ROVESCIARE IL TAVOLO! UNIONE SINDACALE di BASE I° CONGRESSO NAZIONALE
DOCUMENTO CONGRESSUALE DELLA CONFEDERAZIONE USB
Rovesciare il tavolo! è la parola d’ordine che vogliamo lanciare con il nostro primo congresso dell’Unione Sindacale di Base. Una parola d’ordine che deve guidare la nostra iniziativa e che vuole dire praticare il conflitto sindacale e sociale, in ogni occasione questo si renda necessario, per attivare o proseguire un percorso di trasformazione. Il conflitto invocato e non agito fa male al concetto stesso di conflitto, inteso come strumento di regolazione degli interessi di classe. Troppo spesso intorno a noi sentiamo invocare il conflitto, troppo spesso questa rimane soltanto una invocazione. A noi costruire le condizioni affinché la nostra parola d’ordine congressuale divenga cultura di massa, condivisa e praticata.
La USB c’è, esiste e si è fortemente rafforzata
Questo risultato, quando è iniziata 3 anni fa la costruzione della nuova confederazione sindacale, non era affatto scontato. Molte erano le forze che remavano contro la prospettiva che si affermasse in Italia un soggetto sindacale nuovo, aperto, conflittuale e di classe. Le resistenze alla nostra crescita non erano solo di parte padronale e non provenivano solo dagli apparati sindacali tradizionali.
Anche nel variegato mondo del sindacalismo di base e alternativo, nonostante si sia cercato di coinvolgerlo tutto nel percorso di costruzione di USB, si è in più occasioni, e da più parti, lavorato affinché la spinta, che pure esisteva, a tessere una relazione con la nascente nuova confederalità, non trovasse spazi e aperture. Insomma abbiamo lavorato dentro diffidenze, paure, antagonismi di bandiera, personalismi di organizzazione. Eppure oggi USB è una realtà. Non solo è una realtà, ma è divenuto un punto ineludibile del confronto per tutti quanti oggi vogliono produrre e organizzare conflitto.
Ci siamo collocati al centro dell’antagonismo di classe. Ciò è avvenuto in parte per merito nostro e in parte perché, purtroppo, nel nostro paese non esistono strutture sociali, sindacali e politiche adeguate a proporsi come centro aggregatore sul piano sociale e sindacale. Questa nostra capacità di essere diventati un punto di riferimento per molti soggetti, singoli e strutture, ci ha via via imposto un piano di azione e di relazioni che hanno sedimentato nuovi ambiti di lavoro e spazi di confronto che si sono rivelati estremamente utili per la crescita della nostra funzione.
Il Patto federativo tra l’USB lavoro Privato e lo SNATER è stata uno di questi. La ri-nascita del Forum Diritti/Lavoro, il suo ampliarsi alla partecipazione di tanti giuristi, giuslavoristi, tecnici del lavoro e del diritto ma soprattutto l’ingresso, nel Forum, delle compagne e dei compagni della Rete 28 Aprile in Cgil e il loro contributo al lavoro di analisi e di intervento sulla quanto mai attuale questione del diritto e del lavoro, sono forse gli esempi più evidenti di questa nostra nuova capacità di promuovere un percorso unitario.
La vicenda ILVA, la nascita della struttura in quella azienda martoriata dagli spiriti animali del capitale e dalla corruzione politico/sindacale e il ruolo importantissimo che ha immediatamente cominciato a svolgere, la capacità di costruire momenti di forte visibilità delle nostre lotte contro le esternalizzazioni e il precariato come avvenuto a Torino con Ken Loach, la nostra determinante partecipazione alle grandi manifestazioni indette dal COMITATO NO DEBITO prima e del NO MONTI DAY dopo, la crescita esponenziale delle strutture sindacali/sociali sul terreno del diritto all’abitare, del diritto al reddito e le mille iniziative di lotta che quotidianamente costruiamo in tutto il Paese, dai trasporti al pubblico impiego, dalle fabbriche al mondo del commercio, del precariato, dell’immigrazione e della disoccupazione ci raccontano di un sindacato vivo, che sta dentro la contraddizione di classe, che è capace di assumere funzione determinante per la crescita del conflitto.
Ovviamente tutto ciò non è sufficiente ad immaginare che si è già costruito e definito il sindacato che serve. Non abbiamo alcuna necessità di incensamenti autoreferenziali, abbiamo invece la necessità di capire se quanto abbiamo costruito finora ha avuto o meno un buon esito, se e come bisogna modificare, per migliorarle, le nostre modalità di lavoro e di intervento, se la struttura organizzativa che ci siamo dati risponde alle esigenze che ci pone la fase. Ciò che ci ha sempre contraddistinto è stata la caparbietà di fare sempre i conti con la realtà concreta in cui siamo immersi, per costruire collettivamente gli strumenti adeguati ad affrontarla. Il I° Congresso della USB deve servire quindi non solo a darci coscienza compiuta del nostro essere, a tre anni dalla fondazione del nostro sindacato, ma a fornirci gli strumenti politici e organizzativi per far crescere un’ipotesi sindacale di classe, coinvolgente, dentro una condizione politica e sociale particolarmente difficile.
Come e dove si colloca il congresso
Celebriamo questo nostro congresso dentro una delle crisi più difficili e durature che le nostre generazioni possano ricordare. Abbiamo considerato, già dall’inizio, questa crisi sistemica e non congiunturale. Una crisi che viene da molto lontano e che si è via via mostrata attraverso vari volti, economica, finanziaria, speculativa, di nuovo economica e che si concretizza in crisi sociale, profonda e cattiva e di cui nessuno è in grado di prevedere la fine.
Stiamo vivendo gli effetti della finanziarizzazione dell’economia, quella fase cioè in cui il capitale ha riversato i propri utili e i propri appetiti sul mercato finanziario-immobiliare-speculativo alla ricerca di profitti facili, che ci sono stati e sono stati per loro enormi, sottraendo risorse alla formazione, allo sviluppo industriale, al miglioramento dell’ambiente, al miglioramento delle condizioni di lavoro. L’esplodere della bolla speculativa sul mercato immobiliare e su quello dei subprime hanno ora indotto il capitale ad orientare la propria ricerca di profitto intensificando la compressione dei salari, dei diritti, delle condizioni di vita, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente.
Contestualmente riesplode il più classico metodo usato dal capitale per uscire dalle crisi, l’uso della guerra, del conflitto tra gli stati e le religioni, degli scontri etnici, l’accaparramento delle terre in molti paesi del Sud tra cui l’Africa da parte di multinazionali, a spianare la strada ad un neo colonialismo di natura economica, oltre che politica, di cui sono protagonisti i paesi sviluppati e le nuove potenze emergenti. L’accelerazione della corsa ad accaparrarsi le materie prime, le risorse energetiche, l’acqua, elementi in via di rarefazione e tuttavia necessari al dominante modello di sviluppo capitalistico ne rappresenta un esempio evidente.
Si affaccia una nuova epoca di schiavitù al capitale. Le conquiste che il movimento operaio e di classe erano riuscite ad ottenere nel ‘900, in particolare dal secondo dopoguerra in poi, sono sotto attacco e vengono indicate come responsabili principali delle condizioni in cui versa l’economia del Paese. C’è in corso una battaglia violentissima tra lavoro e capitale che sembra volgere a favore di quest’ultimo. Ogni risorsa disponibile viene drenata per far fronte alle perdite del sistema bancario e speculativo. Il debito del nostro paese ha superato recentemente i 2000 miliardi di euro, record storico, proprio perché il governo dei “tecnici” guidato dall’uomo del Club Bilderberg, di Goldman Sachs e della BCE Mario Monti ha fatto affluire i risparmi ottenuti attraverso una politica di lacrime e sangue, nelle casseforti delle banche italiane ed europee.
Siamo quindi continuamente chiamati a pagare un debito che solo marginalmente è dovuto a noi ma che per la gran parte è cresciuto per i trasferimenti statali alle imprese e al sistema bancario/finanziario. La disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi arrivando ad interessare, stime ufficiali e pertanto come spesso accade tendenti al ribasso, l’11% della popolazione adulta e ben il 33% di quella giovanile con punte superiori al 50% nel mezzogiorno. La cassa integrazione nel 2012 ha raggiunto l’astronomica cifra di 1 miliardo di ore erogate dall’Inps, è crollato il mercato immobiliare per l’indisponibilità delle banche a “rischiare” il proprio denaro (in verità il nostro, visto i copiosi trasferimenti pubblici) per concedere mutui. Mentre i dati sulla corruzione ammontano a oltre 60 miliardi annui, decine di migliaia di famiglie hanno perso o stanno per perdere la propria abitazione a causa degli affitti astronomici o dell’impossibilità a continuare a pagare i mutui in presenza di perdita del posto di lavoro.
C’è una intera generazione in balia degli interessi del mercato che gioca con il loro presente e allontana sempre di più la speranza nel futuro. Intanto il sistema bancario interno ed internazionale riprende fiato grazie agli enormi trasferimenti di danaro che i singoli stati e la Banca Centrale Europea hanno fatto loro, in Italia il 10% della popolazione possiede oltre il 50% della ricchezza e il potere di acquisto dei salari è crollato in un solo anno del 4,5%. A ben vedere la crisi ha prodotto un trasferimento di ricchezza dal fattore lavoro al fattore capitale come non si vedeva da decenni.
La perdita di sovranità degli stati membri dell’Unione Europea a favore di quest’ultima ha prodotto un ingigantimento delle conseguenze della crisi.
L’Unione Europea, sventolata come lo strumento di affratellamento dei popoli e rafforzamento delle economie dei Paesi che entravano a farne parte, ha gettato la maschera. La nascita dell’Unione, l’avvento dell’euro, la costituzione di un complesso industriale e militare europeo, i trattati che definiscono la riorganizzazione interna sono tutti strumenti utili a divenire una potenza nel panorama internazionale, capace di giocare un proprio ruolo nella competizione globale.
Si tratta di uno strumento in mano alle classi dominanti , in particolare della Francia e della Germania, ma non solo, per determinare una nuova egemonia che obbliga i paesi più deboli ad una fortissima contrazione del costo della forza lavoro, per ridefinire la divisione internazionale del lavoro anche attribuendo compiti sussidiari ai paesi del sud Europa (turismo, servizi al sistema produttivo dell’Unione ecc.), accompagnata da una crescita sempre più forte del peso delle multinazionali europee – il cui fatturato dopo il 2008 ha superato quello delle multinazionali statunitensi – proiettate alla conquista di mercati esteri.
Se questo è il progetto sul piano Europeo, su quello internazionale l’Unione Europea si candida a partecipare alla competizione inter-imperialistica in corso sempre più violenta sul piano economico e su quello militare. Sul piano economico proponendosi attraverso l’euro come alternativa agli USA e al dollaro.
Sul piano militare discostandosi abbastanza radicalmente dalla dottrina statunitense, arrivando addirittura a mettere in crisi il ruolo della NATO come si era definito dopo l’implosione dell’URSS, che era quello proprio di impedire che l’UE divenisse competitiva sul piano politico e militare. Un primo assaggio della nuova collocazione europea nello scacchiere internazionale è stato dato dall’intervento in Libia, che è stato gestito direttamente da alcuni Stati nazionali ma invoca la necessità di avere un esercito europeo e, quindi, nelle prossime occasioni, un intervento militare europeo.
Lo stato del movimento dei lavoratori in Italia e la funzione di CGIL CISL UIL
Il punto più alto della crisi ha trovato la classe completamente scompaginata. Vent’anni di concertazione e di dialogo sociale hanno talmente piegato il movimento dei lavoratori italiano da renderlo incapace a dare risposte anche minimamente adeguate all’attacco portato dal capitale.
Le politiche delle confederazioni concertative, di condivisione e accompagnamento delle scelte di riorganizzazione produttiva operate dai governi per conto degli interessi del capitale finanziario, speculativo ed imprenditoriale non solo hanno disarmato la classe dai propri strumenti di resistenza, ma hanno prodotto una vera e propria involuzione della coscienza, che la classe aveva storicamente mantenuto, della propria funzione e forza e che era stata lo strumento attraverso cui aveva condotto le lotte e vinto le battaglie del ‘900. Non sono ovviamente solo le organizzazioni sociali ad essere responsabili dello scompaginamento del mondo del lavoro e del tessuto sociale che ad esso fa riferimento.
Anche le scelte subordinate e strumentalmente a-ideologiche operate dalle forze politiche che si definiscono progressiste, hanno contribuito non poco all’immiserimento della capacità di dare una lettura di classe agli avvenimenti politici interni ed internazionali, conducendo pian piano il mondo del lavoro, il movimento operaio ad assumere lo stesso punto di vista di chi li sfrutta. Insomma quelle che dovevano essere, e che per un buon lasso di tempo sono in parte state, le forze del cambiamento e della trasformazione sociale, si sono accomodate nel ruolo di accompagnatori ideologici degli interessi del capitale, contribuendo a smontare pezzo a pezzo quella cultura operaia, quella coscienza di se e dei propri interessi che la classe aveva sviluppato nei secoli precedenti: un’operazione scientifica, studiata a tavolino e condotta con maniacale brutalità attraverso tutti i media per imporre la lente di lettura dell’avversario di classe.
Portatori di questa devastante cultura tra il mondo del lavoro sono state in particolare CISL e UIL che hanno fatto proprio l’appello dell’ex ministro Sacconi a divenire “complici” delle scelte del mercato. Anche la CGIL, pur se con atteggiamenti ondivaghi, ha condiviso comunque lo stesso percorso di subalternità al mercato rendendo esplicita la propria crisi di funzione. Il suo apparato burocratico formato da migliaia e migliaia di quadri e funzionari è ormai da tempo impegnato più a garantire la propria sopravvivenza, e a tornare ad essere considerato un interlocutore affidabile, che a sviluppare politiche di reale tutela degli interessi di classe.
Oggi il sindacato ex concertativo – ex perché la concertazione è ormai ritenuta insufficiente e non perché sia stata sconfitta dal movimento conflittuale – si configura come un vero e proprio ammortizzatore delle contraddizioni che la crisi ingigantisce. La difesa dell’Unione Europea e delle sue scelte di fondo, la condivisione aprioristica o quasi, dell’interpretazione nazionale delle scelte sovranazionali, il guardare dall’altra parte mentre si sottrae sovranità al nostro e agli altri Paesi europei in nome di un’Europa che si fa soggetto della competizione economica internazionale dicono esplicitamente della sua irrecuperabilità.
Il nostro giudizio politico sulla Cgil lo abbiamo espresso da tempo e non riteniamo utile tornarci sopra, se non per affermare, senza alcuna remora, che ci troviamo di fronte ad una organizzazione che ha definitivamente mutato il proprio codice genetico e che sta cercando di farlo mutare anche ai suoi rappresentati.
Certo nella Cgil convivono anche soggettività e aree che si distinguono, chi meno chi più, dalla politica generale di quella organizzazione. Per quanto riguarda la Fiom ci sembra di poter dire che il risultato non cambia molto. Ad una rappresentazione “di sinistra”, in realtà corrisponde una contiguità con Fim e Uilm nelle politiche aziendali oltre ad una indisponibilità a dare un giudizio definitivo sulla natura della propria confederazione, e soprattutto una tendenza a farsi soggetto politico che cela, dietro un falso e deteriore movimentismo, una grande attenzione al proprio futuro di sindacato “riconosciuto”, soprattutto per quanto riguarda la sua funzione sindacale in categoria che la sta riportando rapidamente sotto le ali protettrici della Camusso.
Diverso è il nostro giudizio sulla funzione che sta avendo la Rete 28 aprile sia all’interno della confederazione che sul piano politico generale. Ad una difficoltà obbiettiva a trascinare il corpaccione della Cgil su un piano sindacale e politico più rispondente alle esigenze di classe, corrisponde però una accresciuta disponibilità a mettersi in gioco per contribuire a costruire un’area sindacale di classe che superi le appartenenze e si affermi come alternativa possibile e credibile. L’adesione di questa area al Forum Diritti/Lavoro di cui siamo stati promotori prima come RdB negli anni ‘90 ed oggi come USB nella sua nuova dimensione, è un segnale inequivocabile della disponibilità ad un percorso attivo di condivisione del conflitto. La riteniamo una risorsa da coltivare e con cui stringere relazioni sempre più profonde ed utili.
La crisi oggettiva di funzione del sindacalismo di base
Ma se questo è il panorama che si intravvede nel non molto variegato mondo confederale storico, non molto più entusiasmante è ciò che si intuisce nel mondo, questo si variegato, del sindacalismo di base. Quel progetto, quell’intuizione, cui peraltro abbiamo tutti partecipato, ha pressoché esaurito la propria spinta propulsiva. Non è questione che riguarda gli uomini e le donne che pure hanno dedicato generosamente una parte consistente del proprio agire politico e della propria vita a tenere assieme queste esperienze, è questione che riguarda la trasformazione produttiva, gli effetti che questa ha avuto sulla classe, la modifica importante della legislazione sul lavoro, l’aggressione ai diritti individuali e collettivi, la modificazione delle forme di lavoro.
Tutto ciò ha reso pressoché impraticabile ed ininfluente la pratica dell’autorganizzazione sui luoghi di lavoro e/o nelle categorie, grandi o piccole che siano, che era stata la parola d’ordine/modalità di azione che il sindacalismo di base aveva utilizzato per rispondere all’esigenza sacrosanta di restituire protagonismo diretto e voce ai lavoratori e alle lavoratrici. Le pratiche di conflitto aziendale/categoriale si vanno riducendo al minimo. Questo avviene non solo perché è sempre più difficile metter riparo, a livello aziendale o di settore, ai disastri prodotti dalla nuova legislazione sul lavoro e dai contratti – quando e se vengono rinnovati – e questo viene percepito come un limite evidente dell’azione dai lavoratori e dalle lavoratrici, ma anche perché si è fatto più pesante e visibile l’uso della repressione nei confronti di chi si espone nella lotta senza una adeguata copertura sindacale.
Il dato però di cui bisogna prendere atto è che oggi il conflitto, quando si esprime, si esprime solo a livello organizzato, che la spontaneità della lotte si realizza con molta più difficoltà di prima, che la percezione dominante è che non ci siano forze sufficienti ad impedire il disastro.
La mancanza pressoché totale di reazione alla crisi, ai provvedimenti del governo, al blocco della contrattazione collettiva sono li a testimoniarlo. Le cronache internazionali ci parlano ogni giorno di forti e duri conflitti generali di contrasto alla crisi e alle scelte dei governi, di milioni di persone in lotta per difendere il proprio presente e procurarsi un futuro. In Italia questo non è successo perché nessuno aveva la sufficiente credibilità per innescare processi analoghi. O il sindacalismo di base si trasforma, assumendosi la responsabilità di indicare, attraverso il conflitto, la strada della riorganizzazione della classe intorno ai suoi interessi o si deciderà tutti di darci una dimensione più ampia, generale, aperta ed inclusiva anche di quel pezzo di società che non incontra più il sindacato nei luoghi di lavoro, anche semplicemente perché quel luogo per lui non esiste, oppure la conclusione di un ciclo pure entusiasmante sarà inevitabile.
Rafforzare la nostra identità
Una condizione sindacale simile è senz’altro anche figlia della difficoltà dei lavoratori e delle lavoratrici – e spesso anche dei nostri quadri sindacali – ad avere un punto di vista di classe su quanto gli avviene attorno. Da alcuni mesi è ripreso quel percorso di formazione politico/sindacale che prima della nascita di USB aveva interessato in particolare un pezzo dell’organizzazione e che aveva consentito una crescita apprezzabile della qualità del nostro quadro militante.
Seppure con qualche ritardo, dovuto soprattutto alla sottovalutazione del nostro quadro dirigente, attraverso il rafforzamento, ancora in verità insufficiente, del Centro studi, si è riavviato il percorso formativo nei territori. Ciò sta producendo un interessante ed inedito fenomeno di avvicinamento ai momenti formativi da parte di molti nostri iscritti giovani, che si sono dimostrati interessati e disponibili a partecipare a livelli di accrescimento della propria comprensione e lettura dei fenomeni politici.
Questo dimostra che è possibile e praticabile, a partire dall’USB, provare ad invertire la tendenza in atto alla de-ideologizzazione e all’assorbimento acritico delle posizioni dell’avversario. Rafforzare ed estendere i percorsi politico/formativi e renderli permanenti, costruire l’altra gamba della formazione, cioè la strumentazione sindacale indispensabile ad ogni operatore sindacale, sono priorità che devono essere fatte proprie da tutto il quadro dirigente e da tutte le strutture, sia categoriali che territoriali.
Tenere il passo
Se la crisi ha prodotto profonde modificazioni nell’assetto delle norme in materia di lavoro e soprattutto la ridefinizione degli assetti su cui per molti decenni ci eravamo basati nella nostra lettura delle relazioni sociali, è molto probabile che un tale quadro sia destinato a mutare ulteriormente nel prossimo futuro.
La velocizzazione dei processi di scomposizione e ricomposizione delle contraddizioni e delle conseguenti scelte operative ci interrogano sulla adeguatezza del nostro impianto organizzativo/decisionale. La classica metodica secondo cui un’organizzazione sindacale va a congresso ogni tot anni e in quell’occasione ridefinisce il piano strategico e la struttura organizzata sembra non essere più adeguata a rispondere a trasformazioni velocissime che ci riguardano da vicino. La prontezza nel rispondere adeguando l’organizzazione alle modificazioni strutturali potrebbe rivelarsi determinante. E’ necessario prevedere momenti intermedi di confronto politico organizzativo, tra un congresso e l’altro, che abbiano “poteri” para congressuali – da definire con accortezza e parsimonia – e che ci consentano di mettere riparo con il necessario tempismo ad eventuali cambiamenti strutturali di scenario politico/sindacale e ad adeguare la nostra struttura organizzativa.
Ma questa nostra disponibilità ad individuare strumenti nuovi di lavoro e confronto, che non sostituiscono nè esautorano quelli che ci affida lo statuto e la nostra storia, necessita di una organizzazione interna comunque più solida e strutturata di quella che abbiamo saputo costruire finora. Va detto, ad onor del vero, che quando c’è stato bisogno dell’USB, questa ha risposto sempre alle aspettative. Siamo stati chiamati in più occasioni a reggere il peso di iniziative di lotta e/o di manifestazioni che hanno gravato praticamente solo sulle nostre spalle e lo abbiamo sempre fatto egregiamente. Segno questo che la struttura esiste, è solida e tiene.
Quello che però emerge è la difficoltà ad avere un’organizzazione che, stabilito un progetto di lavoro, lo fa proprio dalla Sardegna al Trentino. In più occasioni ci siamo trovati di fronte a scelte soggettive di territori che hanno perseguito progetti e iniziative in assoluta autonomia dalle scelte politiche assunte tutti insieme negli organismi nazionali. Ben vengano queste iniziative se sono di accompagno a quelle decise collettivamente, non va invece bene che vengano assunte in alternativa a quelle dell’organizzazione. Questi fatti mettono in evidenza la scarsa continuità della nostra discussione interna.
La partecipazione agli organismi statutari dovrebbe essere il tramite per la comunicazione, in entrata e in uscita, tra le strutture territoriali e categoriali con le strutture politiche generali dell’organizzazione. Dovrebbe cioè avvenire che chi partecipa alle riunioni degli organismi, preventivamente e successivamente, si relazioni con il nostro quadro dirigente in modo tale che la discussione possa essere condivisa nella maniera più larga ed approfondita.
Gli organismi dirigenti che abbiamo costituito con il congresso fondativo rispecchiavano, anche se non proporzionalmente, le appartenenze di provenienza. Ciò ha accresciuto le difficoltà nella discussione e nei passaggi formali. Si è più volte anche verificata la scarsa partecipazione agli organismi di chi ne era chiamato a far parte e ciò ha prodotto ritardi nelle decisioni e nella comunicazione interna. Un quadro statutario più snello e più motivato potrebbe senz’altro contribuire a far migliorare questa situazione.
Il sindacato che serve
La questione della nostra capacità organizzativa è anche strettamente legata al quadro che stiamo vivendo e che sembra destinato a peggiorare. L’avversario di classe non fa sconti e si sta organizzando per non fare prigionieri. La vicenda Fiat/Fiom/sindacati di base ne è una dimostrazione plastica. Secondo Marchionne chi non mantiene un atteggiamento comprensivo delle esigenze del capitale e quindi non si acconcia ad essere complice delle scelte strategiche dei padroni è fuori da ogni possibilità di rappresentare i lavoratori e le lavoratrici nelle istanze di confronto pure previste dalla legge. Se perfino la Fiom, che rivoluzionaria non è mai stata, viene cacciata dalle fabbriche Fiat, i suoi aderenti messi in cassa integrazione o nelle liste di mobilità o vengono licenziati, vuol dire proprio che è cambiata definitivamente l’aria e che, a meno di un forte capovolgimento, chiunque governi, difficilmente si faranno sostanziali passi indietro.
La dottrina Marchionne fa proseliti, l’accordo sulla produttività è esigibile e già in alcuni contratti rinnovati sono state introdotte le norme previste in quell’accordo. Non c’è all’orizzonte solo la cacciata dalle fabbriche e dagli uffici dei sindacati non consenzienti. C’è l’idea di destrutturare complessivamente le relazioni industriali, di rendere inutilizzabile lo strumento sindacale e quindi di lasciare ogni lavoratore da solo alle prese con la propria storia lavorativa. La contrattazione è ormai azzerata nei fatti. Come ben sappiamo il sindacato è forte e contratta quando c’è di che contrattare e conquistare, ed è invece quanto mai debole in fase di crisi produttiva o economica se non si attaccano in profondità le cause strutturali della crisi stessa.
Un esempio di quanto affermiamo è dato dal modo con cui viene affrontata la questione della precarietà. La trasformazione della legislazione del lavoro, avviata ormai da circa venti anni, è andata via via producendo un vero e proprio sconquasso epocale che riguarda principalmente i giovani, ma che comincia ad essere un serio problema anche per quelli che giovani non sono più. La precarietà viene affrontata dal sindacato concertativo in termini di mera riduzione del danno; non si mette cioè in discussione l’impianto che vuole completamente destrutturato il concetto di lavoro a tempo indeterminato, buono e di qualità per far posto ad un lavoro ricattabile, senza qualità e senza garanzia del futuro. Al massimo si contestano gli eccessi di applicazione delle varie normative che si sono succedute e che sono state costruite, in maniera assolutamente bipartisan dai governi di centro destra, centro sinistra e dei tecnici. Il futuro e il presente di milioni di persone, lasciate sole di fronte ai padroni e ad una legislazione del lavoro che, con l’ultima riforma Fornero, è ormai definitivamente volta a garantire la massimizzazione del profitto, non è un problema per il sindacato concertativo che tuttalpiù prova a contenerli in specifiche associazioni, quasi fossero estranei alla vita delle categorie in cui pure sono occupati.
La differenza profonda tra un sindacato concertativo, o complice, e un sindacato conflittuale e di classe sta anche nel come viene affrontato, se viene affrontato, lo scontro in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo. Nei confronti dell’ “istituzione” sindacato viene utilizzata la stessa offensiva violenta in corso verso la politica che prova a dipingere anche il sindacato come una componente della casta. Obbiettivamente i sindacati – e i sindacalisti – concertativi spesso hanno dinamiche molto simili a quelle che hanno pesantemente coinvolto la politica, ma c’è al fondo la volontà di fare del sindacato italiano la copia sbiadita dei sindacati tedeschi o statunitensi, la cui funzione principe è quella di accompagnare supinamente, avendone in cambio benefici provenienti dalla gestione di svariate attività collaterali, gli interessi d’impresa.
Intanto diventa sempre meno compresa la funzione del sindacato generale, che pure è l’unico che oggi serve davvero. La pratica della concertazione prima e quella della complicità poi hanno fatto passare il concetto che il sindacato non serve a nulla perché non è in grado di cambiare le politiche generali. Noi sappiamo che questo avviene perché questi sindacati non hanno alcun interesse a cambiare davvero le politiche in corso di attacco al lavoro. Il rischio è che anche noi possiamo essere travolti da questo giudizio di complessiva inutilità che sta facendosi strada nei confronti dell’istituzione sindacato. Fino ad oggi la nostra internità ai posti di lavoro, i conflitti che abbiamo alimentato dentro e fuori le aziende e gli uffici, sul territorio, la nostra determinazione a trasformare il conflitto da particolare a generale ci hanno consentito di mantenere inalterata la considerazione sulla nostra organizzazione. Senza la pratica del conflitto saremmo destinati ad essere ben presto accomunati alle altre organizzazioni sindacali. E’ quindi necessario che tutte le nostre strutture abbiano bene in mente la pratica del conflitto come chiave per mantenere e far crescere il rapporto di massa e la stima nei nostri confronti.
Il sindacato metropolitano: a che punto siamo
Se il quadro di difficoltà nelle fabbriche e negli uffici è evidente e lo viviamo in prima persona ogni giorno, sembra invece trovare nuovi consensi ed adesioni la nostra intuizione di avviare il percorso di costruzione del sindacato metropolitano/confederalità sociale. L’idea che oggi il sindacato si debba porre il problema della relazione con quei settori della società e del mondo del lavoro che non hanno possibilità di incontrare il sindacato perché sono fuori dai “circuiti” in cui il sindacato opera, è sempre più un’idea da approfondire e realizzare.
Abbiamo detto più volte e lo sperimentiamo quotidianamente nel nostro lavoro, che ormai un esercito sempre più consistente di cittadini/lavoratori sono assolutamente impermeabili alle metodiche di lavoro classiche del sindacato: la contrattazione non li riguarda, non sono interessati ai fringe benefits o al welfare aziendale, non possono reclamare aumenti di salario o migliori condizioni di lavoro. La loro condizione è quella di disoccupati, di senza reddito, di precari, di cassaintegrati verso la mobilità, di migranti, e quindi anche di nuovi o vecchi poveri che non possono più pagarsi un affitto, continuare a pagare un mutuo o bollette sempre più onerose, sono i perseguitati da Equitalia e dai comuni, sono gli inquilini cui viene venduta la casa in cui abitano da decenni a prezzi esorbitanti a cui non possono far fronte, sono i senza casa.
Questi soggetti non abitano né le fabbriche né gli uffici, non li incrociamo a mensa né durante la pausa o nei corridoi, questi vivono ed abitano il territorio ed è lì che dovremmo sforzarci di incontrarli. Da quando l’USB ha aperto la riflessione su questa nuova prospettiva di lavoro, si sono realizzate delle sperimentazioni ancora limitate ma decisamente interessanti che però ancora non ci danno indicazioni definitive sul come operare in concreto.
La relazione che si è intessuta a Roma con i Blocchi Precari Metropolitani, l’allargamento dell’ AS.I.A. in molte città dove prima non era presente, grazie alla relazione con pezzi di iniziativa sociale o grazie all’impegno di nostre compagne e compagni che si sono messi a lavorare in questa direzione, la storica relazione napoletana con le parti più disponibili del movimento dei disoccupati, il consolidamento e la crescita della struttura dedicata ai migranti, i primi approcci con gli studenti sono tutte sperimentazioni importanti ed utili che vanno analizzate, verificate e quindi generalizzate. Il dato principale che emerge da queste prime sperimentazioni è che non si costruiscono relazioni, non si mettono in piedi lotte e conflitti se non crescono soggettività e collettivi capaci di leggere il territorio, le sue trasformazioni, di porsi sul terreno di una nuovo sindacalismo “di strada” capace di far lievitare coscienza e lotta, di rendere di interesse collettivo e di collegare le nostre lotte nei luoghi di lavoro con quelle nel territorio.
Una simile scelta necessita di un cambio di passo. Se è indispensabile mantenere inalterata, ed anzi va rafforzata, la nostra capacità di intervento nei luoghi di lavoro, praticando e rilanciando il conflitto, aumentando le adesioni al nostro sindacato, continuando ad essere un punto di riferimento indispensabile per le lotte in fabbrica, nelle aziende e negli uffici e quindi non facendo alcun passo indietro sul piano sindacale classico, è però necessario mettere grande attenzione e risorse al progetto della confederalità sociale. Le nostre sedi devono essere in grado di offrire spazi di aggregazione, di confronto e soprattutto di organizzazione delle lotte ai soggetti della nuova composizione di classe. Devono essere il luogo in cui si mettono in relazione le lotte e le mobilitazioni del sindacato con le esigenze di conflitto che vengono dal territorio.
Devono diventare zone ad alta contaminazione sociale.
E’ evidente che tutto ciò avviene se questa scelta diventa una scelta collettiva, di tutta l’organizzazione che non guarda questa parte del lavoro sindacale come “diversa” dal proprio lavoro e/o che riguarda chi ci lavora e ci suda sopra, ma come un pezzo della nostra confederalità complessiva. La battaglia per la scomparsa della precarietà è battaglia di tutti, di chi ha i precari nella propria azienda e di chi prova ad organizzarli sul territorio, la lotta contro la chiusura degli ospedali è lotta di chi vi lavora e dei cittadini che se ne servono, le occupazioni della case e degli immobili sfitti non riguardano i senza casa, gli sfrattati, i migranti ma tutti coloro che abitano e vivono le città e il territorio e si battono contro la speculazione e la devastazione del suolo, la battaglia per trasporti pubblici funzionali, sicuri e a costi socialmente accettabili non è solo di chi ci lavora ma anche dei cittadini che li utilizzano.
E’ evidente che la nostra scommessa riesce se ci mettiamo in gioco davvero e se su questo piano di lavoro oltre a dedicare nostre energie e forze, siamo capaci di avviare relazioni e confronti con quanto sui nostri territori si muove nella stessa direzione. Abbiamo tenuto un primo seminario sulla confederalità sociale, nel corso del 2011, che ci ha fornito alcuni spunti preziosi di analisi e di approfondimento utili ad una sintesi politica mentre rimane ancora aperto il problema di quali possano essere le forme organizzative di quest’intervento, essendo ancora in una fase decisamente sperimentale.
Un sindacato meticcio
Al congresso di nascita dell’USB nel 2010, abbiamo detto che l’organizzazione e la crescita del protagonismo dei migranti nel processo del nuovo soggetto sindacale saranno un banco di verifica della stessa capacità del nostro progetto di sindacato generale. la presenza sempre più diffusa di cittadini/lavoratori migranti ha portato con se l’esigenza di organizzarsi con noi, insieme ai bisogni di un qualsiasi cittadino riguardante il diritto all’abitare, allo studio, alla salute, alla formazione, ecc. anche in quanto lavoratori. Persone che, oltre alle specificità relative allo “status”di migranti/ richiedenti asilo – dalla libertà di circolazione alla cittadinanza di residenza in particolare per i bambini nati in Italia -, esprimono bisogni e rivendicazioni del cittadino comune nei vari aspetti della società.
A tale proposito, se alcuni anni fa la questione migrantesi declinava in Italia su due questioni prevalenti, ovvero la lotta contro i razzismi e la rivendicazione del permesso di soggiorno, oggi viviamo una fase completamente diversa. Oltre al tema del permesso di soggiorno subordinato al contratto di lavoro, che continua ad essere una preoccupazione per la maggioranza della popolazione migrante in particolar modo in questo periodo di crisi economica e finanziaria, insieme ai razzismi, la questione migrante propone argomenti e bisogni che riguardano ormai l’organizzazione della società nel suo insieme. In breve la partecipazione attiva nelle scelte che riguardano la società nei suoi vari aspetti anche attraverso il diritto di voto attivo/passivo.
Volendo sintetizzare, possiamo affermare che i migranti sono entrati a far parte in modo stabile della componente più disagiata, povera e precaria della popolazione e che le contraddizioni che vivono sono ormai parte integrante della nuova forza lavoro sempre più precaria e sottopagata. Al di là di alcune specificità che permangono, come quella dei richiedenti e rifugiati rispetto ai quali l’Italia non ha una legge organica dopo 150 anni di storia, la questione migranteormai va considerata come parte della più generale questione socialeed è pertanto in questa nuova chiave che dobbiamo imparare nell’ambito sindacale/sociale declinarla. Perché il migrante è un cittadino, lavoratore e abitante che porta nella nuova composizione sociale alcune importanti novità che non possono però essere affrontate separatamente, come settore o categoria sociale a sé stante, e ci spingono a procedere con determinazione sul piano della trasformazione/adeguamento delle forme dell’organizzazione sociale e sindacale.
Le federazioni territoriali
Emerge sempre di più l’evidente necessità di dare funzione e struttura più consistente al nostro impianto territoriale. Non solo per ipotizzare lo sviluppo dell’attività da confederazione sociale, ma perché i territori, in special modo le regioni, vanno assumendo funzioni e compiti molto rilevanti per la vita dei lavoratori, delle lavoratrici e dei cittadini. Non sappiamo, mentre scriviamo queste note per il congresso, quale sarà l’esito “tecnico” del confronto elettorale, cioè chi vincerà le elezioni e governerà, sappiamo però che alcuni processi non torneranno indietro, tra questi l’affidamento alle regioni di compiti “statuali” fin qui appannaggio diretto dello Stato. Così come, senza una forte battaglia politica e sociale, non tornerà indietro il drastico taglio dei trasferimenti erariali e l’affidamento impositivo agli enti locali di parte consistente delle tasse o i tagli di aziende pubbliche – tribunali, enti previdenziali, uffici locali di ministeri e aziende – dovuti alla spending review, che stanno producendo gravi disagi ai cittadini e ai lavoratori e alle lavoratrici che ci operano.
E’ inutile dire quindi che molte scelte politiche verranno effettuate sul territorio regionale e che conseguentemente si rafforzeranno gli ambiti di confronto locale su questioni che riguardano certamente anche il sindacato e i suoi rappresentati. Noi oggi non siamo sufficientemente attrezzati a far fronte a questa nuova strutturazione del confronto sindacale. Siamo abituati ad avere a che fare con le amministrazioni territoriali quando c’è da discutere la cassa integrazione per una azienda o comunque per questioni legate a crisi aziendali, raramente abbiamo assunto il ruolo di interlocutori su questioni politico/sindacali/sociali del territorio.
Molte nostre federazioni regionali ancora vivono come strutture di confronto politico sulla vita interna dell’organizzazione, piuttosto che come luoghi in cui confrontarci e decidere sul come affrontare le questioni relative alla nostra presenza sul territorio. E’ evidente l’esigenza di studiare un modello di rafforzamento delle nostre strutture regionali di intervento per far fronte, nel modo più adeguato, ai nuovi assetti istituzionali e di dislocazione dei poteri. Se sarà necessario apportare le necessarie modifiche statutarie per rendere esigibile questa esigenza, ebbene i congressi di categoria e quello confederale dovranno predisporsi a farlo. Su questo fronte abbiamo già perso del tempo prezioso anche a causa della nostra architettura organizzativa.
Ma se è assolutamente necessario rimettere mano alla nostra organizzazione per far fronte alle trasformazioni che stanno avvenendo sul piano nazionale, ancor più necessario è prendere atto della nuova dimensione europea con cui già oggi ci troviamo a fare i conti.
La dimensione europea
Se, come abbiamo affermato spesso nei nostri documenti, l’Unione Europea si va configurando come un super stato che pian piano sussume su di sè compiti e funzioni politiche fino ad oggi di diretta rilevanza nazionale, questo significa che anche le questioni sociali, del lavoro, ed economiche prima di tutto, saranno sempre più definite a livello Europeo: agli stati nazionali rimarrà il compito di applicare e far digerire nei propri paesi le scelte effettuate a livello del super stato europeo. Le politiche di austerità che hanno investito in questi anni di crisi i paesi del fronte sud dell’Europa, non sono state decise dal parlamento Greco o da quello Portoghese o Italiano bensì dalla troika formata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale che hanno dettato non solo le misure da imporre per il “risanamento” ma anche quali governi e addirittura quali persone dovessero guidare i paesi durante le pesanti ristrutturazioni, come abbiamo ben sperimentato in Italia con il governo dei “tecnici” di provata fede europea ed eurobancaria.
Le scelte in tema di lavoro sono anch’esse definite nelle loro linee generali e di tendenza dalla Commissione Europea e se queste non vengono applicate alla lettera e rapidamente si incorre in sanzioni economiche molto pesanti, il che spinge i vari paesi ad obbedir tacendo, anche se la loro applicazione produce pesanti arretramenti nella legislazione nazionale e, soprattutto gravissimi effetti sui lavoratori e sulle lavoratrici; ne ricordiamo uno per tutti: l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne in nome di una presunta parità tra uomini e donne da realizzare abbassando le tutele a queste ultime! La portata di questa nuova situazione è enorme e a breve diverrà un nodo cruciale per tutti.
Noi, ma non solo noi, rischiamo in un futuro sempre più prossimo di divenire inadeguati ed ininfluenti nelle decisioni che vengono assunte sulle questioni che riguardano i lavoratori e le lavoratrici e tutta la popolazione. La mancanza di conoscenza in tempo utile dei percorsi legislativi delle varie proposte di intervento della Commissione e del Parlamento europeo, addirittura l’ignoranza sugli iter di definizione delle leggi e dei pareri, il fatto che veniamo a conoscenza dei provvedimenti quando ormai sono divenuti effettivi e non c’è via di scampo alla loro pedissequa applicazione, rischiano davvero di renderci inutili.
Dobbiamo assolutamente correre ai ripari e dotarci di strumenti tecnici e politici che ci mettano in grado, nel più breve tempo possibile, di colmare questa nostra grave lacuna e di consentirci di intervenire in tempo utile e con capacità su tutte le questioni di rilievo che riguardano il mondo del lavoro e della produzione.
Quando invochiamo la nazionalizzazione dell’Alitalia, o dell’ILVA o di qualsiasi altra azienda di interesse nazionale dobbiamo sapere che tra gli ostacoli maggiori alla realizzazione di queste parole d’ordine, sacrosante sul piano politico e su quello economico, ci sono proprio i diktat dell’Unione europea che le definirebbe aiuti di stato e pertanto non praticabili – vale la pena di ricordare che diversamente dall’Italia, la Francia e la Germania non hanno affatto smantellato il proprio apparato produttivo e, soprattutto si sono tenute ben strette le aziende di interesse strategico nazionale .
Per sconfiggere il nemico dobbiamo conoscerne a fondo i meccanismi che utilizza e a cui fa riferimento. Non è sufficiente la denuncia politica, dobbiamo riuscire a diventare il granello di polvere che inceppa il meccanismo. Per farlo abbiamo bisogno di mettere in campo ogni strumento a nostra disposizione, primo fra tutti le relazioni internazionali che abbiamo intessuto in questi anni.
L’intervento internazionale
Un sindacato di classe non può che essere internazionalista. Da molto tempo il capitale sta cercando di mettere in contrapposizione ed in competizione lavoratori e le lavoratrici di paesi diversi. La posta in palio è il mantenimento di livelli minimi di produzione che garantiscano occupazione e salario. L’esempio più recente di questa politica è quello della Fiat e delle sue scelte strategiche in tema di allocazione degli stabilimenti. Ovviamente il criterio del capitale è sempre il medesimo, ottenere il maggior profitto con il minimo investimento e quindi delocalizzazione della produzione dove il costo del lavoro è molto più basso che da noi, ricatto continuo utilizzando lo spauracchio della delocalizzazione per ottenere “sconti” contrattuali e nelle tutele, utilizzo vertiginoso di tutte le forme di lavoro precario messe a disposizione dai governi ecc. ecc..
Noi non cadiamo nel gioco al massacro predisposto dal capitale, di scagliarci contro chi “ci ruba il lavoro” grazie al “dumping” economico e dei diritti, come vorrebbero i padroni per costringerci ad accettare anche qui da noi salari e tutele simili a quelli in essere nei paesi terzi. Noi lottiamo assieme a quei lavoratori e a quelle lavoratrici per ottenere assieme a loro, diritti uguali per tutti, per rovesciare il tavolo e conquistare diritti uguali. I nostri nemici non sono i lavoratori e le lavoratrici degli altri paesi, ma le multinazionali, i potentati economici e produttivi che cercano di avere il doppio vantaggio di produrre a meno e ricavare di più attraverso forme anche bestiali di sfruttamento.
Quanto accaduto alle oltre 200 operaie tessili del Bangladesh arse vive mentre lavoravano a capi di abbigliamento che avrebbero poi ricevuto la targhetta di qualche grande firma della alta moda italiana, la dura lotta dei minatori a Marikana in Sud Africa, con l’uccisione di manifestanti in sciopero lì a raccontarcelo. Abbiamo bisogno quindi di intessere ed allargare le nostre relazioni internazionali, soprattutto a livello europeo, per contrastare con maggiore forza ed efficacia i progetti del capitale di tornare, nello sfruttamento, a livelli ottocenteschi. Dalla nascita dell’USB abbiamo coltivato molto le relazioni internazionali proprio in questa ottica.
La nostra adesione alla Federazione Sindacale Mondiale, avvenuta dopo la nostra partecipazione in qualità di osservatori al 16 congresso mondiale di Atene del 2010, ha rappresentato un passaggio fondamentale su questa strada.
Siamo presenti nella segreteria europea della FSM, abbiamo partecipato ai lavori del Consiglio Mondiale in Sud Africa – toccando con mano le enormi contraddizioni di un paese che ha vinto la propria sfida sul piano politico ma in cui il potere economico è ancora saldamente in mano alle multinazionali e in cui questo produce la barbarie che abbiamo visto nella repressione della lotta dei minatori – partecipiamo ai lavori congressuali delle organizzazioni europee presenti con noi nella Federazione Sindacale Mondiale (Portogallo, Grecia, Cipro, Paesi baschi per citarne i principali), elaboriamo proposte di lavoro e di relazioni con altre organizzazioni che pur non militando con noi nella stessa organizzazione internazionale sono però sulla nostra stessa lunghezza d’onda (Sud France, Sud Suisse, OPZZ Polonia, UGTT Tunisia, ETUF Egitto ecc.).
Ci siamo dati l’obbiettivo, e lo stiamo perseguendo con molta determinazione, di ricostruire il sindacato di classe in Europa, allargando la nostra visuale ai paesi che affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, e che sono stati al centro delle importanti primavere arabe, perché è con quei lavoratori e con quelle lavoratrici e con le loro organizzazioni che dobbiamo dialogare per impedire che si realizzi un intervento neocolonialista del capitale europeo a danno dei lavoratori e delle lavoratrici di quei paesi e per avanzare proposte di partenariato.
Stiamo lavorando a rimettere al centro della riflessione anche nel mondo del lavoro europeo quei temi, come il diritto all’acqua, all’alimentazione, alle cure mediche, all’abitare che sono centrali e vitali per il sud del mondo e che in Europa sono uno sbiadito ricordo. Abbiamo ospitato su questi temi una conferenza internazionale a cui hanno partecipato delegazioni sindacali di 13 paesi e che ha portato un contributo serio ed argomentato in profondo dissenso con le modalità di intervento della FAO, articolazione dell’ONU in cui siamo presenti con una nostra compagna a rappresentare gli 82 milioni di iscritti alla FSM. Stiamo soprattutto denunciando l’apartheid sindacale messo in atto dalla Commissione europea nei confronti dell’FSM e di tutte le organizzazioni che non si riconoscono nella Confederazione Sindacale Europea (CES) che è l’unico interlocutore sindacale accreditato nell’Unione Europea e in cui, per l’Italia, militano cgil, cisl e uil e che sta svolgendo appieno la sua funzione di guardiano del conflitto e di silenziatore delle lotte che pure crescono in tutta Europa.
Lo sciopero europeo convocato dalla CES lo scorso 14 novembre aveva come parola d’ordine principale l’istituzione a livello europeo di un Social Compact, da affiancare al Fiscal Compact, cioè un patto sociale in salsa continentale!
E’ attraverso questo rinnovato protagonismo in Europa della FSM, di cui in parte siamo stati e siamo artefici, è attraverso l’apertura di relazioni dirette con i parlamentari europei più vicini alle nostre posizioni che vogliamo riuscire anche a costruire gli strumenti indispensabili per dare risposta alle nostre necessità di conoscenza e di intervento sui provvedimenti della Commissione Europea. Il lavoro internazionale deve divenire a tutti gli effetti un aspetto principale del nostro lavoro confederale a cui dedicare quindi la necessaria attenzione politica e le risorse necessarie.
La nostra struttura organizzativa
L’attività messa in campo dalle nostre categorie può definirsi complessivamente senz’altro molto soddisfacente, anche se molto ancora possiamo fare per il loro consolidamento e la loro affermazione.
Il risultato, affatto scontato, della USB pubblico impiego nel recente rinnovo nazionale delle RSU con una sostanziale tenuta e alcuni importanti segnali di avanzamento è senz’altro incoraggiante e deve spingerci a lavorare ancora con maggiore lena sul piano delle adesioni e su quello del radicamento territoriale.
Emerge chiaramente, da una attenta lettura dei risultati elettorali, la potenzialità di sviluppo che sarebbe criminale ignorare o non coltivare. Accontentarsi di ciò che abbiamo raggiunto o mantenuto, pur se in una fase di obbiettiva difficoltà, rischierebbe infatti di farci fare dei passi indietro che potrebbero mettere a rischio il lavoro di anni.
USB lavoro privato, pur tra difficoltà davvero enormi dovute al pesantissimo attacco prodotto dalla crisi, che ha portato a chiusure di aziende, licenziamenti, aumento massiccio della precarietà, attacco ai diritti, con le conseguenze, anche sul piano dell’attività sindacale, che ben conosciamo, non solo ha tenuto ma ha anche espresso un notevole livello di conflitto. Praticamente tutti i settori di intervento sono usciti rafforzati dal lavoro di questi tre anni, ottenendo successi nelle lotte e consolidando ed estendendo l’influenza dell’organizzazione in tutto il territorio nazionale, nonostante le obbiettive difficoltà dovute soprattutto alla scarsità di diritti e di entrate economiche.
Né va sottaciuto l’apporto che USB confederale ha dato alla categoria, sia attraverso la struttura nazionale che le federazioni regionali, in termini di sostegno politico ed economico senza il quale probabilmente alcuni risultati positivi si sarebbero raggiunti con maggiore difficoltà. E’ auspicabile che il congresso di categoria individui gli strumenti necessari ad una piena autonomizzazione di USB lavoro privato.
In più parti in questo documento e più in generale nel dibattito interno al sindacato ci si chiede se la struttura organizzativa che ci siamo dati risponde alle esigenze che pone la fase. In altre parole dobbiamo interrogarci su quali debbano essere i miglioramenti e le modifiche all’organizzazione nelle sue varie funzioni a livello nazionale e territoriale, confederale e di categoria. Partiamo sicuramente da una sperimentazione durata tre anni che permette una valutazione attenta di ciò che ha funzionato e di quegli aspetti che invece necessitano modifiche e/o miglioramenti funzionali o strutturali.
Un primo ambito di intervento congressuale in tal senso, affrontato precedentemente in questo documento, riteniamo debba essere quello di individuare un meccanismo che, mantenendo inalterata la valenza costitutiva dello Statuto, permetta però di rispondere dinamicamente ai cambiamenti che ci vengono imposti dall’esterno (ad esempio la possibile abolizione di un certo numero di province, una legge o un accordo sulla rappresentanza sindacale, ecc.) o che si ritengano necessari per affrontare in modo più adeguato i mutamenti di fase. Per tale motivo si propone di rendere stabile ciò che in questa prima fase congressuale è stato previsto a livello transitorio e cioè di conferire al Consiglio nazionale la possibilità di modificare alcuni articoli dello Statuto: chiaramente non quelli costitutivi o riguardanti i principi.
Un aspetto sicuramente da affrontare preliminarmente è il giudizio complessivo sugli organi statutari: sono sufficienti, adeguati, ridondanti? Noi riteniamo che la struttura organizzativa sia nell’insieme adeguata alle necessità attuali ma che vadano apportate modifiche e miglioramenti su specifici aspetti.
Il primo è quello relativo al Coordinamento nazionale confederale che deve necessariamente avere una composizione che preveda la presenza dei rappresentanti delle strutture regionali operative con almeno un componente; gli esecutivi dei Coordinamenti nazionali delle categorie del privato e del pubblico; coloro che si occupano esclusivamente del lavoro confederale; la rappresentanza dei pensionati, dell’ AS.I.A., del Centro Studi e di altri ambiti specifici di intervento, come quello dei migranti o della confederalità sociale.
Auspichiamo che un approccio analogo, già assunto dal Coordinamento nazionale di USB pubblico Impiego, venga previsto anche per il coordinamento nazionale USB lavoro privato, comprendendo l’ambito regionale e la rappresentanza dei vari comparti Queste soluzioni permetterebbero un maggior coinvolgimento delle strutture territoriali ed un ritorno costante di informazioni, come anche una migliore conoscenza delle categorie e dei comparti da parte rispettivamente della struttura nazionale confederale e di quelle di categoria.
Con una tale composizione si potrebbero prevedere anche riunioni e/o consultazioni specifiche di singole componenti dei Coordinamenti (le regioni, le categorie, i comparti, ecc.) che sommandosi alle riunioni periodiche dei Coordinamenti nazionali, che devono necessariamente aumentare, renderebbero più costanti, incisivi e tempestivi il confronto e la discussione interna al sindacato. Questo maggiore confronto interno dovrebbe permeare anche le strutture territoriali, attraverso soluzioni che, in analogia con quanto previsto a livello nazionale, potrebbero modulare le composizioni degli organi statutari in modo rispondente alle necessità.
La differente struttura organizzativa tra USB lavoro privato e USB pubblico impiego ha provocato, negli anni trascorsi, alcuni fraintendimenti ed alcune difficoltà organizzative. E’ quindi auspicabile che i congressi di categoria valutino la funzionalità della propria struttura organizzativa e, in base alle specifiche esigenze, introducano le eventuali modifiche, tenendo conto anche della opportunità di armonizzare l’architettura organizzativa dell’intero sindacato.
Argomento da affrontare è la relazione tra sindacato territoriale e la cosiddetta confederalità sociale. Oltre agli aspetti politico-sindacali già affrontati, dovremo cioè trovare soluzioni organizzative che permettano una piena e funzionale integrazione tra l’attività sindacale legata al posto di lavoro e l’attività sociale che il sindacato promuove ed organizza in determinati territori e in specifici ambiti di intervento.
Introdurre, per il momento in via sperimentale, la figura del Delegato del territorio, può consentire un allargamento del nostro intervento nella direzione della confederalità sociale. Questa nuova figura non è espressione diretta della struttura sindacale ma proviene dal territorio e dalle lotte che questo esprime e ha il compito di mettere in relazione queste ultime con il sindacato “classico” a livello territoriale. Su questo tema sarebbe anche importante che nel proprio congresso venisse definito un nuovo ruolo dell’ Asia, non più soltanto strumento legato all’abitare, cioè alla casa, ma anche agli abitanti e quindi ai problemi del territorio e direttamente alla Confederalità sociale.
Altro aspetto importante è quello della formazione che investe almeno due ambiti di valutazione ed intervento: la formazione di base, che dovrà coinvolgere l’intero corpo dei delegati e dei rappresentanti di base per migliorare le competenze e affinare le capacità di intervento sindacale (tale livello di formazione sarà a cura dei livelli territoriali, delle categorie e dei comparti) e la formazione più “alta” a cura del Centro Studi, formazione questa di carattere politico-sindacale e di analisi strutturale, della fase economica che dovrà proseguire e raggiungere, sotto varie forme, il gruppo dirigente del sindacato ai vari livelli.
Rimane tuttora aperta la necessità di investire sulla costruzione dei gruppi dirigenti e del ricambio generazionale. Un tema questo che è di particolare importanza e che investe il futuro stesso del sindacato e la capacità di incidere sulle nuove generazioni. Questa sfera di intervento deve necessariamente essere affrontata sia dal punto di vista formativo classico, sia attraverso la condivisione di esperienze e di lavoro specifico.
La comunicazione è uno dei settori di lavoro dove è necessario intervenire in modo mirato. Sicuramente positiva l’esperienza del sito web (non da tutti i territori utilizzato però efficacemente). Da sviluppare complessivamente l’azione sulla “rete”, attraverso interventi di carattere tecnico e di sviluppo delle conoscenze e delle capacità di interloquire in modo più ampio e più complesso con/in tutti gli strumenti a disposizione. Buono anche lo strumento multimediale che deve essere ulteriormente sviluppato e meglio utilizzato. Per quanto attiene alla rilevante funzione delle relazioni con la stampa, fino ad ora competenza centrata sull’ufficio stampa nazionale, è indispensabile che le Federazioni regionali si dotino di una propria capacità di intervento diretto.
Discorso a parte merita la comunicazione interna che deve dotarsi di strumenti di costante informazione non solo dal “centro” verso i territori e le categorie (cosa questa che ci sembra avvenga abbastanza adeguatamente), ma anche in senso inverso, verso il “centro” dove si possono più efficacemente utilizzare gli strumenti di comunicazione ed informazione interna che raggiungono poi tutte le federazioni. La conoscenza dell’organizzazione del sindacato, della sua presenza ed attività devono essere prerogativa diffusa, in modo da poter razionalizzare le risorse ed utilizzare al meglio gli strumenti a disposizione.
L’intera questione Comunicazione, proprio per l’importanza che essa riveste per il sindacato, rende comunque necessaria una verifica, approfondita e da realizzare al più presto, da parte degli organi nazionali confederali e di categoria.
Riteniamo che il sistema economico individuato e sperimentato in questa fase transitoria debba essere confermato nel suo impianto generale. Si dovrà però nel più breve tempo possibile rendere operativa la scelta già approvata di omogeneizzare le quote sindacali individuali nella loro quantità/percentuale. Chiaramente tutte le strutture territoriali dovranno migliorare e rendere sempre più funzionali e trasparenti i meccanismi e le procedure economiche/amministrative.
Ancora per quanto riguarda le questioni economiche ed amministrative, i livelli nazionali dovranno costituire dipartimenti/gruppi di lavoro ai quali i livelli territoriali potranno fare riferimento costante in termini di indicazioni ed informazioni sui temi specifici. Più in generale è indispensabile che la questione economica sia elemento di discussione nell’intero corpo del sindacato in quanto soltanto un utilizzo condiviso e mirato delle risorse complessivamente a disposizione, può permettere uno sviluppo armonico di USB, consentire investimenti su specifici territori/categorie/realtà che da sole e se non aiutate, non potrebbero avere alcuna possibilità di avvio e sviluppo dell’attività sindacale.
La confederazione dovrà articolare il lavoro del Coordinamento nazionale in Dipartimenti che affrontino i vari aspetti della vita del sindacato, così da suddividere coerentemente competenze e funzioni ed utilizzare efficacemente le capacità, le conoscenze e le esperienze individuali e collettive e razionalizzando così anche le risorse economiche. Ciò comporterà uno sforzo da realizzarsi prima di tutto a livello nazionale e coinvolgere poi l’intero sindacato. Un’attenzione ed uno sforzo che però sono finalizzati ad ottenere una migliore e più efficiente organizzazione. I Dipartimenti dovranno essere avviati progressivamente, a cominciare da quello relativo all’Organizzazione e, insieme a quelli già operanti sotto forme diverse (Internazionale, Servizi, Centro Studi) dovranno poi interessare tutte le attività del sindacato (Politiche del Lavoro, Legale, Previdenza, Rapporti con le Categorie, Rapporti Esterni, ecc.).
Ogni Dipartimento lavorerà in stretto contatto con l’Esecutivo nazionale, sarà coordinato da un responsabile (preferibilmente un componente dell’Esecutivo), utilizzerà le risorse organizzative, economiche e tecniche della Confederazione e godrà di una propria autonomia gestionale, rispondendo delle proprie decisioni direttamente al Coordinamento nazionale
Infine la questione economica deve essere affrontata anche dal punto di vista della razionalizzazione e del miglior utilizzo dei Servizi. Il Dipartimento specifico fornisce in modo articolato ed efficiente i servizi di assistenza fiscale e di patronato, oltre ad occuparsi anche di convenzioni e ulteriori servizi accessori. In previsione di uno sviluppo dell’attività dei Servizi è però indispensabile un suo potenziamento. Attività prioritaria del Dipartimento è quella di fornire agli iscritti ed ai lavoratori e alle lavoratrici servizi necessari ed importanti, ma è sostanziale anche l’apporto economico diretto ed indiretto che tale attività riveste per il sindacato. In tal senso il regolamento interno del sindacato dovrà prevedere procedure che tutte le federazioni dovranno rispettare. A prescindere da ciò è fondamentale che tutte le strutture si facciano parte attiva nello sviluppo dei servizi e collaborino concretamente ai lavori del Dipartimento nazionale.
Il contrattacco
L’esigenza di darci strutture organizzative più funzionali ed efficienti è strettamente legata alla necessità di avere un sindacato che sappia rispondere nel modo migliore alle necessità del programma che vogliamo realizzare. Non siamo mai stati, e non dobbiamo mai divenire, un sindacato che si accontenta di rispondere, se ci riesce, all’attacco che l’avversario di classe propone ed attua. Noi dobbiamo saper praticare attraverso il conflitto le nostre proposte per dare risposte alle esigenze dei lavoratori. Le difficoltà di questa fase le abbiamo tutte presenti, ma siamo convinti che sia venuto il tempo di lanciare il contrattacco individuando alcuni punti centrali della nostra azione sindacale.
– Al pensiero unico che ormai attraversa gran parte delle forze sindacali e politiche dobbiamo reagire attraverso l’individuazione di un’analisi e di proposte che abbiano un profilo alto e che parlino direttamente con il nostro agire sindacale. Lotta all’Unione Europea, ai diktat della BCE, al tentativo di ergersi a potenza mondiale massacrando le conquiste del movimento operaio europeo e imponendo la vittoria del mercato sul lavoro, attraverso il ricatto del debito. Cancellazione dei trattati europei, a partire dal Fiscal compact, che hanno imposto la politiche fiscali e di austerity a solo carico dei lavoratori e delle lavoratrici e dei ceti meno abbienti e che hanno stravolto la nostra Costituzione.
– A tesi che tendono a mettere paese contro paese, popolazioni contro popolazioni e lavoratori contro lavoratori al solo fine di aumentare i profitti, dobbiamo rispondere con il no alla guerra dei poveri e un internazionalismo concreto. Guerra alla guerra, basta spese per armamenti e missioni di guerra; no a rigurgiti neo coloniali per l’accaparramento delle risorse. Solidarietà ai popoli aggrediti e sostegno all’autodeterminazione dei popoli a partire dal popolo Palestinese.
– Alle politiche basate sul mercato si deve rispondere con un forte impegno dello stato nelle politiche economiche, non soltanto attraverso la funzione indispensabile di controllo e indirizzo, ma anche con il ritorno ad un ruolo pubblico attivo anche attivando processi di nazionalizzazione che coinvolgano i settori produttivi e i servizi strategici.
– Ai colpi subiti in questi anni sul versante dell’occupazione, delle condizioni e del diritto del lavoro non basta contrapporre una politica difensiva e di “riduzione del danno”. Dobbiamo puntare ad una riscrittura completa della legislazione sul lavoro, abolendo le norme che istituzionalizzano la precarietà, ripristinando il diritto costituzionale al lavoro buono, di qualità, sicuro e adeguatamente retribuito, cancellazione dell’accordo sulla produttività. Forti penalizzazioni sul piano fiscale alle aziende che delocalizzano la produzione. Ripristino ed estensione per tutti delle tutele in caso di licenziamento senza giustificato motivo. Sblocco dei contratti, aumenti salariali consistenti e in paga base, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per consentire nuova occupazione. Costruzione di un movimento nazionale che imponga una soluzione pubblica di riassorbimento al lavoro per i/le precari/e, i lavoratori e le lavoratrici in mobilità, i/le licenziati/e.
– La mancanza di democrazia sul lavoro si traduce in minori diritti e minore forza contrattuale dei lavoratori. A ciò dobbiamo far fronte sui posti di lavoro, ma anche attraverso una richiesta sempre più forte della definizione per legge di criteri di rappresentanza e rappresentatività sindacale che garantiscano il pluralismo e la democrazia in tutti i settori.
– Ai vuoti proclami di questi anni dobbiamo contrapporre una decisa azione a difesa della scuola pubblica e richiedere un forte impulso alla ricerca pubblica e finanziamenti per favorire il ritorno dei ricercatori emigrati. Rilanciare la battaglia per un sistema di soccorso nazionale realmente pubblico affidato ai vigili del fuoco.
– La battaglia sul salario non si fa più soltanto attraverso le rivendicazioni del salario diretto. La lotta al carovita si persegue anche attraverso il ripristino del controllo pubblico sulle tariffe dei servizi e dei beni di prima necessità; istituzione del reddito minimo garantito; sostegno e rilancio della nostra proposta di legge di iniziativa popolare in materia fiscale.
– Le privatizzazioni e le esternalizzazioni stanno distruggendo le attività produttive e le condizioni di lavoro. E’ indispensabile la reinternalizzazione di tutti i servizi pubblici, forte ed esclusivo finanziamento della sanità, del sistema scolastico, dei trasporti pubblici. Difesa dei beni comuni dai continui tentativi di privatizzazione.
– Pensionati al limite della povertà e anche oltre: questo è il risultato delle politiche di riduzione dei redditi e lo sviluppo della previdenza privata. Dobbiamo impostare un lavoro che coinvolga pensionati e chi è ancora al lavoro che parta dalla difesa e dal rilancio della previdenza pubblica, dal diritto a pensioni eque e sufficienti che rispettino il diritto ad una vecchiaia dignitosa e al riposo dopo un congruo numero di anni di attività. Ribadire ed organizzare il nostro no ai fondi pensione, prevedere la possibilità di rinuncia per chi vi ha aderito e il ritorno al TFR.
– Anche il diritto alla casa è ormai salario e reddito indiretto. Dobbiamo ampliare e sviluppare il nostro impegno, soprattutto attraverso Asia e l’attività sociale della Confederazione per il diritto all’abitare per tutti, la cancellazione delle tasse sulla casa di abitazione, il riuso del patrimonio sfitto, il rilancio della funzione calmieratrice del mercato immobiliare degli enti previdenziali, lo stop agli sfratti e alle vendite, il riconoscimento del diritto alla casa per tutti gli occupanti.
– La cancellazione della legge Bossi Fini per rivendicare diritti uguali per i migranti e la chiusura dei CIE, il diritto all’asilo per i rifugiati e profughi insieme a quello della cittadinanza di residenza per i bambini nati in Italia, non sono soltanto battaglie di civiltà, ma si fondono con il lavoro e la lotta sindacale perché soltanto con uguali diritti per tutti si può battere la discriminazione sui posti di lavoro e la corsa al ribasso di salari e diritti e riconquistare così maggiore potere contrattuale.
– Ambiente e salute sono punti fondamentali che non possono soltanto essere evocati, ma vanno affrontati anche a costo di affrontare la contraddizione tra lavoro e salute come sta avvenendo in questi anni all’Ilva di Taranto e in tante altre fabbriche italiane. Lotta senza quartiere, quindi, alla devastazione dell’ambiente e forte sostegno e partecipazione alle lotte per impedire grandi opere costose, inutili e a grave impatto ambientale.
Rovesciare il tavolo!
Un programma come quello che ci accingiamo a discutere nel nostro congresso, che mette davvero in discussione, in termini di classe, l’architettura del Paese e del lavoro, necessita ovviamente di grande forza, convinzione, condivisione. I nostri iscritti, le lavoratrici e i lavoratori con cui siamo o entriamo in relazione sui più diversi fronti del conflitto, dalle fabbriche agli uffici, al territorio già praticano ed hanno fatto proprio in concreto questo programma di lotta e di crescita di un’opzione avanzata di sindacato di classe.
A noi tocca svilupparlo, praticarlo, renderlo credibile, condividerlo con quanti, sul terreno del lavoro e dell’intervento sociale hanno i nostri stessi obbiettivi generali di programma e li praticano attraverso il conflitto.
Proprio per questo rilanciamo con forza e convinzione l’invito a tutti coloro che hanno condiviso con noi obiettivi e pratiche sindacali a costruire momenti comuni di riflessione e di dibattito al fine di arrivare ad una vera unità di azione. Stesso invito rivolgiamo a tutti coloro che oggi con noi lavorano a livello sociale e sindacale, pur militando in diverse organizzazioni.
L’idea di un sindacato generale, indipendente, conflittuale, democratico, aperto ai soggetti della nuova composizione/scomposizione di classe è l’idea che ci ha indotto a costruire l’USB. Questa deve essere la strada che continuiamo a percorrere, con pazienza e con umiltà ma anche con la consapevolezza del ruolo che possiamo svolgere e che ci compete. Non conosciamo con esattezza gli sviluppi della situazione complessiva, a livello nazionale, europeo ed internazionale in cui ci troveremo ad agire sin dai prossimi mesi.
Ciò che già sappiamo è che ci sarà sempre più bisogno di conflitto organizzato per battere i progetti di riorganizzazione e di sfruttamento messi in campo dal capitale, per ridare fiducia e forza al movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, per riconquistare diritti e pretenderne di nuovi.
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