LA CINA È VICINA! LOTTE OPERAIE NEL CUORE DELL’OFFICINA DEL MONDO
Questo ottobre verrà in Italia un compagno tedesco che ha curato un libro molto interessante sul capitalismo cinese: “iSlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn”. Il libro, che sta riscuotendo molto interesse perché basato su una conoscenza diretta della realtà cinese, è stato presentato nelle maggiori città europee e non solo: abbiamo dunque pensato di proporre anche qui da noi un ciclo di iniziative. Per avviare il dibattito, abbiamo messo insieme una piccola antologia di scritti utili a conoscere, fuori dalle rappresentazioni mediatiche o ideologiche, la complessa realtà sociale cinese, e la coraggiosa lotta di questi operai contro lo sfruttamento globale. In queste righe cerchiamo di spiegare perché questa conoscenza può essere utile anche alle nostre lotte. Buona lettura!
Non c’è lavoratore in Italia e in Europa che in qualche modo non abbia a che fare con la Cina. Per esempio attraverso le merci “Made in China”, così a buon mercato da essere a portata del proprio misero salario. O perché ha perso il proprio posto di lavoro, delocalizzato in Cina, così che il padrone possa pagare salari ancor più miseri1. O magari perché il suo padrone è proprio una qualche azienda cinese che ha investito in Italia2.
Altre volte, invece, il lavoratore italiano ed europeo ha direttamente a che fare con il lavoratore cinese, ma lo teme o lo disprezza, perché spaventato dalla competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro che comporta la presenza di tali lavoratori vulnerabili ed esposti al peggior sfruttamento. D’altra parte, la condizione di clandestinità, l’obbligo di onorare il proprio debito di viaggio, l’isolamento linguistico, rendono difficilissimo al lavoratore cinese resistere a quello stesso sfruttamento e sostituire alla competizione la solidarietà3.
Anche nella sfera pubblica la Cina impone la sua presenza, innanzitutto come gigante economico la cui crescente competitività nel mercato mondiale obbliga ad un eguale incremento di competitività i paesi europei. Processo, questo, acuito dalla crisi economica globale, tanto che molte delle trasformazioni istituzionali e legislative di questi ultimi anni di manovre “lacrime e sangue” (dai tagli alla spesa pubblica alle riforme del lavoro e delle pensioni, dall’ipotesi di unione bancaria ai processi di centralizzazione delle decisioni economiche) non rappresentano altro la traduzione politica delle trasformazioni economico-sociali dovute all’impatto sul mercato mondiale di questa ed altre “economie emergenti”.
Pure quando la Cina viene presentata come “opportunità”, nella forma di partner commerciale o di potenziale investitore da attrarre, è chiaro chi intende beneficiare di questa occasione… A segnalarlo bastano le parole dell’ex-premier Monti, quando, facendo leva sulle presunte esigenze degli investitori cinesi, giustificava le manovre del governo che andavano verso l’abolizione dell’articolo 18: “I cinesi hanno detto chiaramente che la rigidità del nostro mercato del lavoro è uno dei fattori che finora li ha disincentivati dall’investire in Italia”4. A ricordarci che il benessere di cui parlano si erge su uno sfruttamento a ritmi “cinesi”.
Minaccia e opportunità, paura e speranza – immagini e sentimenti molteplici e divergenti, quanto divergenti e molteplici sono gli interessi dei gruppi sociali investiti dalle trasformazioni prodotte dall’ascesa del gigante asiatico. La borghesia italiana ed europea più internazionalizzata, il grande capitale cosmopolita, annusa le occasioni di affari di questo nuovo grande mercato, ma può vedere contemporaneamente altri affari compromessi dalla competizione con gli altri grandi capitalisti cinesi; i piccoli e medi padroncini nostrani rischiano di soccombere all’artiglieria pesante delle merci cinesi a basso prezzo, ma possono anche ridurre i costi spostando almeno parte della produzione verso est, e la paura che i propri equivalenti cinesi li freghino sfruttando i propri connazionali si accompagna alla speranza di poter essere loro stessi a sfruttare questa manodopera…
Per non parlare delle conseguenze indirette dell’ascesa del Grande Dragone su parametri come il prezzo delle materie prime, la direzione dei flussi finanziari, il corso dei cambi, il clima e l’ambiente, ecc., che contribuiscono a scomporre e ricomporre un quadro di interessi in continua evoluzione.
Tutte queste rappresentazioni restituiscono un’immagine monolitica di una Cina che con il suo irrompere nella scena del sistema capitalistico globale impone necessari, inevitabili, adattamenti. Così come da noi sono pensabili, e si mostrano, sempre e solo divergenze componibili nel quadro di un proclamato interesse generale che non ammette l’esistenza di un autentico, inconciliabile, antagonismo – così all’estero non si può che vedere un oggetto coerente, che pur nella sua mutevolezza e dinamicità si mantiene uguale a sé stesso ed è privo della possibilità di un autentico mutamento. Le fratture interne alla società cinese sembrano rimanere sempre armonizzabili: non scalfiscono la raffigurazione unitaria proiettata dall’urgenza di farci i conti della nostra altrettanto unita società.
Sulla scia del più puro corporativismo, infatti, il paradigma della “Società Armoniosa” (come le classi dirigenti cinesi amano presentare il loro sistema), dichiara e ricerca a tutti i costi la conciliabilità tra capitale e lavoro, mistificando l’incompatibilità radicale tra chi produce e chi profitta della fatica altrui, trasfigurandola nella forma del compromesso tra “sviluppo ed eguaglianza”, del bilanciamento tra “equità e modernizzazione”5, ecc. Non è un caso che la retorica della “società armoniosa” prenda piede con la presidenza di Hu Jintao ad inizio degli anni 2000, in contemporanea con l’emergere di una nuova composizione della classe operaia e delle sue lotte, nel tentativo di cooptarne e sedarne gli elementi più destabilizzanti6.
Sono proprio le lotte di questa classe operaia al centro di quella che da alcuni è definita “l’officina del mondo”7 – e che anche in virtù di queste lotte rischia di perdere questo primato8 – a essere oggetto dei materiali che pubblichiamo in occasione del ciclo italiano di presentazione dei testi raccolti nel libro “iSlaves. Sfruttamento e resistenza nelle fabbriche cinesi della Foxconn”. Lotte che hanno manifestato una drammatica accelerazione negli ultimi anni di recessione globale9, portando a considerevoli conquiste salariali e sindacali10.
Anche qui, come mostrano bene i testi che abbiamo raccolto, gli effetti di queste conquiste sull’economia globale e quindi sui lavoratori di tutto il mondo possono essere molteplici e contraddittori. Detto questo, la sola esistenza di questi lavoratori nell’atto della lotta svela che quelle che sembravano irresistibili forze economiche cieche a cui non si può che adattarsi o soccombere, sono in realtà il frutto di uno sfruttamento a cui ci si può ribellare.
Far proprio questo insegnamento e contribuire nel nostro piccolo a gettare le basi perché ci si possa realmente appropriare di queste forza comune, superando ciò che la frammenta, è il motivo della pubblicazione di questi testi, nonché lo scopo della nostra iniziativa.
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note
1 Secondo un recente studio della CGIA di Mestre, le imprese italiane che hanno delocalizzato in Cina sono 1.103, anche se non è chiaro l’arco temporale di questa misurazione. Uno studio approfondito della delocalizzazione italiana verso la Cina è disponibile qui.
2 Un quadro veloce degli IDE cinesi in Italia si può trovare qui.
3 C’è da dire che, almeno in Italia, la condizione dei lavoratori migranti cinesi si differenzia da quella di molti altri migranti, in quanto questi lavoratori lavorano per lo più in aziende di altri cinesi, magari proprio quelli a cui devono il debito, in condizioni di pressoché totale invisibilità e servaggio. Non c’è quindi concorrenza con i lavoratori autoctoni per lo stesso posto di lavoro, né sono oggetto diretto della Bossi-Fini. La pressione competitiva operata dal loro sfruttamento si esercita piuttosto nel rischio di fallimento delle aziende autoctone che non spremono allo stesso modo la propria manodopera, mentre la clandestinizzazione operata dalle nostre leggi repressive crea le condizioni dello strapotere dei propri aguzzini. In questa recente inchiesta si può trovare un rapido schizzo delle loro condizioni.
4 agichina24.it
5 archiviostorico.corriere.it
6 Elemento, questo delle lotte operaie, paradossalmente assente in molte delle analisi di chi individua nella Cina un riferimento per i percorsi di rottura dell’attuale ordine capitalistico mondiale. Si veda ad esempio questa analisi di V. Giacché, peraltro interessante nel rilevare gli elementi di controtendenza rispetto al “turbocapitalismo” neoliberale che miete vittime in Occidente. Su marx21.it
7 cineresie.info
8 corriere.it e affaritaliani.it
9 ilsole24ore.com e ilsole24ore.com
10 ilsole24ore.com e it.peacereporter.net
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Materiali di approfondimento
– Cina: epicentro emergente del conflitto mondiale tra capitale e lavoro? (di Beverly J. Silver – Lu Zhang) – clashcityworkers.org
– 10 paragrafi contro una mela marcia (di gongchao.org) – clashcityworkers.org
– La ridefinizione deL discorso sulla classe in Cina (
di
Pun Ngai e Chris King-Chi Chan) – clashcityworkers.org
– Le spine del lavoro liquido globale (di F. Gambino – D. Sacchetto) – connessioniprecarie.org
Luoghi e date iniziative in Italia
Firenze // 8 ottobre // Polo di Novoli // edificio D5 // ore 17
Napoli // 11 Ottobre // Spazio Me-Ti // via Atri 6 // ore 18
Bologna // 15 Ottobre // Corte del Tre // via Bolognese 22/3A // ore 18:30
Padova // 17 Ottobre // Sala sotto l’orologio // Piazza dei Signori // ore 19:30
Trieste // 21 Ottobre // Sede del Germinal // Via del Bosco 52/A // ore 20:30
Luoghi e date iniziative in Italia
Firenze // 8 ottobre // Polo di Novoli // edificio D5 // ore 17
Napoli // 11 Ottobre // Spazio Me-Ti // via Atri 6 // ore 18
Bologna // 15 Ottobre // Corte del Tre // via Bolognese 22/3A // ore 18:30
Padova // 17 Ottobre // Sala sotto l’orologio // Piazza dei Signori // ore 19:30
Trieste // 21 Ottobre // Sede del Germinal // Via del Bosco 52/A // ore 20:30
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