta” che ne detiene le leve. La seconda: anche l’economia ha bisogno di competenze; la “casta economica”, costituita da dinosauri abbarbicati sulle loro rendite, non le ha ed è incapace di imprimere all’economia quella scossa di novità che, invece, le competenze dei giovani cognitari sarebbero in grado di infondere.

I lavoratori cognitari attratti dal M5S, dunque, sono poco interessati a un percorso rivendicativo di “sicurezze” analoghe a quelle dei “lavoratori garantiti”, che, peraltro, vanno sparendo anche per questi. Ma poco interessati lo sono anche alla rivendicazione di un “reddito di cittadinanza” (che Grillo, ad ogni conto, inserisce nel suo programma). La loro rivendicazione è di natura essenzialmente politica, di potere: via le “caste” che bloccano politica, economia e società, e spazio alle competenze!

È importante rilevare come gli argomenti e le formulazioni usati da Grillo tentino una fusione dei due principali movimenti che hanno interessato questo strato nell’ultimo decennio. Uno è quello innestatosi sulle contestazioni alla globalizzazione da Seattle ’99, che ha dato vita, in tutto il mondo, a mobilitazioni su temi specifici in cui le competenze messe in moto dal basso sovrastavano quelle provenienti dall’alto, dimostrandone spesso la natura esclusivamente propagandistico-affaristica (un esempio su tutti: No Tav). In questo movimento hanno un ruolo importante la cooperazione e il fine. La cooperazione è un meccanismo potente di produzione di una competenza che tutte le travalicava, tanto come risultato (non produce mera sintesi), quanto come generalizzazione (questa sì inter-attiva, in cui l’esperto non porta solo le sue conoscenze, ma va anche ad apprendere da chi esperto non è) in un ambito molto più esteso degli “esperti”. Il fine è non quello individuale (uso delle competenze per il successo del singolo nel mercato), ma il perseguimento di uno scopo superiore, di una collettività che trascende i confini della comunità in lotta.

Il secondo movimento è quello su cui Berlusconi ha costruito le fortune politiche, interpretando, con gli eccessi inevitabili per innestarla in Italia, l’ideologia che costituisce il tratto unificante del “neo-liberismo”: l’individuo proprietario. Nella realtà l’individuo davvero proprietario è chi possiede capitali, nell’ideologia ogni individuo è proprietario di un capitale, costituito dalle proprie conoscenze e competenze. Questo è un capitale solo potenziale, che, però, come nella fiaba di Bill Gates e Steve Jobs, può trasformarsi in accumulazione di capitale reale. Competenze, conoscenze, e una buona dose di cinico individualismo, per sfruttare al massimo le opportunità che il mercato offre. L’individuo proprietario è in lotta feroce contro tutti gli altri per affermare la propria primazia, misurata in quantità di denaro accumulato, di ricchezze a disposizione e di femmine sciupate, e si aggrega con gli altri individui solo per scongiurare l’avvento del “comunismo”, cioè di politiche che limitino lo spazio della libertà individuale, che è, in ultima istanza, la possibilità di competere spietatamente l’uno con l’altro e di sfruttare senza condizioni i “perdenti”.

La fusione disegna un individuo proprietario che aspira a buon diritto ad arricchirsi, ma il cui vero successo non consiste nella quantità di ricchezze e donne accumulate, quanto piuttosto dal riconoscimento che gli deriva dal mettere le competenze al servizio del “bene comune”. Il buon amministratore deve essere competente, e, proprio per questo si auto-riduce anche lo stipendio. In politica e in economia appare un nuovo principio: meno ricchi, se del caso, ma socialmente più utili, e, dunque, più accettabili.

Siamo davanti a una specie di mutazione genetica. L’individuo proprietario non scompare, ma la sua ansia di accumulazione deve fare i conti con la nuova realtà della crisi che non legittima più l’aspettativa di arricchimento generalizzato. Lo stesso Berlusconi è costretto, in qualche misura, a tenerne conto, e dal registro di sciupa-femmine transvola in quello di morigerato fidanzatino.

 

Per valutare a fondo le implicazioni della mutazione, si dovrebbe abbandonare il luogo comune coltivato a sinistra che Berlusconi sia un’“anomalia italiana”. La sua ideologia e la sua politica rientrano alla perfezione in quelle mondiali promosse a partire dagli ‘80 allo scopo di chiudere il ciclo di compromesso tra capitale e lavoro, inducendo la massa di lavoratori a non considerarsi più classe organizzata in sindacati e partiti, ma individui proprietari che affrontando il mercato, liberi dalle “costrizioni collettive”, avrebbero raggiunto un benessere maggiore di quello strappato con le lotte a padroni e stato. Questa ideologia ha svolto una grande opera di seduzione nei confronti di classi medie, piccoli accumulatori, giovani forniti di “competenze” e, in parte minore, del proletariato, che vi ha aderito più per necessità che per convinzione.

La crisi ha fiaccato la carica seduttiva, e lasciato sul terreno sconcerto, delusione, paura del futuro. Una parte di questi ceti cova una rabbia profonda contro le politiche di austerità, e teme che, prima o poi, vi verrà coinvolta in misura superiore. Berlusconi sta cercando di riprenderne la testa per riorganizzarla in modo da resistere e cercare di ridurre i danni, e, soprattutto, per dirottare il più dei sacrifici sulle spalle del lavoro dipendente. Un’altra parte si va disponendo ad accettare un ridimensionamento delle aspettative di guadagno, ma esige in cambio la creazione di un ambiente in cui avere maggiori opportunità e, quindi, un maggiore riconoscimento sociale nei termini di potere che Grillo interpreta. Allo stato delle cose tra i due settori c’è rilevante distanza, ma il procedere dello scontro e della crisi produrranno molto probabilmente spinte al riavvicinamento. Il problema va al di là dell’individuo-Berlusconi e dell’individuo-Grillo, che in quanto tali possono anche uscire di scena, ma riguarda, appunto, le dinamiche sociali in atto e il loro sviluppo in un quadro generale che, tra tante incertezze, offre una solida certezza: non si tornerà più in una situazione in cui ciascuno possa coltivare l’aspettativa di facile arricchimento.

E le dinamiche sociali ci raccontano di un blocco proprietario che ha tenuto la scena negli ultimi vent’anni, composto da possessori di piccoli capitali investiti nell’industria, nel commercio e nei servizi, in cui è confluito il grosso del “ceto medio” e una parte di possessori di capitale cognitivo, tutti attratti dalla prospettiva di surfare l’onda d’affari tenuta in movimento dall’illimitato crescere del valore degli attivi finanziari, che tutti loro provvedevano ad alimentare, affidandogli i guadagni nella speranza di moltiplicarli velocemente. Questo blocco ha tratto il massimo beneficio dall’affermarsi della globalizzazione e della ideologia del merito misurato dal successo nel mercato, ed ha accompagnato, ricevendone contropartite più o meno reali, l’assalto alle “rigidità anti-mercato” dei lavoratori dipendenti, di coloro che al mercato possono portare solo la nuda forza-lavoro, priva di capitali e competenze particolari. Questi all’inizio hanno provato a resistere, poi hanno progressivamente abbandonato la resistenza, anche perché le organizzazioni sindacali e politiche su cui si fondava la loro forza si sono lasciate fagocitare sempre più nell’ideologia del mercato. Dissoltosi il fronte politico-sindacale del lavoro dipendente, per molti lavoratori l’unica speranza restava quella di adeguarsi al mainstream dell’individuo proprietario o di andare a caccia della vincita a una lotteria (oppure di un figlio al Grande Fratello, una figlia velina o … amante di qualche decrepito riccone).

I colpi della crisi strappano il velo dell’arricchimento facile, ma iniziano a mettere in discussione anche la conservazione dello status raggiunto. Per meglio dire: chi lo ha raggiunto, teme di perderlo; chi possiede le potenzialità per raggiungerlo teme di non riuscire ad agguantarlo. Si percepisce che gli alleati naturali dell’ultimo ventennio (grandi imprese, banche, istituzioni finanziarie e politiche della globalizzazione) hanno diretto il gioco a proprio interesse e ora pensano a salvare solo sé stessi, mandando in malora tutti gli altri. Questo impone una domanda esistenziale: possono i piccoli accumulatori conservare il proprio status, la propria natura, senza o contro grande capitale e grande finanza? In tutta evidenza, no. Da un punto di vista politico non è la prima volta che questi ceti sociali, aggrediti nelle loro speranze di futuro migliore e persino di presente dignitoso, elaborano un’istanza “di potere” per sé o, almeno, di aspirare a condividerlo. Come sempre l’istanza è destinata a rimanere, nel suo obiettivo, frustrata: l’economia capitalista non è mossa dalle competenze, ma dai capitali. Chi li detiene decide quali competenze valorizzare, come valorizzarle e a quali condizioni. Ciò non toglie, tuttavia, che possa prender forma il desiderio di riformarli, ovverossia di ridurne gli appetiti per stornare qualche briciola a proprio vantaggio.

Il desiderio prende le sagome e le parole di Grillo, Berlusconi, e, nel Nord, della Lega. Gli umori raccolti e le classi di provenienza sono analoghi (nel caso della Lega con forte partecipazione operaia), ma le direzioni, al momento, sono diverse. La Lega s’è fatta paladina della piccola imprenditoria e dei lavoratori produttivi del Nord ed ha sempre messo sotto accusa il grande capitale e la grande finanza. Berlusconi è stato a lungo sodale di entrambi, anche se in svariati momenti ne ha preso le distanze per farsi interprete degli interessi dei piccoli capitalisti e degli aspiranti tali. Grillo raccoglie soprattutto le istanze di coloro che non sono neanche dei piccoli capitalisti, ma che sono convinti di detenere le potenzialità per divenirlo o per aspirare a una condizione di ceto medio dignitoso. Di ottenere, insomma, più di quanto abbiano ora. Il problema è che hanno la strada sbarrata da un sistema economico/politico che non è disposto a lasciargli spazi, se non alle sue condizioni, scarsamente appaganti. Da qui deriva il carattere “anti-sistema” (che Berlusconi non ha, o non ha più) diverso da quello che la Lega alleva ancora: non si vuole secedere in una piccola patria al riparo (illusorio) dall’oppressione di grande capitale e grande finanza, ma si vuole contendere a questi il potere, o, almeno, se ne vuole assumere una parte al loro fianco in modo da poterne condizionare le scelte.

L’obiettivo non è di quelli facili. Non si ha a che fare con gentili signori che si lascino convincere con un argomentare forbito. Conoscono solo le ragioni dei rapporti di forza. Per togliergli il potere, anche solo in parte, bisognerebbe scatenargli contro una società intera o quasi. È ciò che Grillo si propone di realizzare. Il suo discorso, infatti, attrae in modo significativo lavoratori cognitari (in quantità crescente dopo le disillusioni dell’individuo proprietario modello Berlusconi), ma, tende a farsi progressivamente discorso generale, sia perché include lavoratori dipendenti, pensionati, donne, e, naturalmente, i piccoli imprenditori (“eroi”, a cui dedica la sua “copertina dell’anno”), sia perché tende ad elaborare un programma che si proponga come alternativa generale, valida per tutti, di sistema, appunto.

Cosa può tenere insieme uno schieramento così composito? Grillo lo esprime con chiarezza (p. e. in un post del 3.1.13 sul suo blog): riconoscersi come “comunità di interessi” contro i “parassiti della Nazione”, politici, grande finanza e grande industria.

Ancora una fusione tra un tema emerso nel movimento “no global” (agire per la comunità e non solo per sé stessi) e un tema che la globalizzazione sembrava aver riposto nell’archivio della storia. Il nazionalismo di Grillo in comune con ogni nazionalismo ha il fatto di essere la logica conclusione di ogni discorso che si dichiara “né di destra, né di sinistra”, ma di diverso rispetto ai nazionalismi propagati oggi (a destra e sinistra) ha il carattere di proporsi come nazionalismo “dal basso”, in diretta polemica con la retorica patriottarda dei Napolitano, Monti, Casini, Bersani e Berlusconi. Se dietro il patriottismo di costoro si celano gli interessi dei “parassiti della Nazione”, occorre un nuovo nazionalismo per salvare la “vera” Nazione, quella costituita dalle genuine forze produttive, scacciando dalla scena i parassiti.

Anche su questo piano si potrebbe fare un raffronto con il leghismo, che Santoro, per altri piani, fa nel suo libro. Lì era la creazione della Padania a evocare il fronte dei produttori contro “Roma ladrona” (che non era solo la capitale politica, ma anche la rappresentante del parassitismo finanziario, della grande industria assistita, ecc.), qui è il salvataggio dell’Italia a richiedere un analogo schieramento.

Nazionalismo dal basso, comunità dei produttori contro i “parassiti della Nazione” che risiedono sul suolo patrio, ma anche contro quelli che ne stanno fuori. Nel delineare un programma a tutto tondo, Grillo, infatti, non tralascia neanche le questioni internazionali. Qui ce ne sono per i “tedeschi” e i “francesi” (le parole, si sa, sono pietre, e non è per caso che si parla di “tedeschi” e “francesi” e non, tanto per dire, delle banche tedesche e francesi) che –sostiene Grillo- hanno insediato Monti per rimandare il rischio di default dell’Italia e potersi, nel frattempo, sbarazzare dei titoli del debito pubblico italiano in loro possesso. Ce ne sono anche per gli Usa che vanno facendo guerre per i loro interessi di potere economico, politico e finanziario, cui la casta italiana (alla quale Grillo contrappone l’argomento “di sinistra” della Costituzione che bandisce la guerra) puntualmente regge la coda “svendendo gli interessi nazionali”. E ci sono abbozzi di politica estera “indipendente” (da Usa, Germania, Francia e GB) nei giudizi positivi sulla tendenza nazional-popolare di alcuni paesi dell’America Latina, sull’Iran, e persino in alcuni attacchi alle politiche d’Israele.

Ancora una volta fusione eclettica di argomenti di “sinistra” e di “destra” per fondare un programma “né di destra, né di sinistra”, e, dunque, “veramente” nazionale e nazionalista.

Ognuno di questi argomenti meriterebbe un approfondimento maggiore di quello che si può fare con semplici chiose a una recensione. Mi limito, però, a una sola ultima domanda: quali prospettive ha il M5S?

La risposta a questa domanda non si può, anzitutto, trovare analizzando le vicende interne al M5S, su cui, però, almeno una cosa va detta. Queste vengono spesso banalizzate con la descrizione di un’accoppiata Grillo-Casaleggio impegnata a impossessarsi delle coscienze e della militanza di migliaia di persone per costruire i propri successi politico-economici. Non è così. Grillo sta cercando, a modo suo, di risolvere un problema che inizia a porsi per tutte le forze politiche e sociali: la questione del partito. Gli ultimi vent’anni di ideologia anti-partito hanno prodotto l’attuale situazione di conflitto politico confusionario, utile per disarticolare gli assetti politico-sociali legati al compromesso capitale-lavoro, ma del tutto inutile in una situazione come quella attuale di accumulazione esplosiva di difficoltà in ogni campo e settore. Nessuna politica che abbia un serio spessore si può attuare se non è sorretta da un’organizzazione compatta, militante, capace di farsene portatrice in tutti i gangli sociali. Berlusconi paga tutte le conseguenze del suo partito leggero capace di attrarre solo affaristi. La Lega paga (in misura minore) la mutazione nelle stesso senso berlusconiano impressa alle sue strutture rappresentative e militanti. Nel centro e a sinistra le difficoltà sono simili, come si vede nell’accozzaglia senza radici solide (sul piano della prospettiva politica generale) che sta raccogliendo Monti, e nei contorcimenti di un Pd sull’orlo continuo dell’esplosione e con la mina-Renzi ormai ben piazzata nel proprio seno, e pronta a deflagrare non appena il Pd manifestasse qualche mal di pancia verso l’agenda-Monti. Per quanto possa sembrare strano, Grillo “l’anti-partito” sta cercando di fare un partito serio, su cui si possa contare nei frangenti difficili. Lo fa partendo dalle sue debolezze: non ha (o non ha ancora) un solido background politico-ideologico-teorico su cui compattare il corpo militante, e, dunque, lo fa nell’unico modo possibile, accentrando su di sé tutte le decisioni importanti, a partire dal tentativo di stretto controllo sulle candidature.

La risposta a quella domanda non si può dare, inoltre, guardando solo alle vicende italiane, ma ponendo un’altra domanda: quante possibilità ci sono che una ventata di nazionalismo si affermi sul piano mondiale? Che è come chiedersi: anomalia italiana o Italia laboratorio per una tendenza più generale?

Se si guarda con attenzione nelle maglie sempre più aggrovigliate della crisi si può vedere che il nazionalismo sta risorgendo un po’ ovunque e va assumendo caratteri progressivamente più aggressivi. Anche Obama è riuscito nel primo mandato a ricostruire le condizioni di un nuovo nazionalismo dalle ceneri del fallimentare nazionalismo bushiano, e, ora, comincia a utilizzarlo in modo assertivo contro la Cina, trattata sempre più alla stregua di un avversario e, in prospettiva, di vero e proprio nemico.

Al crescere del nazionalismo consegue, di regola, l’esplodere di conflitti inter-statuali, che possono prima o poi degenerare in scontro armato generalizzato. Può lo sbocco della crisi attuale essere un nuovo conflitto generalizzato a scala mondiale? Se sì, Grillo è già (inconsapevolmente) sull’onda.

Le condizioni che non si tratti di anomalia italica ma di laboratorio per la costruzione di un “nazionalismo popolare” ci sono. Non c’è bisogno di indagare nella testa di Grillo per cercarne il riscontro (né è detto che sia lui, dopo aver gettato i semi, a raccoglierne i  frutti). Non è lui a produrre la dinamica, tuttalpiù se ne fa interprete. Le forze che si muovono nel sottosuolo hanno una potenza che travalica la sua capacità di elaborazione anche se associata a quella di un Casaleggio. A lui va, piuttosto, il merito di saperle ascoltare, di farsi travolgere dagli umori “dal basso” per raccogliere ovunque, da sinistra e destra, e per indirizzare verso l’azimut per antonomasia “né di sinistra né di destra”: la sacra patria delle genti umili e lavoratrici che rivendicano la dignità contro i parassiti, finendo, per lo più, per divenire massa di manovra nelle mani dei parassiti interni contro quelli esterni e, soprattutto, contro le genti umili e lavoratrici delle altre nazioni.

Questa analisi genera una serie di altre domande: la tendenza è inarrestabile? È irreversibile che i “ceti medi” e il lavoro cognitario debbano essere massa di sostegno a una tendenza del genere? No, in entrambi i casi. La tendenza può essere arrestata dall’emergere di un movimento anti-capitalista e, dunque, internazionale e internazionalista. Lo stesso che potrebbe aiutare i ceti medi e il lavoro cognitario ad impostare su una base diversa la loro resistenza: non più la difesa del proprio status all’interno del sistema capitalistico contro il rischio di proletarizzazione, ma la lotta contro il sistema e, dunque, contro l‘esistenza stessa della condizione proletaria per chiunque.

Per articolare le risposte bisognerebbe, però, esaminare i movimenti delle altre classi e delle altre soggettività sociali e politiche. Occorrerebbe uno spazio eccessivo, e, in ogni caso, un lavoro collettivo di elaborazione e proposta.

 

13.1.13, Nicola Casale

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Annotiamo/sintetizziamo schematicamente alcuni punti del contributo di Nicola che ci sembrano colpire nel segno (e che ci auguriamo possano essere spunto per ulteriori riflessioni/approfondimenti):
 

1- La questione della composizione del Movimento 5 Stelle: quanto è determinante, quanto conta la mancata promozione/avanzamento nella scala sociale di questi strati di ceto medio che si riconoscono così in una ideologia del “merito” (un aspetto che ci sembra anche emergere nel recente contributo di Giuliano Santoro su DinamoPress http://www.dinamopress.it/news/il-grillo-qualunque-e-il-fascismo – dove però non si coglie, ci sembra, l’ambivalenza insita in questa composizione che testé ritroviamo nei 5 Stelle). Una parte del consenso alla lista di Grillo proviene anche da pezzi di classe operaia (come già fu per la Lega Nord). Convincente la lettura sulla fusione tra istanze del fu movimento no global e cultura dell’individualismo proprietario.

2- La questione che Nicola pone della forma-partito (se a qualcuno non piace la formula, si può parlare più estensivamente di “forma organizzativa”). Ci sembra il passaggio più interessante e politicamente produttivo: tutta una serie di arresti, difficoltà, debolezze e limiti del fenomeno-Grillo e del Movimento 5 Stelle fanno emergere la questione irrinunciabile del come (e con quali forme) ci si organizza. Tante critiche da Sinistra si fermano a una critica ideologica (spesso inconsapevole) che riproduce il ritornello liberale: l’orrore per il populismo, la mancanza di democrazia interna,  …etc. Cacciata dalla finestra come residuo mostruoso del Novecento, l’urgenza di una teoria (e pratica) dell’organizzazione si ripresenta oggi in tutta la sua urgenza: efficacia, potenza, velocità di risposta… ma anche dibattuito interno, circolarità tra ‘alto’ e ‘basso’, traduzione politica tra i ‘livelli’ (su questo il M5S è – per ora – un vero disastro!).

3- La dimensione nazional-popolare (finanche nazionalista) del Movimento 5 Stelle e il suo collocarsi “oltre la Destra e la Sinistra”. Una dimensione che si riversa bene nella vulgata anti-eurpeista – meno, ci sembra, sul rischio di foraggiare sentimenti belligeranti (vedi le posizioni nette su F35 e spese militari) – e nelle dichiarazioni sull’immigrazione. Si potrebbe forse parlare di una sorta di ‘peronismo’  senza l’elemento militare. 

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Su questi punti, segnaliamo anche questa lettera di un’attivista grillina postata su un sito femminista: http://abbattoimuri.wordpress.com/2013/01/16/grillini-siamo-la-gente-e-il-potere-ci-teme/#more-1243 (leggere in particolare l’ultima parte della lettera).

da Infoaut

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