Il meeting di Rimini si è rivelato come il punto d’incontro delle vere “larghe intese”, quelle clerico – affaristiche che sorgono, con la benedizione della Compagnia delle Opere, come ombrello al tema della sussidiarietà, tornato oggi improvvisamente di moda anche sui giornali e gli altri mezzi di comunicazione di massa.
Vale la pena affrontare quest’argomento, anche dal punto di vista teorico.
Un argomento che aveva già avuto un altro momento di fulgore mediatico allorquando, cioè, questo concetto (complesso e “scivoloso”) era stato usato largamente in quel dibattito sul “federalismo” alla fine adottato dall’allora Ulivo e che originò alla fine della legislatura 96-2001 (presidente del Consiglio, Giuliano Amato) la sciagurata modifica del titolo V della Costituzione.
Di sussidiarietà se ne può parlare in due termini, apparentemente diversi ma in realtà strettamente complementari.
Significati che, in qualche modo, si ricollegano alla distinzione accettata nella letteratura politologica e giuridica tra una “sussidiarietà orizzontale”, relativa ai rapporti tra i pubblici poteri e le autonomie private, e una “sussidiarietà verticale”relativa, invece, all’organizzazione delle competenze tra Enti Pubblici e Stato.
Il principio di sussidiarietà è l’espressione di una particolare filosofia politica e di una particolare antropologia che esalta l’uomo, la sua libertà, che considera in un certo modo anche i concetti di autorità e di bene comune.
Un principio, quello di sussidiarietà, che si presenta come collocato sul delicato crinale in cui si situano, allo stesso tempo, l’obbligo di non ingerenza e il dovere d’ingerenza.
Si presentano due aspetti: da un lato, l’autorità in generale e lo Stato in particolare non devono impedire agli individui o ai gruppi sociali di compiere le proprie azioni, vale a dire dispiegare (come scrive Millon – Delsol) per quanto possibile la loro energia, la loro immaginazione, la loro perseveranza nelle opere con cui si realizzano a beneficio sia dell’interesse generale, sia dell’interesse particolare.
Allo Stato, e all’autorità generale, va attribuito – per contro – il compito di incentivare, di sostenere e, se necessario, supplire gli attori incapaci.
In questa prospettiva, cioè, lo Stato ha il dovere di intervenire.
Il problema è, dunque, quello dello Stato e dell’autorità in genere nel ricercare un equilibrio tra “diritti – pretesa” e “diritti – libertà” e nella partecipazione del cittadino al bene comune.
L’idea di sussidiarietà s’inscrive, allora, in questa inquieta problematica.
Siamo dunque alla presenza di un principio che presenta una notevole incidenza politica non solo nel senso istituzionale del termine, con riferimento agli istituti della partecipazione e del pluralismo, ma anche nel senso del principio che investe direttamente il tema della cittadinanza sforzandosi di definire l’ambito della libertà d’azione e il ruolo e la funzione dell’autorità.
Partendo dalla dottrina sociale della Chiesa il principio di sussidiarietà, così come espresso nella sua vulgata corrente e al di là delle polemiche politiche immediate cui pure si è fatto cenno all’inizio e che riguardano una fase di grande importanza per la vita politica italiana, pare soffrire di una visione di tipo tomistico e neoscolastico: una prospettiva che fa pensare alla riproposizione nostalgica di una società pre – moderna.
Ed è questo l’elemento di critica da sviluppare a fondo, almeno dal punto di vista della sinistra: il principio di sussidiarietà viene così inteso quale strumento utile per mantenere i rapporti di potere dati nella società capitalistica e non come principio d difesa della responsabilità del cittadino e della validità dell’esistenza di corpi intermedi di vario tipo, che realizzano razionalità e giuridicità assegnando all’organizzazione politica la precedenza sull’individuo.
Una critica che principia, indissolubilmente, dal nesso esistente tra le condizioni di sfruttamento e i rapporti di forza determinatisi nell’ambito dell’espressione politica.
Il mutamento sulle basi dell’analisi delle condizioni di sfruttamento complessive del lavoro umano, dell’ambiente naturale, delle differenze di genere, di situazione geografica non può che avvenire attraverso una lotta sociale e politica che trova il suo obiettivo di fondo nel ribaltamento dei rapporti sociali.
Riprodurre per intero questa esigenza, intesa quale vero e proprio “diritto di libertà” richiede l’intervento di un soggetto regolatore, lo Stato con i suoi articolati organismi democratici e di garanzia giuridica, che non si limita a osservare e a intervenire in “casi” specifici ma attraverso l’espressione rappresentativa dei corpi intermedi determina le condizioni più eque, dal punto di vista della rappresentanza sociale, per il soddisfacimento complessivo dei bisogni.
Si tratta di un dato fondamentale che la sinistra non può permettersi il lusso di smarrire, se non per consegnarsi in braccio a un avversario cui interessa, al fondo, di perpetuare la dinamica dello sfruttamento nei rapporti di classe: ed è su questo punto, per finire, che si colloca la relazione di fondo tra individuale e collettivo.
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