Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi delle loro menti, scoprono, al risveglio, la vanità di quella immagine: ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. (Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza)
Il crollo della socialdemocrazia
Dalle mobilitazioni d’ottobre un primo dato emerge con chiarezza: la socialdemocrazia è un fetido cadavere e lo è, esattamente, nei termini in cui lo avevamo descritto e preannunciato nell’articolo a questo precedente. Il sostanziale flop a cui è andata incontro la manifestazione del 12 ottobre, a fronte dell’imponenza della giornata del 19 anticipata dalla non secondaria mobilitazione del sindacalismo di base del 18, conferma, attraverso un dato empirico denso di contenuti, quanto da tempo abbiamo posto all’ordine del giorno: l’impossibilità storica di una reiterazione di quel patto socialdemocratico attraverso il quale, per un’intera arcata storica, le classi dominanti insieme ai loro agenti attivi nel campo delle classi sociali subalterne hanno scongiurato l’irrompere dello spettro comunista sulla scena politica europea. A stento, il 12 ottobre, le varie anime della socialdemocrazia sono state in grado di portare in piazza diecimila persone. Se pensiamo che, tra gli organizzatori della manifestazione, vi era la FIOM, l’ARCI, SEL, il variegato mondo dell’Associazionismo, qualche pezzo del Pd e del M5S, la sponsorizzazione aperta de “Il fatto quotidiano” e quella “sotto copertura” de La Repubblica oltre ovviamente ai vari “Il manifesto” e “l’Unità” il fatto non è certo cosa da poco. Un flop, si può dire, senza precedenti che va assunto in tutta la sua importanza e conseguentemente analizzato.
Dobbiamo chiederci, in altre parole, che cosa ha ridotto a una sommatoria di contenitori sostanzialmente vuoti tutto un insieme di realtà, sociali ancora prima che politiche, le quali, per anni, avevano rappresentato non solo la base di massa della socialdemocrazia ma un insieme di strutture operative in grado di rappresentare la legittimazione sociale di quote non secondarie di subalterni. Una legittimazione che, se da un lato poggiava per intero su corpose aree di aristocrazia operaia e sulle micro quote di potere che queste potevano vantare, dall’altro riusciva a catturare , almeno in parte, le aspettative e le aspirazioni di un segmento della “nuova composizione di classe”, e in particolare di tutta quell’area sociale ascrivibile al mondo del neoproletariato intellettuale, che la fase imperialista globale ha repentinamente ascritto al mondo dell’esclusione e della marginalizzazione sociale. Andando al sodo dobbiamo comprendere il dato strutturale che ha annichilito la socialdemocrazia.
A svuotare, almeno a livello di massa, la prospettiva socialdemocratica, infatti, non è stato una presa di coscienza, se non nelle sue punte più avanzate, da parte delle masse proletarie e subalterne. Al momento non vi è, e sarebbe non solo illusorio ma estremamente stolto pensarlo, una radicalizzazione cosciente a sinistra di gran parte della classe bensì, da parte di questa, l’obiettiva presa d’atto che l’era della mediazione sociale e quindi degli istituti predisposti a praticarla è giunta al capolinea. Ciò che il 12 ottobre ha rappresentato è stata l’oggettiva scollatura tra i vari ceti politici socialdemocratici e quelle masse che per anni i primi sono stati in grado tanto di rappresentare quanto di ingannare. Nella mesta piazza del 12 ottobre erano presenti, nella quasi totalità, dirigenti, piccoli funzionari insieme alla loro fitta schiera di portaborse. In poche parole tutti coloro i quali con la socialdemocrazia hanno vissuto e prosperato sia sotto il profilo monetario, sia attraverso la gestione di quote più o meno ampie di potere sociale e amministrativo.
Certo, sarebbe stolto non riconoscerlo, un qualche rapporto con le masse i burocrati socialdemocratici sono ancora in grado di esercitarlo. Ciò è vero, in particolare, per la FIOM e il mondo dell’Associazionismo. Due ambiti che, i fabbrica e nella società, possono vantare tuttora qualche presa, tanto da condizionare alcune quote di proletariato. Va riconosciuto, infatti, che dentro questi mondi vi sono segmenti operai e proletari onesti. Proletari e operai che, in molti casi, esplicano una militanza di base senza egoismi e carrierismi di sorta. Sarebbe stupido regalarli al nemico. Nei loro confronti va sempre lasciata una porta aperta ma, e su questo occorre essere estremamente chiari e privi di tentennamenti, questo diventa possibile solo se nei confronti della socialdemocrazia e dei suoi dirigenti non vi è alcuna sorta di cedimento. Tutto l’apparato socialdemocratico, tutte le linee politiche e conseguenti azioni pratiche della socialdemocrazia devono essere poste continuamente sotto scacco dall’iniziativa comunista. Nessun burocrate socialdemocratico deve avere la benché minima legittimità dentro i territori proletari. L’unico fronte possibile con la socialdemocrazia è il fronte che nasce dal basso. È il fronte che nasce dentro la lotta. Nessun settarismo verso la pur residuale base di massa della socialdemocrazia ma la più feroce intransigenza nei confronti dei suoi capi, grandi e piccoli. Se, di fronte a ciò, qualcuno griderà che siamo a classe contro classe non bisogna avere timore di rispondergli: Sì. La nostra politica nei confronti dei cani da guardia della socialdemocrazia è esattamente classe contro classe. Fatta questa doverosa e necessaria precisazione torniamo ad occuparci del tema che ci sta particolarmente a cuore: la frattura tra masse e socialdemocrazia.
Di ciò, negli ultimi tempi, se ne sono avuti molteplici sentori a partire da quello che, a ragion veduta, può considerarsi il grado minimo di consenso che le classi subalterne mostrano nei confronti delle classi dominanti: la partecipazione elettorale. Votare significa pur sempre riconoscere alle classi dominanti il diritto di governare e, da parte delle classi subalterne, di essere governate. Da tempo osserviamo come, all’incirca, il cinquanta per cento della popolazione, per lo più appartenente al mondo dei subalterni, abbia preso congedo dal cretinismo parlamentare, mentre una fetta consistente di essi riversa una qualche aspettativa nel M5S il quale, in virtù della sua demagogia populista antisistemica, riesce – ancora per quanto? – a catturare il consenso di tutti quei settori sociali spuri pesantemente colpiti dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Un dato che, senza troppi rigiri di parole, evidenziano gli stessi istituti specializzati in sondaggi. Ciò che la stessa borghesia ha riconosciuto è come, nel mondo attuale, le classi dominanti, per giunta profondamente divise al loro interno, possano contare sull’appoggio di circa un terzo della popolazione, mentre i due terzi hanno perso ogni tipo di legame con il Paese formale. Tutto ciò non deve stupire poiché, quanto i nudi e freddi dati statistici raccontano, non sono altro che l’esatta fotografia degli effetti cha l’attuale grande trasformazione ha prodotto nella ridefinizione dei rapporti tra le classi. Il “cuore politico” di questa ridefinizione è dato esattamente dalla non rappresentabilità di gran parte della popolazione.
Se, in un’epoca ormai trapassata, la borghesia non poteva governare senza avere dalla sua parte la maggioranza della popolazione – di qua la necessità oggettiva di mettere a regime il “patto socialdemocratico” – oggi, tutto ciò, è stato abbondantemente superato. La borghesia governa in quanto minoranza poiché, questo il succo della questione, gli operai, i proletari e i subalterni sono stati posti ai margini della società e, in virtù di ciò, deprivati di ogni ipotesi di rappresentanza politica. Con ciò l’eclissi della socialdemocrazia la quale, come nel caso del 12 ottobre, non può fare altro che mettere in scena un insieme di tristi rituali i quali, più che a Come eravamo, rimandano a Viale del tramonto anche se, non ce ne vogliano gli attuali protagonisti, la regia di Rodotà non è comparabile a quella di Billy Wilder e Landini non regge il confronto con la Swanson.
La crisi della socialdemocrazia, la cui funzionalità era il frutto soprattutto di un contesto geopolitico delineatosi in seguito agli esiti del Secondo conflitto mondiale, ha origini strutturali poiché, per il modello produttivo inaugurato dal capitalismo globale, la forza lavoro deve essere pura e semplice appendice del ciclo di valorizzazione del capitale, ovvero la sua dimensione deve iniziare e concludersi in quella di capitale variabile tout court, senza alcun altro tipo di valenza. Dentro il ciclo del capitalismo globale la forza lavoro deve essere deprivata non solo della sua prospettiva storica ma persino la dimensione “economicista” – quella sulla quale a lungo aveva fatto leva la politica opportunista e riformista socialdemocratica – deve essere espunta dal suo orizzonte.
Insieme al partito politico anche la semplice organizzazione economica dei lavoratori non deve più avere una qualche funzione per le masse salariate e subalterne. Gli stessi sindacati di regime, giorno dopo giorno, vedono corposamente ridimensionata la loro funzione tanto che, in un futuro neppure troppo lontano, non è impensabile la loro trasformazione, almeno per quelle piccole quote che riusciranno a sopravvivere a se stesse, in semplici apparati polizieschi deputati al controllo e al governo dispotico della forza lavoro. Ciò a cui assistiamo è l’affermarsi di un modello economico e sociale che per funzionare a pieno regime e senza ostacoli deve annichilire ogni forma di identità della classe, deprivarla di ogni vincolo collettivo e solidale, trattandola come un magma senza volto. Per questo, la condizione degli attuali dannati della metropoli, ha non poche affinità con quella dei dannati della terra. Tuttavia non sempre le ciambelle riescono con il buco. Se questo è lo scenario prefigurato dal “piano del capitale” tra le masse aleggia tutto tranne che apatia e rassegnazione.
Una parte di queste masse, come proveremo ad argomentare in seguito, ha iniziato a guardare con interesse le diverse realtà che animano la sinistra comunista e anticapitalista iniziando a porsi concretamente il problema, qui e ora, dell’organizzazione di massa, mentre la sua maggioranza sembra rimanere, almeno per il momento, ancora alla finestra. Il che, in fondo, è quanto mai comprensibile. La fiducia delle masse non è qualcosa che si conquista e acquisisce con qualche colpo di mano mediatico bensì attraverso un costante, tenace e testardo lavoro quotidiano in grado di dare risposte concrete a questioni concrete ma non solo. La fiducia delle masse si conquista solo se si è in grado di porre parole d’ordine chiare, nette e precise ma, ed è questo è il cuore della questione, soprattutto ponendo una netta linea di divisione tra noi e il nemico. Solo individuando con chiarezza chi è il nemico è possibile conquistare in maniera non effimera la fiducia delle masse. Solo offrendo loro una prospettiva di potere è possibile costruire, in maniera non occasionale, la forza proletaria pronta a dare l’assalto al cielo. In questa direzione si sono mosse le giornate del 18 e del 19 ottobre.
Il modo in cui il governo imperialista e la sua stampa si sono presentate all’appuntamento meritano di essere osservate con una qualche attenzione poiché, quanto non accaduto, è in grado di raccontarci qualcosa di non secondario sugli scenari politici che le manifestazioni del 18 e 19 hanno contribuito a delineare con fermezza. Soprattutto il 19 è stato il vero banco di prova di tutto ciò.
Il sangue dei vinti
Subito dopo la manifestazione del 19 abbiamo assistito a uno spettacolo tanto indecoroso quanto esplicativo da parte degli organi di stampa di regime e dei loro innumerevoli pennivendoli. Con ogni probabilità, infatti, editoriali e articoli di cronaca erano già, nella loro cornice generale, belli che confezionati. Ciò che da questi articoli doveva grondare era il sangue degli antagonisti vinti insieme al loro essere parte del tutto trascurabile dello scenario pubblico. Un’esigua minoranza, senza alcun legame reale con le masse, facilmente rubricabile come pura e semplice questione di ordine pubblico. Una questione di polizia risolta, senza andare troppo per il sottile, con metodi polizieschi o nel suo esatto corollario: la medicalizzazione del conflitto.
Questo scenario, la cui messa in forma gli stessi media avevano contribuito a preparare da tempo, era l’esatta cornice che stato e padroni avevano cercato di delineare. Uno scenario che, almeno sino al 18 sera, tutta la stampa di regime aveva abbondantemente contribuito a costruire come realtà oggettiva. Ma qual era il piano predisposto dalle varie agenzie della borghesia? Un piano semplice e lineare. Attraverso il terrorismo mediatico fare in modo che, alla fine, la profezia si auto avverasse. Il 19 ottobre, Roma, doveva essere la pietra tombale di ogni “dissenso” organizzato alle politiche imperialiste della filiale locale della BCE. Con ogni mezzo necessario il numero dei manifestanti romani doveva essere assottigliato. Ai più doveva essere inibito l’accesso alla città eterna in modo che, alla fine della fiera, in piazza riuscissero ad arrivare solo coloro i quali, da tempo, erano stati etichettati come “professionisti della guerriglia”. A quel punto il gioco era fatto. Le forze dell’ordine avrebbero avuto mano libera nel massacrare i “soliti noti”, la magistratura, meglio se di matrice democratica, avrebbe potuto esercitare a pieno il suo giustizialismo senza essere accusata di ledere le libertà democratiche di alcuno, giornali e tv, insieme agli immancabili programmi raffinati di approfondimento, avrebbero potuto fare il pieno. I pennivendoli di Repubblica e dell’Unità si leccavano già i baffi, mentre i vari showman democratici, da Fazio a Santoro, avevano sicuramente già predisposto qualche “inserto speciale” con l’immancabile presenza di un ben addestrato pool di specialisti: sociologi, politologi e opinionisti di provata fede “democratica e progressista” al fine di commentare e analizzare le drammatiche vicende consumatesi per le vie di Roma e non vi è dubbio che, nel frangente, i cani da guardia avrebbero svolto al meglio il loro ruolo.
Ascritti, con tutte le retoriche del caso, al mondo del degrado, della devianza e/o del malessere sociale sarebbero stati velocemente ascritti al mondo del patologico il quale, come è noto, è sempre alle prese con una catalogazione in grado di rinverdirne la tassonomia. Con ogni probabilità, sia in virtù della sua intelligenza giornalistica sia per la frazione di borghesia che rappresenta, dal coro si sarebbe distaccato Mentana il quale, di quella giornata, avrebbe pur sempre cercato di spiegarne le origini strutturali piuttosto che accodarsi agli esegeti del malessere e/o del nichilismo diffuso.
La borghesia imperialista è pur sempre la frazione più avanzata del fronte borghese e non è certo un caso che, nel mefitico panorama giornalistico nostrano, La 7 e il Sole 24 Ore risultino gli organi mediatici più “oggettivi” o, per lo meno, poco proni alla riduzione semplicistica della politica o, cosa che nel nostro Paese è all’ordine del giorno, allo scandalismo infarcito da gossip. Non per caso, solo per citare un esempio in grado di raccontare molto sul tenore del “nostro” ceto giornalistico, mentre tutti i giornali focalizzano, assolutizzandola, l’attenzione sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, come se questo fosse l’ombelico del mondo, il Sole 24 Ore si soffermava sulla “bolla del dollaro” e le sue ricadute globali. Chiusa questa sintetica ma necessaria parentesi sulle amenità del giornalismo nostrano proseguiamo.
Domandiamoci che cosa è successo a Roma e per quali motivi l’intero progetto governativo è andato in fumo. Una prima non secondaria risposta la forniscono i numeri. Senza alcuna esagerazione in piazza, il 19 ottobre, vi erano almeno 120.000 persone. 120.000 persone che, a differenza di altre volte, non avrebbero potute essere divise in buoni e cattivi. In piazza, questa volta, non c’erano gli Agnoletto o i Casarini di turno e neppure, perché avevano già tristemente sfilato il 12, le varie appendici della socialdemocrazia. In poche parole quel corteo non poteva essere politicamente diviso. Si parte insieme, si torna insieme! Un modo di fare non semplicemente di dire. Nonostante i non secondari sforzi e accorgimenti messi in atto dal governo non è stato possibile limitare più di tanto la partecipazione alla manifestazione. Questo il primo dato.
In seconda battuta un ruolo sicuramente importante lo ha svolto il carattere militante del corteo. Tutti i partecipanti sapevano di non andare incontro né a una scampagnata né, tanto meno, a un pranzo di gala. La possibilità di un pesante attacco da parte delle forze dell’ordine era tutto tranne che un’ipotesi accademica. Ancora poche ore prima della manifestazione ciò era quanto aleggiava nell’aria e alcune operazioni ad hoc condotte dalla polizia la sera precedente andavano esattamente in tale direzione. Per quanto non politicamente omogeneo il corteo ha mostrato di essere in toto in grado di reggere la sfida. La manifestazione sarebbe stata difesa, senza se e senza ma. Tutto questo non poteva che far saltare l’intero programma governativo il quale, per togliersi d’impaccio, ha dovuto ricorrere a un escamotage: Lasciamoli giocare, che, buffoneria a parte, mostrava quanto la quantità e la qualità della manifestazione avessero mandato in corto circuito l’intera cornice predisposta per la giornata.
Certo, nessuno si fa illusioni, sotto il profilo militare il corteo avrebbe anche potuto essere battuto ma, ed è questo il punto, per farlo si sarebbe dovuto spostare di molto in avanti l’asticella della forza repressiva. In altre parole si sarebbe dovuto velocemente declinare verso un modello non distante dalla Turchia o dall’Egitto con tutte le ricadute politiche del caso tra le quali la non secondaria possibilità che, sulla base di quell’esperienza, le masse avrebbero compiuto un ulteriore passo avanti, un ulteriore decisiva esperienza, nel loro processo di radicalizzazione. Il che non è certo quanto un governo delegittimato a livello di massa – la coalizione governativa è di poco superiore al trenta per cento del corpo elettorale – profondamente spaccato al suo interno e, aspetto decisivo, incapace di risolvere uno qualunque dei problemi che lo attanagliano, può augurarsi. Un governo che sta in piedi con lo sputo e il cui reale collante è la paura dei deputati e dei senatori di perdere i loro scranni parlamentari, non può permettersi grandi cose. Neppure imitare Erdogan. E con ciò arriviamo al vero nocciolo della questione o più esattamente al “cuore politico” di quanto il 19 ottobre ha messo in forma tanto da far fare marcia indietro alle strategie repressive e poliziesche del governo.
A nostro avviso a essere determinante, ancor prima del numero e della determinazione militante della piazza, è stata la composizione sociale che, nella giornata del 19, ha trovato un significativo momento di coesione non fittizia. L’aspetto importante del 19 è stato un enorme e determinato corteo militante formato, però, non da soli militanti. Può sembrare un gioco di parole ma non è così. In piazza, accanto e uniti ai militanti politici che hanno organizzato e trainato le lotte, vi erano interi pezzi di società. Il popolo della Val Susa, insieme al popolo siciliano, i movimenti per la casa insieme agli immigrati, i rifugiati politici insieme ai vigili del fuoco, gli operai dei trasporti insieme agli studenti precari, i dipendenti pubblici insieme ai facchini e con loro vi erano quell’insieme di realtà sociali che hanno fatto sì che, da un lato, il 18 ottobre non fosse il semplice rituale di una testimonianza antagonista ma l’inizio di un possibile fronte di massa organizzato dall’altro che, il 19 ottobre, non si trasformasse nella mattanza sperata e organizzata bensì la concreta messa in forma di un movimento politico in grado di porre sotto assedio le politiche imperialiste della BCE e dei suoi vassalli locali.
In piazza non vi erano solo le avanguardie politiche ma un’avanguardia di massa espressione di lotte e tensioni sociali particolarmente forti e radicate soprattutto sul territorio e in misura minore dentro gli ambiti lavorativi. Questa presenza, assolutamente non prevista, è all’origine della forzosa marcia indietro governativa. “Lasciateli giocare”. Ma chi dovevano lasciar giocare? Questo, ovviamente, non sono stati in grado di spiegarlo. Dovevano lasciar giocare i migranti, i rifugiati, gli occupanti delle case? Oppure i facchini, i vigili del fuoco o gli abitanti della Val Susa? E giocare con chi e con che cosa? Forse ciò che il governo non ha capito è che è esattamente finito il tempo dei giochi. È finito il tempo dei bancomat e delle vetrine infrante. Ciò che, pur con tutta la cautela del caso, sembra possibile affermare è che il 18 e il 19 ottobre l’adolescenza, che per sua natura si porta appresso sempre qualche vena di nichilismo, del movimento antagonista e di classe è terminata. All’orizzonte se ne prefigura la giovinezza la quale, se da un lato porta con sé quella “spensieratezza” sempre necessaria per poter “dare una spinta alla Storia”, guarda alla sua adolescenza con occhi ormai adulti. Non è qualche vetrina di lusso o la momentanea dismissione di pochi bancomat che ci interessa. Abbiamo la presunzione di lavorare per qualcosa di più. La costruzione del partito rivoluzionario, l’organizzazione di massa del proletariato, la sua costituzione in classe e la sua dittatura rivoluzionaria sono il nostro programma. Il terrore rosso, nel caso, il nostro strumento. Dalla borghesia e da Robespierre qualcosa abbiamo imparato. E lo abbiamo fatto per bene! Ma torniamo sul pezzo.
Un capitale enorme, per ora forse più sociale che politico, si è mostrato nel corso delle due giornate di ottobre. Senza entusiasmi di troppo ma con la lucida consapevolezza delle enormi praterie che si sono oggettivamente aperte per il movimento comunista, dobbiamo metterci immediatamente al lavoro e dobbiamo farlo partendo esattamente dalle indicazioni che le due giornate hanno posto all’ordine del giorno. Si tratta, in poche parole, di cogliere il tipo di indicazioni strategiche che, in potenza, il movimento di massa ci ha fornito. Per le avanguardie rivoluzionarie, oggi, il tempo degli alibi è finito. Il crollo della socialdemocrazia insieme alla sua obiettiva difficoltà a tornare in gioco lasciano libero campo alle forze comuniste. I presìdi socialdemocratici e le loro casematte sono saltate, solo le forze comuniste possono diventare il reale punto di riferimento delle masse. Questo vale in primo luogo per quella formidabile avanguardia di massa della quale le giornate del 18 e del 19 ottobre ne sono state la sintesi cristallina senza dimenticare, però, che il vero obiettivo strategico del movimento comunista non può essere altro che la conquista di quei milioni di subalterni che, oggi, si limitano a stare alla finestra. Attraverso l’organizzazione dell’avanguardia di massa della classe dobbiamo arrivare esattamente a loro. Oggi non solo Bisogna sognare! Ma è possibile vincere. L’epoca del forzato minoritarismo sembra essere giunta al termine. Con Lenin: “Abbiamo un mondo da conquistare”, con Jim Morrison: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso!”.
Andiamo a lezione dalle masse e cominciamo a ragionare sui compiti immediati che ci aspettano.
Assedio
Assedio è stata la parola d’ordine che ha unificato le giornate del 18 e del 19 ottobre. Intorno a questa occorre ragionare. Iniziamo, intanto, con il porre in evidenza grandezza e limiti di ciò che si è prodotto nelle due giornate. Partiamo, soprattutto, dalle parzialità obiettive che in quella piazza si sono date appuntamento. Sicuramente, e non avrebbe potuto essere altrimenti, tra gli attori sociali protagonisti era assente un discorso politico unitario. Questo per almeno due buoni motivi. Il primo di natura esclusivamente politica. Nessuna forza organizzata poteva vantare un ruolo egemone nelle mobilitazioni. Il che non deve stupire. L’organizzazione politica, il partito, non è qualcosa che può darsi attraverso un artifizio. Il partito è ed è sempre stato il frutto di un processo storico. È un’operazione “materiale” che non può essere elusa attraverso sommatorie posticce di ceti politici in via di esaurimento o tramite la rimessa in circolo di qualche vestale del credo comunista.
Il partito è sempre il frutto di una condizione materiale storicamente determinata che dalle masse torna alle masse. Parte cosciente della classe, il partito, non può che vivere in unità dialettica con questa. Tutto il resto, dal trasformismo bertinottiano al dogmatismo bordighista, è pura schermaglia intellettualistica esterna ed estranea alla materialità della lotta di classe. La forma partito e lo stesso suo programma non possono essere altro che la sintesi delle contraddizioni di classe e delle contraddizioni di una determinata fase di un modo di produzione storicamente determinato. Il programma e la tattica del partito sono obbligati, pena l’archiviazione nel museo della Storia, a misurarsi costantemente con il divenire.
Impadronirsi della fabbrica, instaurare i Consigli operai e porsi il problema di governare quel tipo di produzione, portando le forze produttive al massimo grado di sviluppo, era e non poteva essere altrimenti il programma operaio interno a un determinato contesto storico. Di pari grado l’alleanza con i contadini medi e poveri era l’asse strategico intorno al quale, anche nei Paesi imperialisti, si dava la concreta possibilità di portare l’assalto al cielo. Operai e contadini, una volta posto saldamente tra le loro mani il potere politico, erano fortemente cointeressati a gestire e sviluppare quel modello di produzione fino a diventare direttamente competitivi con i Paesi capitalistici più progrediti e avanzati. Sotto tale profilo l’URSS ne ha rappresentato l’elemento paradigmatico. In poco più di dieci anni, a partire dal 1926, l’URSS recupera cento anni di arretratezza. Questo enorme balzo le consente di presentarsi con tutte le carte in regola all’appuntamento topico con la Storia. Sono i dieci anni di industrializzazione “forzata” che le consentono, eroismi a parte, di annientare il nazifascismo. Ma questa è la storia di ieri.
Torniamo al presente. È minimamente realistico pensare, tanto per fare un esempio non proprio quantitativamente irrilevante, che i lavoratori dei call center possano trovare sensata l’idea di porre sotto il loro controllo il loro luogo di lavoro? Difficile dare una risposta affermativa. Quanti sono, nei nostri mondi, i proletari e gli operai impiegati in produzioni vagamente strategiche? Una quota assolutamente minima se non irrisoria. Se, come i dati statistici raccontano, gran parte della forza lavoro salariata è impiegata in attività produttivi e di servizio di basso profilo, per ogni operaio industriale vi sono due operai pizzaioli, quale interesse possono avere queste masse a prendere tra le loro mani questo tipo di produzione? Possiamo immaginare la fase di transizione al socialismo attraverso il controllo operaio di pizzerie, bistrot, call center ecc? Evidentemente no. Possiamo pensare la transizione al socialismo attraverso la gestione in prima persona da parte dei salariati del modello produttivo esistente? Ma, soprattutto, tutto ciò sta nelle corde delle masse subalterne e salariate contemporanee? Può, il partito, pensare di porre tutto ciò tra parentesi? Evidentemente no. O il partito è espressione di queste masse o il partito non è nulla. Allora, se quanto argomentato è vero, non deve stupire che, nel presente, nessuna organizzazione politica può fregiarsi del titolo di partito. Nella migliore delle ipotesi, nel presente, è possibile e pensabile che, volta per volta, singole realtà possano agire da partito ben sapendo, però, che agire da partito è ben distante dall’essere partito nel senso pieno del termine. Inutile non riconoscere questo limite. I limiti, per poter essere superati, vanno presi per le corna, non ignorati.
Ma la parzialità politica è soprattutto il frutto di una parzialità sociale ed è esattamente ciò che le giornate del 18 e del 19 ottobre ci raccontano. In piazza nessun blocco sociale presente poteva vantare una qualche pretesa egemonica sugli altri. Suggestioni a parte, i valsusini, non poteva vantare un surplus di rappresentanza rispetto a coloro che hanno portato avanti le lotte per la casa così come, a loro volta, questi non potevano vantare qualcosa in più rispetto ai lavoratori della logistica e così via. In quella piazza tutti potevano vantare lo stesso grado di legittimazione. In altre parole non vi era una figura sociale, il metalmeccanico tanto per citare l’esempio noto ai più, la quale, a partire dalla propria forza organizzata, era in grado di dirigere e governare l’insieme delle lotte sociali. Bisogna riconoscere, il che non è né un bene né un male ma un semplice dato obiettivo, che oggi tutte le lotte rivestono, grosso modo, lo stesso grado di importanza. Una, sicuramente, è in grado di alimentare l’altra ma nessuna è in grado di tirare la volata alle altre. In nessun contesto, oggi, è pensabile di trovare quell’accumulo di potere operaio concentrato, tra gli anni Sessanta e Settanta, a Mirafiori. Tutto ciò ha conseguenze non irrilevanti per la messa a punto della tattica.
In un’altra epoca, sfondare a Mirafiori, significava portare lo scompiglio tra le fila nemiche. Le lotte di Mirafiori aprivano prima e scompaginavano poi, al pari di veri e propri reparti corazzati, il fronte nemico il quale, in piena ritirata, poteva essere facile preda anche dei reparti leggeri della classe. Difficile pensare, infatti, a una qualche conquista da parte degli addetti al commercio senza le unità corazzate dei metalmeccanici. Difficile pensare a un contratto di lavoro minimamente decente da parte degli addetti alla ristorazione senza la presenza dell’artiglieria pesante dei siderurgici. In un’altra epoca, proprio in virtù delle gerarchie che un determinato modello produttivo stabiliva anche dentro alla classe, la lotta di alcuni settori diventava strategica e, intorno a quelle battaglie, poteva e doveva darsi tutta la tattica dei reparti proletari meno agguerriti o, più semplicemente, esterni ed estranei alla centralità del processo produttivo. Di tutto ciò, oggi, non vi è sentore e sarebbe del tutto privo di senso andare alla ricerca di qualcosa o qualcuno in grado di, pur sotto altra forma, reiterare un simile modello. Nessuna lotta sembra in grado di aprire un varco entro il quale, attraverso un processo a cascata, tutti gli altri possano infilarsi con profitto. Tutto ciò non va teorizzato ma, molto più prosaicamente, assunto nella sua freddezza analitica.
Per non incorrere in possibili malintesi, ai quali le argomentazioni sopra esposte potrebbero condurre, è bene spendere qualche parola su quanto sostenuto. Riconoscere il venir meno di una figura sociale egemone, il che rimanda all’assenza di un “cuore produttivo”, non significa cadere nell’indistinto o nell’occasionalismo. Non significa, sulla scia di alcune ipotesi manifestatesi tra la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta del secolo scorso, considerare conclusa l’era del “politico”, a fronte di un’epoca puramente plasmata sul sociale. Così come, sostenere il venir meno di una figura sociale centrale, non significa, in automatico, trasferire il conflitto, in maniera indeterminata, all’interno di ogni rapporto sociale deprivato di una qualunque valenza politica. In altre parole né le derive deleuziane dell’ultima Prima linea, né le Gocce di sole del Partito guerriglia né la loro sistematizzazione teorica e disarmata del postoperaismo rientrano nel nostro orizzonte teorico, politico e organizzativo. L’obiettivo che realmente ci poniamo, sulla base del marxismo e del leninismo, è la costruzione del partito comunista all’interno della fase imperialista globale. Il partito storicamente determinato dalle condizioni materiali del presente, non la sua Epifania. Per questo, come tutte le rivoluzioni proletarie, guardiamo al futuro e non al passato. Nessuna Repubblica romana può illuderci e/o ingannarci. La grandezza di Robespierre, Marat e Sant Just potevano e dovevano guardare alle virtù di Roma ma non così funzionano le cose per il proletariato. Lo sappiamo, teoricamente, dalla Ideologia tedesca, praticamente dai giorni della Comune.
Torniamo, pertanto, alla parola d’ordine dell’assedio provando a decifrarne il contenuto strategico alla luce delle considerazioni fino a ora argomentate.
Chiediamoci innanzitutto in che modo deve essere praticato l’assedio. Classicamente ci troviamo di fronte a un bivio. Si può ipotizzare l’assedio della principale fortezza avversaria poiché, una volta conquistatala, il nemico non ha più, dietro di sé, un solo metro di territorio sicuro. In questo caso tutte le principali forze vanno raccolte intorno alla fortezza nemica la quale deve ritrovarsi nell’impossibilità di muovere un solo passo. In tale scenario la finalità dell’assedio non può che essere l’espugnazione della cittadella fortificata. Conquistata quella, le truppe possono dilagare. Uno scenario che, palesemente, oggi non è possibile ipotizzare poiché in nessun luogo è possibile concentrare una simile forza strategica. Nessuna armata dei metalmeccanici, o chi per essi, può essere mobilitata a tale fine. Così come nessuna artiglieria siderurgica può coprire l’avanzata delle truppe d’assalto. Quel modello di assedio, fondato sulla stabilizzazione delle forze, non è realisticamente praticabile. Non solo mancano le truppe ma è del tutto assente la cornice entro cui quel modello bellico era messo in forma.
Allora, se parliamo di assedio, dobbiamo farlo avendo a mente un altro modo di belligeranza. Ed è esattamente qua che alcuni nodi strategici si pongono. In particolare dobbiamo chiederci se, dentro lo scenario attuale, non sia necessario far ricorso a quel modello di combattimento inaugurato da Lawrence d’Arabia nella guerra nel deserto il quale, per molti versi, può considerarsi la prima organica sistematizzazione della guerra asimmetrica. Un modello che, per svariate ragioni, sembra essere la forma di combattimento ideale per le classi subalterne contemporanee.
Dobbiamo chiederci, insomma, se praticare l’assedio oggi non significhi altro che, dentro un contesto metropolitano, far sì che mille punture di insetto facciano crollare il rinoceronte imperialista. Dobbiamo far sì che le lotte non diano tregua al nemico e che questi si trovi ad affrontare un assedio in qualunque contesto. Ma questo non è qualcosa che si improvvisa o che può essere delegato alla spontaneità delle masse. Esattamente qua, nell’organizzazione delle lotte, si dà il primo passaggio della costruzione del partito. Dobbiamo, se vogliamo essere realmente un’avanguardia in grado di agire da partito, essere in grado di organizzare il più ampio fronte di lotta possibile. Dobbiamo essere in grado di mobilitare le immense forze di classe che oggi sono alla ricerca di un reale punto di riferimento. Ma dobbiamo farlo mettendo al centro della nostra iniziativa la lotta per il raggiungimento, qui e ora, di obiettivi materiali e concreti, insieme a una prospettiva di potere diverso e distante dalle stalle d’Augia del parlamentarismo e della democrazia imperialista. Dobbiamo dire, forte e chiaro, che tra noi e le istituzioni putrefatte della democrazia imperialista vi è un solco incolmabile. Per questo non dobbiamo confonderci, ma anzi dobbiamo rimarcare continuamente, nella teoria e nella prassi, la distanza da qualunque “partito degli assessori”. Dobbiamo sognare non rimettere in circolo un qualche incubo del passato.
Tutto questo in un contesto storico in cui, la tendenza alla guerra, si manifesta senza inibizioni di sorta. Ovviamente ciò non è, e neppure lo può essere, immediatamente chiaro ed evidente ai movimenti di massa. Spetta alle avanguardie comuniste, non solo spiegare quanto sta accadendo, ma modellare lotte e organizzazione avendo costantemente a mente lo scenario oggettivo, quindi non sovvertibile, entro il quale le donne e gli uomini saranno obbligati a fare, indipendentemente dalle rappresentazioni che la falsa coscienza può continuare a fornir loro.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa