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L’Europa spiata, gli Usa, la democrazia di facciata

Sotto choc tutti gli atlantisti: adesso come si fa a dire che l’America è il migliore dei paesi possibile? E che ci stiamo a fare “noi” – gli atlantisti duri e abili – se gli Stati Uniti ci trattano come pezze da piedi? E infine: come facciamo a difendere le regole democratiche, la legalità, la subordinazione di tutti alle nostre regole, se poi quello che dovrebbe rappresentarle fa come cavolo gli passa per la testa, calpestando tutto?

E che fine farà il progettato mercato unico euro-atlantico? E a chi fa (o faceva) più comodo?

Una breve rassegna degli editoriali che Sole24Ore, Stampa e Repubblica hanno dedicato al problema del giorno. E del futuro.

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Tra i due litiganti godono Russia e Cina

 

di Vittorio Emanuele Parsi

 

 

Non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che l’uomo più potente del mondo faccia spiare la donna più potente del mondo… se i due fossero sposati.
In fondo Tom Ponzi si procurò discreta fortuna e ancor più discreta fama intercettando e pedinando coniugi infedeli. Ma se l’uomo e la donna in questione rispondono ai nomi di Barack Obama e Angela Merkel, allora qualcosa non va. Sono almeno due i profili inquietanti in tutta questa vicenda che vede Mr. Snowden come puparo o come marionetta dello scandalo datagate.

 

Il primo è quello del rilascio a orologeria di informazioni volte non solo a screditare gli Usa e a mettere in difficoltà l’amministrazione Obama, ma a danneggiare l’intera rete di alleanze che fanno capo a Washington, sabotandone il necessario rinnovamento e ampliamento e favorendo il fronte dei loro oppositori. Il secondo è quello di un sistema che, in preda a un “delirio securitario”, non è più in grado di valutare e difendere il contributo politico gigantesco che quelle stesse alleanze hanno apportato alla potenza americana.
Personalmente non ho mai amato le teorie complottiste e la dietrologia, eppure non può sfuggire che Mr. Snowden mostri un incredibile senso politico nel gestire il rubinetto delle proprie rivelazioni. Apparentemente il signor Snowden se la prende con il suo Paese, gli Stati Uniti, ma in realtà il target dei suoi attacchi è rappresentato essenzialmente dalle opinioni pubbliche dei Paesi che vengono coinvolti dalle sue esternazioni. È in Francia e in Germania che, nell’ultima settimana, sta montando il (legittimo) risentimento nei confronti dell’America, dell’una volta popolarissimo Barack Obama e, più in generale della relazione speciale che dalla fine della II guerra mondiale lega questi due Paesi agli Stati Uniti. La Germania in particolare ha rappresentato per oltre 65 anni il vero pivot della politica europea di Washington. Noi dicevamo «Europa» e a Washington intendevano «Germania». Era così durante la Guerra Fredda, quando nessun alleato è stato considerato più cruciale della Repubblica federale tedesca da parte americana.

 

È stato così dopo la fine della Guerra Fredda, quando Washington per prima ha investito sulla riunificazione, scommettendo sulla futura riconoscente lealtà dell’antico avversario in due guerre mondiali. E ancora in tempi più recenti, ogni volta che gli Stati Uniti si sono interrogati sulla possibile nuova architettura della governance del sistema economico e finanziario globale, Berlino è stata sempre ritenuta essere l’interlocutrice necessaria e privilegiata, persino quando le politiche di rigore in cui la Cancelliera si ostinava contrastavano con le politiche espansive della Fed di Bernake.
In quest’ottica, la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) deve essere considerata qualcosa di più della mera realizzazione di un’area di libero scambio allargata alle due sponde dell’Atlantico. Essa costituirebbe semmai il nuovo architrave per una prosperità comune almeno tanto quanto la Nato lo fu per la comune sicurezza. Come molti altri casi di regionalismo di ampia scala, potrebbe diffondere e tutelare pratiche di una good governance del sistema economico internazionale capaci di attrarre anche Paesi esterni alla sua area di applicazione. Si tratterebbe di un esito politico di straordinaria rilevanza proprio quando, per molti sintomi, il declino dell’egemonia occidentale sul sistema internazionale appare inevitabile.

 

Perché questo si verifichi, però, occorre che tutti i partner siano consapevoli dei vantaggi politici di lungo termine di una simile impresa, che può anche non essere giustificata – nell’immediato – da grossi ritorni commerciali o finanziari. Non sfuggirà che proprio in Germania e in Francia, tra opinione pubblica e operatori economici, si trovano molti degli scettici circa l’utilità del TTIP. Il settore aerospaziale d’Oltralpe è uno dei competitor principali di quello americano e la Cina è il primo mercato per l’import/export tedesco. A corollario, è evidente che il protrarsi di una governance occidentale sul sistema internazionale non è certo vista di buon occhio a Pechino o a Mosca. Nulla più della diffusione di un comportamento sleale da parte americana porta acqua al mulino di chi vede il TTIP come come un ostacolo ai propri interessi. E non è mistero che Mr. Snowden viva in Russia sotto la protezione delle autorità, essendovi arrivato da Hong Kong grazie all’aiuto delle autorità cinesi.
Resta poi il secondo profilo della vicenda: quello della totale non comprensione del ruolo politico decisivo che, a partire dal secondo dopoguerra, le alleanze hanno avuto nel fare la grandezza degli Stati Uniti. Sembra quasi che i Pacific boys (and girls) dell’amministrazione Obama ne siano completamente all’oscuro, e non si rendano conto di come proprio la capacità di attrarre alleati costituisca il principale residuo vantaggio di Washington nei confronti di Pechino. Sempre che gli americani non si ostinino a seguire i cinesi nelle loro worst practices.

 

Da IlSole24Ore

 

 

 

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Il bivio per l’America di Obama

 

Roberto Toscano

 

Sarebbe un grave errore sottovalutare il caso delle intercettazioni americane del cellulare di Angela Merkel considerandolo semplicemente come un ulteriore capitolo della vicenda Snowden.

 

Le cose sono diverse perché la rivelazione che l’intelligence americana spiava il Cancelliere tedesco non proviene da informazioni tratte dai files di Snowden, ma dallo stesso governo tedesco, che non ha semplicemente reagito – come hanno fatto con più o meno vigore gli altri Paesi una volta che la loro condizione di bersagli dell’intelligence americana è stata resa nota – ma ha preso l’iniziativa della denuncia. Una denuncia, va notato, priva delle cautele che hanno spesso caratterizzato in analoghe circostanze i linguaggi di altri governi alleati degli Stati Uniti.

 

E sono diverse, e più gravi, perché una cosa è una raccolta di dati «a strascico» come in una pesca indiscriminata cui fa poi seguito una cernita del pescato, un’altra un’operazione mirata su un obiettivo del più alto livello politico.

 

L’imbarazzo di Obama di fronte alla risentita telefonata della Merkel risulta evidente, ma quello che è più interessante è cercare di capire che cosa questo episodio riveli sulla politica americana in generale.

 

Secondo quanto reso noto dal portavoce della Casa Bianca, Obama ha risposto alle vigorose lamentele di Angela Merkel assicurandola che «l’America non intercetta e non intercetterà» le sue comunicazioni. Un’affermazione che, focalizzata su presente e futuro, rimane ambigua sul passato. Non sappiamo – e non lo sapremo a meno che non ce lo dicano i tedeschi – a che periodo si riferiscano le intercettazioni, ma appare evidente come Obama stia ultimamente cercando di trasmettere in termini di immagine, e di impostare sul piano della policy, un diverso modo di operare della potenza americana.

 

Alla base di questa esigenza vi è molto di più che il pur dirompente effetto delle rivelazioni di Snowden sul colossale «aspiratore di informazioni» gestito dalla National Security Agency. Si tratta piuttosto di quella che il Presidente americano considera non a torto l’insostenibilità della hubris imperiale che ha caratterizzato finora la politica e la prassi degli Stati Uniti, in particolare negli anni di George W.Bush.

 

E’ proprio una realistica presa d’atto della necessità di abbandonare l’illusione di onnipotenza unilateralista che ha fatto seguito alla sconfitta e scomparsa dell’Unione Sovietica che spiega sia l’accettazione della scappatoia offerta da Mosca all’insensata ipotesi di una guerra americana in Siria, sia il tentativo di cogliere l’occasione della svolta all’interno del regime iraniano per cercare una soluzione alla questione nucleare.

 

I critici di Obama lo accusano di rinunciare al ruolo dell’America come «nazione indispensabile» e di spingere il Paese verso una deriva isolazionista. Ma ritenere che l’unilateralismo sia insostenibile non significa optare per l’isolazionismo. L’America, e sia i suoi alleati che i suoi avversari farebbero bene a comprenderlo, non si accinge a ritirarsi dalla politica mondiale, né sta per diventarne un soggetto minore. La notizia della fine dell’America è molto esagerata.

 

Quello che dovrà cambiare è la pretesa di eccezionalità non solo riferita al peso obiettivo di un Paese certo «più uguale degli altri» dal punto di vista militare, e in parte anche economico, ma estesa alle regole e ai limiti che ad essa non sarebbero applicabili.

 

Negli anni di Bush l’America aveva non solo praticato, ma anche rivendicato e teorizzato, un potere come quello descritto da Thomas Hobbes, in cui il Sovrano pone la norma, ma si riserva di rimanere nella totale libertà dello stato di natura. Visto che la responsabilità dell’America (soprattutto nella guerra al terrorismo) era del tutto particolare, la sua libertà d’azione non poteva essere limitata dalle regole applicabili ai soggetti «normali»: dalla carcerazione indefinita a Guantanamo di individui sospetti di terrorismo all’uso della tortura; dalle intercettazioni a 360 gradi, verso sia avversari che alleati, all’impiego di droni contro villaggi ove si sospetta si trovino militanti di gruppi ostili.

 

Pur nella consapevolezza della necessità di voltare pagina e confermare la potenza americana su basi meno arbitrarie e unilaterali, Obama, in fondo più centrista che progressista, si dibatte fra molte incertezze in una serie di contraddizioni e cerca di muoversi evitando rotture e contrapposizioni con un Congresso maggioritariamente ostile tenendo anche conto di un’opinione pubblica che non auspica certo nuove guerre, costose e che comporterebbero ulteriori perdite di «ragazzi americani», ma che sarà difficile convincere di rinunciare ad appartenere ad una Nazione Speciale.

 

Al di là del telefonino di Angela Merkel e della questione delle intercettazioni si gioca oggi, per l’America e per il mondo, una partita complessa e di estrema importanza.

 

 

da La Stampa

 

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Due scandali della democrazia

 

di EZIO MAURO

 

Ma in quale democrazia abbiamo vissuto in questi ultimi anni? Se lo chiedono probabilmente i cittadini americani, tedeschi e francesi, non se lo domandano gli italiani. Il Datagate, con lo spionaggio americano che attraverso la National Security Agency esonda dai confini della sicurezza attaccando il mondo degli affari e della finanza europea, infiltra le ambasciate di un Paese alleato, fino ad intercettare il cellulare di Angela Merkel, esplode in mezzo all’Occidente spezzandolo in due come non erano riusciti a fare né la crisi né la guerra fredda incrinando la sua stessa identità morale.
Non è infatti lo spionaggio interno ad un’alleanza l’elemento più grave. È che tutto questo sia maturato nel grembo del mondo occidentale, che dopo aver perso con l’Urss il nemico ereditario che lo definiva per differenza, e non avendo ancora trovato un vero sfidante nei competitor emergenti in Asia e Sudamerica, aveva in questa fase l’occasione per ritrovare una compiuta identità e una piena coscienza di sé come la terra della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Proprio questa presunzione identitaria – in nome della quale si è attraversato il Novecento, e oggi si risponde alle sfide del terrorismo internazionale – viene incrinata dall’abuso di autorità e dall’abuso di sovranità che gli Usa di Obama realizzano attraverso l’uso improprio dello spionaggio della Nsa.
Non vale il movente della sicurezza, che certamente dopo l’11 settembre spinge la Casa Bianca e le sue agenzie ad uno sforzo eccezionale di prevenzione e di deterrenza a tutela del Paese attaccato per la prima volta nelle Torri e nel Pentagono, uno sforzo che vista la globalità della minaccia non può che essere universale e senza confini. E tuttavia, come abbiamo sempre detto, vivere in democrazia obbliga terribilmente. Perché se le democrazie hanno il dovere – esercitando come Stati il monopolio della forza – di garantire la sicurezza nazionale, hanno anche la necessità concorrente di fare questo rimanendo se stesse, senza sfigurarsi nei principi fondamentali fino ad assomigliare alla caricatura deformante che ne fa il terrorismo.
La coppia diritti-sicurezza, oppure libertà e forza, scricchiola sempre nei tempi di crisi, sotto attacco. Dentro la legittima paura, di cui sia lo Stato democratico che la politica devono tener conto, e dentro l’ossessione securitaria (che è un’ideologizzazione della paura) il cittadino isolato nella solitudine repubblicana del contemporaneo chiede protezione prima di tutto, il che non è molto diverso dal chiederla ad ogni costo, anche con sistemi da “Dirty Hands”, come dice Michael Walzer, perché sporcano le mani dei governi. Ma la democrazia deve credere che è possibile rispondere all’aspettativa di sicurezza conservando anche nei tempi di queste guerre bianche della globalizzazione i principi che si professano nei tempi di pace e di tranquillità.
Il modo per farlo è ancorare la funzione di governo alla regola, così da evitare abusi di sovranità: regola costituzionale all’interno, regola di diritto internazionale all’esterno. Dunque regola democratica. Che si basa su un principio: la democrazia non può essere indifferente al percorso, alle procedure e agli strumenti che utilizza per raggiungere i suoi fini, perché non contano solo questi ultimi, e l’efficacia per raggiungerli. No. La democrazia al contrario deve continuamente vigilare sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza dei mezzi con i principi che professa.
Solo così, peraltro, il processo democratico di decisione può venire “controllato” dai cittadini, e non viene confiscato e oscurato nei suoi passaggi-chiave, per mostrare alla pubblica opinione soltanto il risultato finale, ottenuto chissà come, e con mezzi che vengono sottratti al giudizio, come se non ne facessero parte. La democrazia pretende che anche le sue fragilità, le sue debolezze, vengano denunciate, evidenziate e “curate” alla luce del sole perché soltanto in quella luce vive e sopravvive il concetto di cittadinanza. E perché l’opinione pubblica è intrinseca all’identità dell’Occidente, e quell’opinione chiede conoscenza e trasparenza, mentre non accetta che la decisione si sposti in luoghi segreti, oscuri e separati. In buona sostanza, in democrazia il sovrano è legittimo finché è democratico, cioè consapevole di essere soggetto alla regola. Altrimenti, deve rendere conto dell’abuso di sovranità e di potere. Proprio questo sta accadendo tra l’Europa e Obama.
La stessa cosa non sta accadendo in Italia. Qui l’inchiesta giudiziaria di Napoli e la decisione del Gup di rinviare a giudizio per corruzione Berlusconi e il suo “uomo di Stato in incognito”, cioè il faccendiere Lavitola, per aver “comperato” con tre milioni un senatore nel 2008, convincendolo ad abbandonare la maggioranza guidata da Romano Prodi mettendola in crisi, svela qualcosa di più di un abuso di potere. Rivela una violenza alla democrazia, che ha modificato la rappresentanza popolare decisa dal voto dei cittadini, deformando il rapporto tra maggioranza e opposizione e deviando il corso della legislatura. Tutto è avvenuto nell’ombra, in quanto l'”Operazione Libertà”, come la chiamava la fantasia di Arcore, era inconfessabile in pubblico. E si capisce perché. Questa operazione infatti si fonda su uno dei cardini dell’anomalia berlusconiana, quello strapotere economico (costituito anche sui 270 milioni di fondi neri portati alla luce dalla sentenza definitiva di condanna nel processo Mediaset) che consente ad un leader politico di alterare un mercato delicatissimo come quello del consenso, già adulterato dallo strapotere mediatico, che squilibra a destra ogni campagna elettorale, nell’indifferenza di tutti.
Ora, qui con ogni evidenza non c’è nessuna scusa che chiami in causa la sicurezza nazionale: se mai, quella personale del leader che visto ciò che sa di se stesso, cerca riparo nell’accumulo improprio di potere politico per costruirsi uno scudo istituzionale illegittimo. Né si può dire che la maggioranza di sinistra in quegli anni era così gracile e incerta che sarebbe morta da sola: è possibile, ma in democrazia c’è una differenza capitale tra un normale processo fisiologico di deperimento – che fa comunque parte dell’autonomia politica e parlamentare – e un assassinio di governo per avvelenamento, che fa parte invece dell’eccezionalità criminale.
Naturalmente il processo avrà il suo corso. Ma intanto c’è non solo il rinvio a giudizio di un ex Premier per un reato infamante, c’è la condanna per patteggiamento del parlamentare corrotto, che è diventato il principale e pubblico accusatore, e c’è la lettera dello “statista incognito”, cioè Lavitola, che presenta il conto ricattatorio delle sue prestazioni, enumerandole e magnificandole.
Quest’ultima vergogna nazionale è talmente clamorosa che sta facendo traboccare il vaso fragile della maggioranza e induce in queste ore un Berlusconi traballante a pensare allo strappo di governo e alla crisi, se avrà ancora i numeri. Ma il punto non è nemmeno più questo. Perché non si può aspettare che sia Berlusconi a valutare la gravità di quanto emerge a Napoli, senza che la politica, le istituzioni, i suoi antagonisti culturali e storici (cioè la sinistra) diano un nome a quanto sta emergendo e diano un giudizio. Senza che si domandino – incredibilmente – in quale Paese abbiamo vissuto in questi anni. Senza che incalzino il protagonista di questa vicenda chiedendogli di spiegare al Paese come può restare in scena – politicamente, non giudiziariamente – con un’accusa così vergognosa e circostanziata. Senza trarre le conseguenze davanti ai cittadini di una cultura politica che comporta questa pratica, la quale sconta un abuso permanente, nel segno della dismisura come fonte di potere illegittimo e dell’onnipotenza che si crede impunita.
Se le larghe intese devono silenziare la libera coscienza delle istituzioni e dei partiti, allora la stabilità diventa una ragnatela, non una risorsa. Non si tratta di anticipare sentenze. Basta molto meno per pretendere un rendiconto politico. Basterebbe una nota d’agenzia con poche parole: “Oggi il presidente del Consiglio ha avuto una conversazione telefonica con il professor Romano Prodi”. Persino questo Paese capirebbe.

 

Da Repubblica

 

 

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