Una campagna contro la fuga dei cervelli all’estero, contro l’austerità e per dare una prospettiva di futuro alle nuove generazioni. A Bologna l’occupazione in via Irnerio intende creare il primo punto di resistenza.
Al sesto anno di crisi gli effetti sulla nostra società si fanno sentire sempre più pesantemente. Disoccupazione, precarietà e ogni tipo di disagio sociale avanzano mentre la crisi si fa sistema.
Ad agosto la disoccupazione giovanile ha raggiunto il record del 41 %. Ma noi, che di quella generazione facciamo parte, considerando il numero dei precari, dei contratti a progetto e dei giovani lavoratori con redditi assolutamente insufficienti per far fronte a carovita e distruzione del welfare pubblico, sappiamo bene che la componente dei giovani in difficoltà è e sarà molto maggiore. In questa panormaica si inserisce il progetto europeo di riforma del sistema di istruzione e universitario che, sotto l’egida del “Bologna process” e passando per tutte le riforme in materia su scala continentale, punta alla realizzazione di un modello di formazione integrato a livello europeo, utile al grande capitale per mantenere alti i propri livelli di innovazione tecnologica ed essere quindi competitivo su scala internazionale. Oggi progetti e immanenza delle necessità del capitale si incontrano finalmente nella crisi.
Quel processo di riforma e di di adeguamento dell’istruzione europea non ha ricadute oggettivamente omogenee sul continente. Da un lato infatti scuole e università dell’Europa Mediterranea e Orientale stanno subendo un drastico ridimensionamento che si traduce nella chiusura di istituti, soppressione di corsi e anche di interi atenei, nonché una sempre maggior selezione fin dai gradi più bassi del percorso di studio, subendo i tagli ai finanziamenti imposti dalle politiche di austerity dettate dalla Unione Europea. Dall’altro lato le università del Nord Europa stanno diventando un modello su scala internazionale di formazione tesa a mantenere alti i livelli di competitività e innovazione. Contestualizzando questo aspetto nella crisi sistemica che sta attraversando il capitalismo in generale e quello europeo in particolare, emerge come la formazione sia uno di quei terreni in cui la nascente classe dirigente europea voglia investire. In questo senso i modelli di formazione dell’Europa Mediterranea sono irrazionali per i progetti e le volontà di sviluppo del capitale europeo, per il quale diviene quindi necessaria una razionalizzazione di quello che nel palazzo chiamano “capitale umano” e che per noi è invece la capacità creativa e propositiva dei popoli. Se continuiamo così, un piccolo plotone di paesi avrà una popolazione in età da lavoro composta per i due terzi da persone con alle spalle circa venti anni di studio, la gran parte dei paesi avrà una popolazione adulta composta quasi per la metà da persone laureate, mentre nei paesi della periferia i laureati saranno un’eccezione (in Italia ad oggi sono non più del 20% della popolazione, e le immatricolazioni continuano a diminuire). Ci saranno, dunque, due universi cognitivi, in piena coincidenza con le attuali forme di sviluppo europeo. Contemporaneamente e conseguentemente, sta emergendo in maniera preoccupante come esista una migrazione sempre più massiccia dai paesi che hanno voluto chiamare Pigs ai paesi del Nord Europa. Una grossa fetta delle “generazioni in crisi” abbandona il proprio paese per cercare una soluzione alla propria condizione in altri. La caratteristica più evidente di questa “nuova migrazione europea” sta nel dato che ad emigrare non sono più solo giovani lavoratori non specializzati, ma anche e soprattutto studenti e neolaureati in cerca di un lavoro che possa essere congruo al percorso di studi da loro intrapreso. I dati parlano chiaro: nel 2012 abbiamo avuto un aumento annuale di immigrazione dal Sud al Nord Europa che si aggira tra il 40 e il 45%, a seconda dei paesi. Meta principale, neanche a dirlo…la Germania.
Questi dati, e il dibattito che portiamo avanti da anni anche con altri soggetti attivi nel Mediterraneo, come i compagni baschi e greci, ci hanno portato allo sviluppo di una parola d’ordine che va in controtendenza rispetto alla moda di cercare altrove soluzioni individuali ad una crisi che, in quanto generale, necessita di risposte generali. Ci siamo assunti la responsabilità di dire “Noi restiamo!”. Siamo consapevoli della valenza di questa parola d’ordine nel contesto economico e politico attuale, e della smorfia che può creare di primo acchito a chiunque si veda incoraggiato a restare nella condizione avvilente del presente. Ma restare è condizione necessaria se lo vogliamo ribaltare questo presente.
Nella storia contemporanea più volte la vulgata borghese ha tentato di rilanciare “le sorti della patria” scoraggiando a parole l’emigrazione con tutti i connessi riferimenti nazionalisti, ma favorendola di fatto sfruttandone la naturale predisposizione a fungere da valvola di sfogo della disoccupazione crescente e del relativo malumore diffuso. Non è un caso che l’unico tentativo reale di arginarla sia sempre venuto dalle forze del movimento operaio, con le sue casse di mutuo soccorso, le sue cooperative e le lotte sindacali e politiche. Qual è oggi invece il rapporto tra una borghesia europea in fase costituente nei suoi segmenti nazionali e il fenomeno emigratorio? Ci pare che le cose non siano troppo cambiate, eppure due mutamenti sono avvenuti, e non vogliamo tralasciarli. Uno di questi mutamenti sta nella sostanza, dal quale comprendiamo che a quei segmenti di borghesia che agiscono su scala continentale servono lavoratori che facciano altrettanto. Sapendo che la seguente è una sintesi non onnicomprensiva delle diverse sfaccettature, possiamo comunque dire che nell’attuale Europa, quella dei servizi e del capitalismo finanziario, mentre da un lato per le mansioni dal più basso coefficiente di specializzazione si sfruttano il fenomeno immigratorio dai paesi del terzo mondo e le braccia di quei giovani europei che non hanno avuto accesso a una formazione “di serie A”, dall’altro le economie trainanti tendono sempre più a diventare bacino di accoglimento per quei giovani europei “semilavorati” dai propri sistemi di formazione e poi impacchettati definitivamente nei grandi centri di formazione o ricerca superiore di queste stesse economie, per poi inserirli nel proprio mercato nazionale del lavoro. Più che una fuga, un furto di cervelli. La logica con cui l’Euro è gabelliere internazionale del capitale nordeuropeo, quella stessa logica che produce la crisi dei debiti sovrani e l’imposizione delle politiche d’austerity, si serve della libera circolazione degli individui nei confini comunitari come leva per una ruberia di capacità creativa dei popoli del Mediterraneo.
Il secondo aspetto risiede nella forma, nel contesto culturale utile alle attuali necessità del capitale per imporre egemonia senza dover ricorrere al dominio. Da decenni la sinistra “radical chic” coltiva il mito delle possibilità culturali e di carriera offerte dalla civile e luminosa Europa del nord. Tutto condito con lo spirito libertino che da molto tempo è stato fatto proprio dalla middle class. Si potrebbe sviluppare da qui un dibattito finora latente all’interno dei movimenti, e che diventa scalino da affrontare per le generazioni che crescono nell’attuale crisi di sistema. Il mito della fuga all’estero diventa effimero e fugace per chi, lì come a casa, troverà presto condizioni di lavoro precario, subalterno, mal retribuito, con diritti messi sistematicamente sotto attacco dalla crisi. Ma purtroppo, nella vita sociale contemporanea, il “discorso del padrone” circola nelle forme più astute. Il “discorso del capitalista” è una di quelle categorie attorno alle quali è nata, negli ultimi anni, una critica allo stato di cose presente purtroppo relegata ancora nei circoli intellettuali. Negli ultimi decenni la nuova piccola borghesia ha introiettato gli atteggiamenti trasgressivi che le avanguardie intellettuali cresciute a cavallo tra Otto e Novecento avevano usato contro l’etica della normalità borghese: pensate per sconvolgere un tipo borghese vittoriano che non esiste più, le ha poste accanto a propri impegni di lavoro e le usate per rendere quegli impegni più colorati e sopportabili. E’ facendo leva su di esse che propone scenari accettabili ai lavoratori, che da tutto ciò non traggono comunque che le briciole, nell’assenza di un modello differente a cui essi possano far riferimento. Noi vogliamo una società diversa, in cui siamo noi a stabilire le nostre scelte di vita in accordo comune, non le esigenze del profitto e della mera sopravvivenza. In una fase in cui è sotto attacco la middle class stessa, soggetto centrale dello sviluppo occidentale dal secondo dopoguerra, questi ragionamenti assumono valore sempre più concreto.
Torniamo a monte. Se dunque ai fenomeni migratori del primo Novecento rispondeva un combattivo Partito Socialista, e nel secondo dopoguerra l’emigrazione dal Sud al Nord d’Italia era fonte di militanti per le organizzazioni di una sinistra di classe alla vetta massima della sua egemonia culturale, cosa osserviamo oggi che la classe è frammentata, da individuare come centro di un blocco sociale tutto da ricomporre? Osserviamo che l’attuale “discorso del padrone”, per come lo abbiamo velocemente delineato sopra, ha letteralmente colonizzato le nostre menti. La sussunzione dilaga con una facilità enorme, sopprime il discorso critico, impone fantasie obbligate e una gestione del proprio vivere interamente finalizzata alla produzione. E il risultato spesso, per gli appartenenti alle fasce popolari, è la depressione come risposta alla difficoltà di accettare se stessi in una vita sociale che, promettendo possibilità illimitate di esperienza e di consumo, fa sembrare vuota e deludente ogni singola esistenza che abbia fallito nel tentativo di ascesa proposto dal modello.
Tutto questo ci porta ancora una volta a concludere che centrale è la questione dell’organizzazione di classe. Individuarla come blocco storico nei fenomeni in cui da tempo ha ripreso a manifestare gli impulsi della propria rabbia genitrice di un futuro ancora ignoto, nelle lotte territoriali, nei comitati, nelle occupazioni, nelle rivendicazioni incompatibili. Quali saranno le nuove forme organizzative di questa classe, nel contesto particolare che si va definitivamente strutturando, accelerato dalla crisi contingente, non è una risposta che ci è dato conoscere. Sappiamo però che compito della nostra militanza è principalmente quello di tentare piccoli passi in accordo con le tendenze sociali che individuiamo. Abbiamo dunque individuato la necessità nell’attuale capitalismo europeo di servirsi dell’emigrazione dai paesi periferici (seppur sempre all’interno di uno dei centri imperialisti mondiali), e già da tempo come Rete dei Comunisti individuiamo nella rottura dell’Unione Europea e nell’Alleanza Mediterranea l’unica possibile inversione di marcia sulla via del Socialismo del XXI secolo (che come Coordinamento Giovani abbiamo articolato specificamente sul mondo della formazione). Queste due intuizioni, una sulla realtà presente del capitale e l’altra come sua possibile nemesi, trovano allora naturale ricomposizione solo sviluppando organizzazione in ogni paese del Mediterraneo e contemporaneamente costruendo strutture internazionali tra esse. Ciò è possibile solo sabotando gli ingranaggi dell’attuale divisione internazionale del lavoro, sebbene non sia possibile intraprendere alcuna strada prescindendo da essa: portare quindi avanti una discussione sull’arginamento del fenomeno emigratorio, proporlo ovunque, in ogni sede appropriata, sviluppando pensiero nuovo che ci permetta di resistere al “discorso del padrone” di stampo europeista, ricordandoci che dobbiamo affinare proposte culturali che sappiano contemporaneamente arginare l’avanzamento di visioni più provinciali, quando non esplicitamente reazionarie e razziste, che su questi stessi temi propongono il culto della famiglia, del gruppo, della nazione e delle sue identità e radici.
Perché lotta e coscienza si nutrano vicendevolmente, devono entrambe sedimentare se auspichiamo la loro generalizzazione. Noi restiamo, e nelle lotte quotidiane indicheremo a tutti questa necessità, come unica possiblità affinché una collezione di rivolte spontanee diventi fonte per un cambio di marcia, affinché un accumulo di eventi sporadici dia vita a forme organizzate del dissenso e della proposta di alternativa. Solo se accettiamo di confrontarci organicamente con la sfera privata e collettiva dei segmenti di classe, la lotta saprà essere realmente attrattiva e tornerà ad essere lotta di classe.
“NOI RESTIAMO” come parola d’ordine con cui ci prepariamo ad affrontare le giornate di lotta dell’autunno, da quella del 15 ottobre con la mobilitazione delle mondo della formazione e della precarietà allo sciopero del 18 ottobre, fino alla grande giornata di lotta per l’abitare, il reddito e la difesa dei territori del 19. Miriamo a costruire una campagna di agitazione, inchiesta e costruzione collettiva di immaginario diverso e alternativo alle politiche di austerità e sacrificio. Una campagna che sappia costruire una nuova prospettiva di futuro, che passa necessariamente attraverso l’accettazione del terreno e dei luoghi di conflitto senza cercare altrove paradisi che oggi non esistono.
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