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Cambiare tutto per non cambiare niente

Sulla qualità delle analisi di Augusto Graziani ci sembra folgorante questo intervento di 30 anni fa, che – cambiando nomi e formule – sembra scritto per l’oggi.

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 CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE[1]

Una spregiudicata analisi
della politica economica del nostro Paese

Augusto Graziani

Manterrò le mie osservazioni al livello del commento ad eventi che mi sembrano degni di essere ripercorsi e ricostruiti dell’esperienza italiana di quest’ultimo decennio. Cercherò di fare una sorta di ricostruzione logica degli eventi, anche se, come tutte le ricostruzioni logiche, forse peccherà per mancanza di alcuni elementi interni.

Un punto di partenza di questa ricostruzione, forse, possiamo trovarlo in quello che, con un termine un tantino esagerato e drammatico, potremmo chiamare il capovolgimento della politica valutaria del nostro Paese nel 1979, l’anno dell’adesione al sistema monetario europeo.

Negli anni precedenti al ‘79, le autorità monetarie italiane avevano seguito la famosa linea della svalutazione differenziata, approfittando del regime di cambi flessibili (che tecnicamente consentiva questa manovra), cercando .di tenere la lira tendenzialmente svalutata rispetto all’area del marco, in maniera da favorire le esportazioni e cercando, invece, di ridurre la svalutazione nei confronti del dollaro, per ridurre il costo delle importazioni. Attraverso questa manovra del cambio, in quegli anni di cambi flessibili sul piano internazionale e di continua inflazione che le autorità sembravano disposte ad accordare, si era messa in moto una spirale di svalutazione e inflazione, di aumenti dei salari monetari, con probabile riduzione dei salari reali che, in fondo, favoriva gli esportatori e gli imprenditori in generale.

Dopo il ‘79, viceversa, con l’adesione al sistema monetario europeo, il rapporto di cambio con il marco doveva essere tenuto tendenzialmente stabile e quindi la politica valutaria si è mossa entro vincoli molto diversi. A partire dall’’80, poi, il dollaro, invece di svalutarsi rispetto al marco, aveva iniziato la sua corsa ascendente che è durata fino a poche settimane or sono.

In questo diverso contesto internazionale, però, anche le autorità italiane fanno scelte diverse. Se noi osserviamo i fatti come si sono svolti, ci accorgiamo che le autorità monetarie hanno cercato di tenere duro rispetto al marco, per cui la svalutazione della lira è stata molto inferiore rispetto al differenziale dei prezzi interni dei due Paesi e oggi la lira, in termini reali, si è rivalutata sul marco, in confronto al 1979. Viceversa, rispetto al dollaro, la lira si è svalutata come tutte le altre valute mondiali, ma si è svalutata ancora di più di quello che i prezzi monetari interni dei due Paesi non segnalassero; per cui attualmente la lira è sottovalutata rispetto al dollaro, a partire dallo stesso anno di riferimento.

Qual è il senso di questa politica? Non è, ovviamente, quello di ottenere degli scopi diretti, perché in questo modo si penalizzano le esportazioni verso l’area europea. E’ vero che si incoraggiano le esportazioni verso l’area del dollaro, però questa è un’area nella quale l’industria italiana stenta ancora ad entrare in massa, anche perché la rivalutazione del dollaro su tutte le altre valute, così come ha favorito gli esportatori italiani, ha favorito anche gli esportatori di altri paesi. Ne deriva che non c’è un vantaggio differenziale specifico portato unicamente e selettivamente all’economia italiana. Ne consegue che non ci sono elementi razionali diretti per questo capovolgimento della politica valutaria; ci sono tuttavia degli elementi razionali indiretti.

Forzare la ristrutturazione

È stata una dichiarazione ufficiale dell’allora Ministro del Tesoro Andreatta ad indicare una linea interpretativa, anche se non completa, di questo cambiamento di rotta.

Andreatta dichiarò che l’unico modo per stroncare l’inflazione in Italia era quello di tenere stabili i cambi esteri, in maniera che gli imprenditori non potessero più aumentare liberamente i prezzi interni comunque confidando su una susseguente svalutazione della lira per non perdere i mercati esteri. Bloccando il cambio estero, così come gli accordi del sistema monetario europeo consentivano od obbligavano a fare, gli imprenditori si sarebbero trovati costretti a stabilizzare anche i prezzi interni.

Veniva quindi annunciato un cambiamento nella politica valutaria, per utilizzare la politica valutaria come strumento di stabilizzazione monetaria interna. In realtà, forse, questa dichiarazione ufficiale di intenti non solo non era completa, ma non era nemmeno totalmente veritiera, perché noi oggi vediamo con grande chiarezza come è stata realizzata questa stabilizzazione rispetto al marco. Come dicevo prima, la lira si è svalutata rispetto al marco, in questi sei anni, molto meno di quello che i prezzi interni avrebbero dovuto imporre. Però la stabilizzazione interna della lira non si è avuta e il differenziale di inflazione fra Italia e Germania si è ridotto di qualche punto, ma non si è affatto annullato.

Allora è evidente che si voleva qualche cosa di diverso. Quello che si voleva era costringere gli imprenditori italiani in una sorta di morsa fra un cambio estero tendenzialmente stabile e un’inflazione interna minore di quella del decennio precedente (anche se il differenziale di inflazione fra Italia e Germania è tuttora molto sensibile), tale da obbligare gli imprenditori a una profonda, veloce e radicale manovra di ristrutturazione per aumentare la produttività del lavoro e riguadagnare, in termini di produttività, quello che gradualmente avrebbero perso in termini di competitività di prezzo. Questa manovra valutaria, che Andreatta aveva annunciato come strumento di politica monetaria interna, in realtà è stato lo strumento maggiore di politica industriale che le nostre autorità economiche hanno utilizzato negli ultimi 5 o 6 anni, a partire dal ‘79. La conseguenza è che nell’economia italiana anche l’inflazione ha cambiato aspetto e dobbiamo abituarci a pensare all’inflazione di oggi come a un fenomeno in parte diverso da quello degli anni ‘70. Negli anni ‘70 l’inflazione era in definitiva qualcosa di desiderato, sollecitato dalle imprese, perché l’inflazione consentiva di erodere continuamente i salari reali, veniva seguita puntualmente dalla svalutazione esterna, non danneggiava cioè dal lato dei mercati, facilitava i rapporti tra capitale e lavoro, non imponendo uno scontro diretto sui salari monetari. Le imprese, in definitiva, erano tendenzialmente inflazioniste. E, infatti, negli anni ‘70 la grande industria italiana non si opponeva mai ad aumenti del salario monetario. Il famoso accordo sul punto unico di contingenza, nel ‘75, fu raggiunto con la benedizione della grande industria, proprio perché in termini monetari, data la continua spirale salari-prezzi-cambi esteri, tutto era diventato soltanto una questione di registrazioni.

Oggi, viceversa, con la politica del cambio esterno stabile, specialmente nei confronti delle valute europee, l’atteggiamento degli imprenditori verso l’inflazione si è capovolto. Oggi l’aumento dei prezzi interni non può più essere trasferito prontamente in una svalutazione della lira e, quindi, si riflette immediatamente in una perdita di competitività sui mercati. La grande industria italiana ha immediatamente registrato questo capovolgimento della situazione e oggi il primo caposaldo della battaglia della grande industria è contrastare l’aumento dei salari monetari; e, quindi, abbiamo assistito all’attacco alla scala mobile, e a tutte le altre battaglie che ruotano intorno alla riduzione del costo del lavoro. L’inflazione anziché desiderata, è oggi un fenomeno al quale le imprese guardano con preoccupazione e per il quale cercano rimedi, come vedremo, in varie direzioni, sia nell’ambito del settore privato, sia nell’ambito del settore pubblico.

Il nuovo segno dell’inflazione

Che l’inflazione abbia cambiato non solo la sua funzione, se così possiamo dire, ma anche le sue fonti, è un dato conosciuto a tutti e, direi, da tutti accettato. Ormai nessuno attribuisce più l’inflazione alla spinta salariale; questa si è moderata, i costi del lavoro sono andati decrescendo, la conflittualità si è ridotta grandemente.

L’inflazione però, se è diventata un fenomeno sgradito alle imprese, è diventata, invece, in questi anni, un ingrediente essenziale della politica economica, perché proprio in questo accoppiamento di inflazione interna e stabilità del cambio consiste quella tenaglia di cui le autorità monetarie si servono per la politica industriale: cioè per obbligare le imprese a una rapida ristrutturazione.

Quindi non è più un’inflazione salariale; se vogliamo c’è una componente internazionale che proviene dall’aumento del corso del dollaro. Ma è anche un’inflazione finanziaria, e su questo ritornerò più in là, perché deriva anche dagli oneri finanziari crescenti; è anche un’inflazione di Stato, in parte, perché deriva dall’aumento continuo e regolare dei prezzi amministrati e dei prezzi controllati. E’ stato proprio il settore dei prezzi amministrati che, invece di effettuare un’opera di stabilizzazione, ha assunto un ruolo di leadership nell’aumento dei prezzi, in piena coerenza con questa impostazione dell’inflazione interna come arma di politica industriale. Come conseguenza si è avuta una ristrutturazione velocissima dell’industria italiana, con calo generale dell’occupazione e un calo ancora più veloce in quella che l’ISTAT chiama la “grande industria”; un aumento diffuso compensativo del settore sommerso (lavoro nero, lavoro grigio, lavoro informale, chiamiamolo come vogliamo), e un aumento compensativo anche dell’occupazione nel settore terziario; occupazione improduttiva, dovremmo chiamarla, dovuta ovviamente a ragioni di stabilità, di consenso. Fin qui ci muoviamo su un terreno noto e molte volte analizzato. E ovvio, però, che le conseguenze vanno anche più in là. Per quanto veloce, l’opera di ristrutturazione non è ancora arrivata a ricollocare l’industria italiana esportatrice nei mercati internazionali nella misura dovuta. La sopravvalutazione della lira nei mercati europei si fa sentire e i risultati si vedono nella bilancia commerciale, che è passiva. Le esportazioni sono costantemente al di sotto delle importazioni, c’è un disavanzo nella bilancia commerciale. Ma le autorità sanno benissimo che questo disavanzo è la conseguenza inevitabile della loro politica monetaria e quindi hanno, con grandissima flessibilità, effettuato un altro capovolgimento di politica monetaria, pienamente coerente con quello che ho detto prima. Hanno, cioè, deciso, ormai da diversi anni, di accettare il disavanzo nella bilancia commerciale ed hanno provveduto a compensarlo — non correggerlo, compensarlo — con un avanzo corrispondente nei movimenti di capitali. Questa è una vera rivoluzione nella politica delle autorità monetarie, perché tutti noi ricordiamo i discorsi che faceva il governatore Carli una decina di anni fa, quando nelle sue dichiarazioni (diciamo pure antisindacali, antisalariali) invocava la politica dei redditi.

Carli diceva: non illudiamoci sul fatto che un disavanzo nella bilancia commerciale possa forse essere compensato da un avanzo nei movimenti di capitali, perché questa è una linea di politica economica che noi, Banca d’Italia, non intendiamo seguire. Noi non riteniamo che la bilancia dei pagamenti debba compensarsi, pareggiarsi nel suo complesso, perché fare affidamento sulle importazioni di capitali è una mossa rischiosa, è sempre segno di un’economia malata, significa vivere a spese di altri Paesi, significa consumare a credito di altri. Per noi, autorità monetarie, la politica economica sana è quella di un pareggio nella bilancia commerciale. Noi dobbiamo pagare le merci che importiamo dall’estero con altre merci vendute, non dobbiamo consumare a credito.

Il mercato finanziario

Oggi, la politica della Banca d’Italia è radicalmente cambiata. Oggi, le autorità monetarie assumono come una conseguenza inevitabile il disavanzo nella bilancia commerciale e fanno una politica di tassi d’interesse elevati, proprio per attirare capitali dall’estero e per impedire fughe di capitali — le due cose convergono sullo stesso obiettivo — che compensano il disavanzo nei movimenti di merci.

L’Italia è diventata rapidamente uno dei Paesi più indebitati del mondo, certamente uno dei più indebitati dei Paesi industrializzati. Se questa sia una politica saggia o no. lo vedremo evidentemente negli anni futuri. Quello che, però, si può dire è che se l’Italia è riuscita in questa politica, diciamo pure ardita, di governare un disavanzo nei movimenti di merci e pilotare al tempo stesso un avanzo equivalente nei movimenti di capitali, questa operazione non può riuscire soltanto giocando di speculazione sui tassi d’interesse. Si può realizzare evidentemente solo nell’ambito di un consenso internazionale Tutti noi ricordiamo quando, una decina d’anni fa, le grandi banche internazionali avevano convenuto che l’Italia non fosse più un Paese degno di fiducia: esisteva un rischio Italia, non si facevano più prestiti all’Italia. Oggi il clima, diciamo pure il clima politico internazionale che circonda l’economia italiana, è totalmente cambiato. Con questa ondata di indebolimento del sindacato, di craxismo, di reaganismo (chiamiamolo come vogliamo), l’Italia è diventata un Paese per bene. È diventata un paese al quale si possono confidare i propri capitali finanziari e, quindi, è vero che, da un lato, le imprese italiane pubbliche e private vengono incoraggiate a cercare prestiti su mercati esteri; è vero che le banche italiane vengono incoraggiate ad indebitarsi verso le banche straniere; però è anche vero che tutte queste richieste di credito trovano all’estero dei finanziatori pronti e generosi. È altrettanto vero che i grandi istituti bancari del mondo occidentale sono lietissimi di aprire crediti al mondo finanziario italiano.

Quindi questa manovra non solo si muove entro una sua coerenza interna, ma si muove in un ambito di consenso internazionale, del quale le importazioni di capitali sono la prova più tangibile, al di là di tutte le manovre tecniche sui tassi d’interesse. Tuttavia, le manovre sui tassi d’interesse ci sono: l’Italia ha tassi di interesse elevatissimi. Io dicevo che il differenziale di inflazione con la Germania occidentale non si è ridotto di molto, però siccome la Germania occidentale ha quasi azzerato la sua inflazione (l’aumento dei prezzi all’ingrosso è quasi zero, o addirittura negativo, mi pare, in uno degli ultimi trimestri), in corrispondenza anche il tasso assoluto d’inflazione dell’economia italiana è caduto, ma questo non ha comportato nessuna caduta nei tassi d’interesse.

Quando gli imprenditori si lamentano di questi oneri finanziari eccessivi, la Banca d’Italia risponde inflessibile che questo è necessario per evitare fughe di capitali, ed ha ragione, perché sostiene la manovra di importazione di capitali. Ma il risultato è, evidentemente, che gli oneri finanziari sono diventati un grosso peso per le imprese.

Ma le nostre autorità monetarie hanno pensato anche a questo. Noi tutti ricordiamo che, anni addietro, quando vi era un’inflazione ancora più elevata e vi erano tassi d’interesse assai elevati, gli oneri finanziari avevano quasi annullato i profitti industriali. Alcuni si lamentavano molto di questa situazione, altri facevano osservare che, in fondo, il profitto era sempre lì, solo che gli imprenditori lo avevano fatto scomparire dalla tasca industriale e lo avevano fatto ricomparire nella tasca finanziaria; profitti magri per il settore industriale, profitti grassi per il settore finanziario, nessun motivo di preoccupazione. In sostanza: avere pieno il cassetto di destra o quello di sinistra non sposta molto la situazione del grande capitale.

Imprese e disavanzo pubblico

Però, negli anni successivi, dopo il ‘79, si è fatto qualche cosa di più per aiutare il settore industriale a ripareggiare i propri conti con le banche, per ovviare al fatto che, ridottasi l’inflazione, i tassi d’interesse non sono caduti in maniera proporzionale.

Dal punto di vista finanziario avremmo dovuto aspettarci un peggioramento della posizione delle imprese industriali, perché, appunto, i tassi d’interesse reali sono molto più alti oggi di quello che non fossero dieci anni fa. E allora come si spiega il fatto che, invece, l’industria italiana ha ripareggiato i propri conti e non è più gravemente indebitata verso il settore bancario? Lo si spiega proprio con il disavanzo del settore pubblico.

Il settore pubblico, con manovra provvida, ha gestito i propri conti in enorme e crescente disavanzo, come sappiamo; questa è una delle cose più note, più dibattute, più deprecate sulla scena economica e politica del nostro Paese. Ma quando il settore pubblico gestisce il proprio bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa, cosa che adesso è difficile da conoscere ed ancor più difficile da giudicare, c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non comporta il ricorso al sistema delle banche.

Se il settore pubblico viene gestito in pareggio, e cioè la spesa pubblica è coperta con le imposte, il settore pubblico non aggiunge e non toglie una lira di liquidità, si limita a prendere da una parte e a spendere dall’altra; le imprese ottengono liquidità aggiuntiva soltanto dal settore bancario con il conseguente indebitamento. Quando invece c’è un disavanzo nel settore pubblico, finalmente è lo Stato che s’indebita verso la Banca Centrale, con un allargamento della base monetaria, o si indebita verso i risparmiatori, aumentando la velocità di circolazione della moneta.

Ma in entrambi i casi le imprese ottengono flussi di liquidità che per loro non sono un debito, liquidità sulla quale non devono pagare interessi. È stato proprio il disavanzo del settore pubblico che ha riequilibrato i conti del settore industriale verso il settore finanziario.

Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane dal mercato finanziario. Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario. Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti tali che consentono un comodo autofinanziamento. Si è parlato giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel suo insieme coerente. E di questa crisi fiscale dello Stato, dobbiamo a questo punto dare un giudizio molto più circostanziato e qualificato. Se apriamo il giornale, noi leggiamo che il disavanzo nel settore pubblico è dovuto a un eccesso di spesa, al fatto che ci sia stata un’esplosione della spesa pubblica per sussidi, pensionamenti, cassa integrazione; altre forme di trasferimenti personali e che, quindi, è necessario ridurre la spesa pubblica proprio nel settore dei trasferimenti personali, per riequilibrare le finanze dello Stato. Si è dato troppo al cittadino utente-consumatore e adesso basta: tagliamo sulle scuole, tagliamo sulle università, tagliamo sulla sanità, tagliamo su tutto quello che si può tagliare: sono le spese che vanno tagliate. Vorrei osservare che certamente per il cittadino utente, consumatore, sussidiato, beneficiato, quello che conta è il livello della spesa pubblica. Quando però la spesa pubblica viene gestita in disavanzo, come avviene negli ultimi anni dell’economia italiana, c’è un altro beneficiario al di là del consumatore, pensionato, assistito, e questo è il settore industriale, per le ragioni che dicevo prima. Quindi, il disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche e soprattutto, nei confronti del settore industriale. Se parliamo di settori che hanno tratto vantaggi dal livello della spesa pubblica e dal fatto che essa sia stata gestita in disavanzo, dobbiamo ricordarci che il primo ad essere stato avvantaggiato è il settore industriale, ed è per questa ragione che i progetti di riequilibrare il disavanzo, eliminare, ridurre, rientrare, come si dice oggi, dal disavanzo del settore pubblico, sono progetti che riscuotono sicuramente l’approvazione dell’uomo della strada, perché un debito è sempre una cosa negativa, ma in definitiva non fanno grande presa sul settore industriale, che è il più interessato.

La disoccupazione selettiva

Questa esplosione del disavanzo e della spesa è stata utilizzata con sagacia, come dicevo prima, e non solo ha avuto l’effetto finanziario di rimettere a posto i conti delle imprese, ma evidentemente è stata utilizzata anche per una serie di assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, per allentare ed alleviare la situazione del mercato del lavoro, che altrimenti sarebbe stata molto più pesante. Infatti se noi andiamo a guardare il bilancio complessivo del mercato del lavoro, ci accorgiamo di un’anomalia, a prima vista, che distingue il mercato del lavoro italiano da quello degli altri Paesi. Ci accorgiamo infatti che l’Italia, pur essendo il Paese che aveva l’industria più arretrata e bisognosa di ristrutturazione, il paese che ha un disavanzo nei conti con l’estero da far rizzare i capelli, il Paese che ha un disavanzo nel settore pubblico che toglie il sonno e l’appetito ai nostri Ministri delle Finanze e del Tesoro, tuttavia è il Paese che in fondo ha meno disoccupazione complessiva di altri Paesi europei.

L’Italia ha concentrato la sua disoccupazione nel settore industriale, l’ha ultraconcentrata nel settore della grande industria, ma se facciamo la somma di tutti i settori e ci mettiamo anche il terziario, e consideriamo occupati tutti quelli che percepiscono uno stipendio, l’Italia ha più occupati, in totale, di quelli che aveva nel 1979 e non ha avuto la brusca ondata di disoccupazione che, invece, ha avuto la Gran Bretagna e, in parte, anche la Francia. Ma si tratta ancora una volta di una conseguenza dell’intera manovra, perché proprio questo aumento del disavanzo nel settore pubblico ha consentito di fare, in sostanza, questa politica di occupazione improduttiva e di consenso, che ha alleviato la situazione nel mercato del lavoro.

Tuttavia, dobbiamo chiederci a che cosa conduce l’insieme di questa manovra; perché se è vero che conduce ad una profonda ristrutturazione nell’industria e ad un grado di disoccupazione, tutto sommato, tollerabile, però conduce a una trasformazione profonda nella struttura del mercato del lavoro: sempre meno occupati in attività produttive e sempre più occupati in altre due direzioni. O nel lavoro nero, disperso e frammentato — i cosiddetti lavoratori indipendenti — oppure nel lavoro improduttivo, nel settore terziario, dei servizi, banche, assicurazioni, studi commerciali, consulenti fiscali, aziendali e così via.

Allora è evidente che dal punto di vista della struttura occupazionale l’economia italiana sta facendo dei passi indietro, perché si carica sempre di più, da un lato, di lavoratori non protetti, e quindi di un settore che socialmente è inaccettabile, e dall’altro di lavoratori improduttivi, che sul piano normativo e del trattamento sono privilegiati, ma nel quadro dell’economia nazionale sono comunque un peso improduttivo.

Aggiornamento o innovazione?

Qual è allora la strada che si può individuare per contrastare questo processo? E ovvio che la via di uscita viene indicata concordemente da tutti proprio nella innovazione tecnologica, nel progresso, che consentirebbe di ricollocare l’industria italiana nel mercato internazionale e, per questa via, consentirebbe la ripresa. Io vorrei, anche senza averne la competenza, e quindi soltanto con lo scopo di formulare dei punti interrogativi, chiedermi o chiedervi in che cosa consiste effettivamente questo processo di ristrutturazione, di innovazione tecnologica che l’industria italiana ha accelerato negli ultimi anni e si propone di continuare negli anni a venire.

Perché io ho l’impressione che qui ci sia, non voglio dire una confusione di concetti, perché sarebbe offensivo, ma certamente una sottile dissolvenza di definizioni fra due fenomeni che, viceversa, sono diversi. L’uno è quello del semplice aggiornamento tecnologico. Aggiornamento tecnologico vuol dire comprare i macchinari più avanzati. L’aggiornamento tecnologico è quello che faccio io se butto via questo vecchio orologio a molla di 25 anni fa e lo sostituisco con un moderno orologio al quarzo. Eccomi aggiornato, in materia di misurazione del tempo. L’aggiornamento è quello che certamente l’industria italiana sta facendo, sostituendo macchinari, comprando macchinari dai fabbricanti più aggiornati e, quindi, presentandosi sui mercati con un equipaggiamento e una attrezzatura, diciamo pure, d’avanguardia. L’aggiornamento tecnologico, però, non conferisce alcuna priorità nei mercati internazionali, perché l’aggiornamento tecnologico è accessibile a tutti. Chiunque si può aggiornare dall’oggi al domani, buttando una linea di montaggio nella spazzatura e facendone venire una nuova, non so se dagli Stati Uniti, o dalla Germania o dai Giappone, questo lo sceglierà lui. Certamente in tal modo può ridurre i suoi costi, può avere un po’ di respiro, ma non gli dà alcuna priorità nei mercati internazionali, perché lo stesso aggiornamento, come lo ha fatto lui, lo possono fare e lo stanno facendo tutti gli altri. La vera priorità nei mercati internazionali, quella che davvero rappresenterebbe una via di uscita, consiste invece in un’operazione di tutt’altra natura, che è l’innovazione. Non sostituire i propri macchinari comprandone altri più aggiornati, ma farsi autori di nuove tecnologie; e su questo l’industria italiana non è stata altrettanto pronta. È vero che esistono alcuni settori dell’industria meccanica i cui macchinari vengono ordinati da tutto il mondo; è vero che esistono alcuni comparti, non so se dell’aeronautica o di altri settori, in cui l’industria italiana vanta alcune priorità. Ma queste, alcune isole di progresso tecnologico non caratterizzano la situazione normale dell’industria italiana. E quello che mi preoccupa è il sospetto che questa enorme manovra di ristrutturazione, che ha gettato fuori dalle fabbriche decine di migliaia di lavoratori, non consista, in realtà, in un processo che conduce a un’innovazione tecnologica autonoma, ma che si tratti soltanto di una normale manovra di aggiornamento che, come tale, è una manovra perpetua, perché l’aggiornamento è qualcosa di perpetuo: si deve fare tutti i giorni, perché tutti lo fanno tutti i giorni. L’innovazione dà luogo, evidentemente, a posizioni di mercato completamente diverse. Chi dispone di un prodotto suo o di un metodo di produzione suo, può vendere, finché non viene imitato, il suo prodotto in regime di monopolio. E vi sono mille trucchi per prolungare questo monopolio nel tempo. Inoltre l’innovazione si autoperpetua, si autogenera, ed è evidente che le industrie dei Paesi leader si affermano nei mercati internazionali proprio perché chi è portatore di un prodotto nuovo non ha problemi di prezzo, è lui che impone il prezzo. Se la debolezza dell’industria italiana è proprio nel settore dell’innovazione e se in questa direzione l’industria italiana non ha fatto quegli sforzi capillari e a tappeto che avrebbe dovuto fare, è chiaro che i problemi si ripropongono. Avremo continuamente il problema dell’aggiornamento, continuamente il problema della ristrutturazione, continuamente il problema dei licenziamenti e dell’alleggerimento degli organici di lavoro.

NOTE


[1] Estratto da AZIMUT n° 19 rivista bimestrale di economia politica e cultura – settembre-ottobre 1985

Presentiamo ampi stralci dell’intervento che il prof Augusto Graziani, dell’Università di Napoli, ha svolto al convegno di Azimut sulla politica economica e l’occupazione, tenutosi a Milano nei giorni 25 e 26 ottobre 1985. Si avvisano i lettori che il presente testo non è stato rivisto dal prof. Graziani.

 

 

 

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