Nulla può scalfire i “miti”. Solo la Storia può ridurli in polvere. Il mito costruito intorno al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli è fatti di consenso unanime (con qualche borbottio a destra), peana senza dubbi e agiografia facile. Con molte omissioni, naturalmente. E quindi arriva particolarmente utile questa “biografia certamente non autorizzata”, che riporta con i piedi per terra – e più volte in angoli non proprio commendevoli della Storia recente del paese – colui che più di tutti ha fatto del “diritto” una sorta di chewingum estensibile alla bisogna. Ultimo esempio, indagare per “stalking” chi volantina in Val Susa…
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Parte prima: Gli anni Settanta Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli Gli inizi di carriera Caselli, nato ad Alessandria e cresciuto a Torino, in Borgo San Paolo, si laureò negli anni Sessanta con una tesi in Storia del diritto e divenne assistente universitario. Pochi anni dopo, nel dicembre 1967, decise di cambiare lavoro e passò il concorso come magistrato, pochi giorni dopo l’occupazione dell’Università da parte degli studenti; e venne nominato giudice istruttore nel 1969, poco dopo la rivolta di corso Traiano, a Mirafiori, dove gli operai in sciopero si scontrarono per ore con la polizia contro le indicazioni del sindacato e del partito comunista, con a fianco gli studenti (a loro volta estranei al sindacato e al partito) che li avevano raggiunti. Questi episodi giungevano dopo due decenni di tensioni nel mondo comunista italiano. Il Pci del dopoguerra, su ordine dell’URSS di Stalin, aveva chiesto vent’anni prima, ai suoi militanti operai e partigiani, di deporre le armi e lavorare pacificamente per la ricostruzione dell’Italia nelle consuete forme dello sfruttamento capitalistico, che in verità il partito era nato per distruggere. L’accettazione della costituzione scritta con la Dc nel 1948, e quindi di una democrazia rappresentativa di tipo liberale, venne spiegata agli operai con l’idea che la democrazia parlamentare sarebbe stata l’anticamera del socialismo. Questo sfondo politico è la radice profonda della scelta di Caselli di abbandonare la ricerca scientifica nell’ambito della storia e della giurisprudenza per sposare un ruolo del tutto diverso, dove al posto di un uso possibilmente critico e aperto dell’intelligenza è richiesta la subordinazione delle proprie facoltà intellettuali a un’autorità esterna, costituita dal corpus giuridico e dal giuramento di fedeltà all’istituzione che ne è fonte, lo stato. Ma cosa può c’entrare la politica del Pci del dopoguerra con la scelta di Caselli? Molto perché, sebbene egli fosse credente, non era un conservatore. Occorre rimarcare che l’idea della democrazia come anticamera di una trasformazione e di una società migliore, propugnata dal Pci, aveva maturato nel 1967 – quando Caselli entrò in magistratura – connotati diversi da quelli originari. Negli anni Cinquanta, per giustificare il compromesso costituzionale con la Dc, i dirigenti del partito raccontavano ai militanti che esso non era che una strategia di breve durata, in attesa di mutamenti sul piano internazionale; entro pochi anni avrebbero fatto scattare il segnale per “l’ora x”, ossia per l’insurrezione, con una presa violenta del potere sul modello russo. Nella diversa fase degli anni Sessanta, in un momento in cui gli sforzi operai nell’industria e nell’edilizia avevano permesso un’evoluzione economica, tecnica e urbanistica che passò alla storia come “boom economico” (una rivoluzione essa stessa, sul piano delle abitudini di vita, dei consumi e dei costumi) il Pci lasciò gradualmente cadere la promessa insurrezionale e teorizzò sempre più apertamente un’evoluzione graduale anziché violenta. I dirigenti diffusero l’idea che l’Italia sarebbe sì diventata uno stato socialista, ma con metodi diversi e meno violenti di quelli russi, cinesi o jugoslavi. Si sarebbe trattato di costruire un’egemonia politica e culturale graduale nella società, soprattutto dentro le istituzioni nate nel 1948, e infine provvedere a una trasformazione legale dei rapporti sociali in senso socialista. Questa evoluzione fece serpeggiare forti perplessità in gran parte della popolazione che si era identificata nel Pci, facendo nascere in alcuni l’idea che per riprendere un’azione rivoluzionaria fosse necessario creare nuove proposte politiche dentro o fuori il partito e il sindacato; fece invece nascere un forte interesse in chi, interessato a un’idea di progresso ma fino ad allora ostile al Pci a causa della sua dubbia fedeltà alle istituzioni repubblicane, iniziò a vedere in questa politica un’occasione di innovazione istituzionale per il paese, ancora molto arretrato e non depurato delle eredità autoritarie. Caselli incontrò la magistratura in questo clima, per una scelta che giustificherà in questi termini: attraverso l’ingresso di uomini diversi, più progressisti, nelle istituzioni (anche e soprattutto quelle repressive, tradizionalmente legate a personalità reazionarie) la società potrà cambiare. Il Pci intendeva penetrare nelle istituzioni anzitutto attraverso i settori legislativo, scolastico/accademico e giudiziario; e per quest’ultimo settore formò una corrente organizzata di magistrati (la costituzione lo permetteva), che Caselli contribuì a fondare alla fine degli anni Sessanta: Magistratura Democratica. Il potere giudiziario che la repubblica ereditava dalla prima unità nazionale e dal fascismo era composto da individui usi a perseguire i reati secondo una logica squisitamente di classe: il giudice era una figura altolocata e conservatrice il cui compito era riempire le carceri di povera gente e dissidenti politici (tra il 1938 e il 1943, anche di perseguitati razziali). La maggior parte dei magistrati italiani, quando fu fondata MD, obbedivano ancora completamente a questa logica e a questa concezione di fondo del proprio compito. I magistrati democratici intendevano prendere sul serio la rottura storica rappresentata dalla fine del fascismo e della monarchia e dall’adozione della carta costituzionale; come dirà Caselli stesso più volte, l’obiettivo era “realizzare” la costituzione, affinché la lettera scritta non restasse lettera morta, ma si incarnasse nei provvedimenti di autorità rinnovate nella composizione del loro personale. In prima linea contro i movimenti sociali Il primo compito che Caselli si trovò ad affrontare, tuttavia, non fu la difesa dei diritti civili calpestati da secoli di oppressione, bensì l’attacco ai movimenti sociali esplosi a Torino nel 1967 e propagatisi in tutto il paese nell’anno successivo. Il programma riformistico del Pci non trovava molti adepti tra gli operai e gli studenti. I primi erano molto cambiati dagli anni Cinquanta, proprio nel senso che il genere di persona che si trovava a lavorare nella grande fabbrica del nord non era più l’operaio qualificato nato e cresciuto sul luogo, ma il giovane sradicato dalle sue terre (spesso le terre colonizzate del sud, dove lo stato era percepito come pura oppressione) che condivideva con migliaia di suoi simili un lavoro ripetitivo e spersonalizzato. Giovani che non avevano sentito parlare dell’ora x, e che alle promesse di un futuro radioso grazie alla lenta azione istituzionale dei dirigenti di un partito a loro estraneo preferivano occuparsi di cose concrete come il proprio salario e la durata dell’orario di lavoro. Gli studenti, dal canto loro, proprio perché studiavano, notavano la differenza profonda tra la linea del Pci e le strategie delle forze comuniste del passato, e del presente in altri paesi (anzitutto in Asia, in Africa, in Sudamerica); e ritenevano per lo più che fosse una chimera riformare lo stato in senso socialista, poiché esso disponeva di apparati militari che, come stava accadendo in Grecia e sarebbe presto accaduto in Cile, non avrebbero permesso un mutamento graduale e legale contrario agli interessi del capitale. Caselli venne delegato in quegli anni, come giudice istruttore, a perseguire i reati commessi nell’ambito delle attività di questa “nuova sinistra”, che non diede vita a un movimento unitario o a un nuovo soggetto, ma a diversi soggetti che si rivelarono ben presto poco utili a dare uno sbocco organizzativo alle diverse ed eterogenee ondate di ribellione, in cui il Pci e la Cgil non ebbero alcun ruolo, ripiegando sempre più nelle istituzioni dello stato. Così, se i magistrati democratici speravano di poter volgere la legge contro gli abusi del potere e i residui del passato, si trovarono in prima linea contro la novità sociale e politica dell’epoca, ossia i movimenti portatori di una loro autonomia. Il loro obiettivo furono i militanti che organizzavano strutture politiche apertamente rivoluzionarie: mostrando la propria fedeltà allo stato (che pur in quegli anni rispondeva ai movimenti con le stragi nelle piazze, le bombe sui treni, l’organizzazione di forze paramilitari; tutte cose organizzate, dentro le istituzioni, proprio da chi non aveva digerito il 25 aprile) erano convinti di maturare un credito professionale che sarebbe stato speso in seguito per la costituzione, quando l’emergenza delle “contestazioni” fosse stata superata. Rispetto ad altri magistrati dell’epoca, Caselli comprese meglio la situazione di quegli anni, dove chi decideva di contrapporsi alle istituzioni, non disdegnando – come in ogni tentativo rivoluzionario – l’illegalità e talvolta le armi, si trovava immerso in una società che si era fortemente spostata, dopo il fascismo, verso idee di progresso sociale, una società nuova che procurava ai ribelli solidarietà e simpatie diffuse. Se i militanti del Pci e della Cgil identificarono a giusto titolo i rivoluzionari come il principale nemico, gli elettori del Pci, gli iscritti al sindacato e i tanti non iscritti vedevano invece in essi, generalmente, persone perbene che si sacrificavano per una società più giusta. Caselli decise quindi di orientarsi su due fronti per estirpare il fenomeno: da un lato i militanti e le organizzazioni, armate ma non solo, dall’altro il mare in cui essi nuotavano, ossia la vasta rete di persone e movimenti che per essi simpatizzavano. Il primo arresto del magistrato è quello di Giambattista Lazagna, nel 1974, un partigiano di Genova accusato di banda armata e addirittura di essere dirigente delle Brigate Rosse, un’organizzazione che in quegli anni si inseriva nelle vertenze contrattuali delle fabbriche con intimidazioni verso gli imprenditori; intimidazioni tanto più preoccupanti, per i magistrati, perché davano risultati concreti in favore degli operai. L’incriminazione di Lazagna, noto e rispettato in tutta la Liguria e il basso Piemonte per aver comandato, a soli vent’anni, la divisione partigiana Pinan-Cichero nella battaglia contro i nazisti detta “del ponte rotto”, in Val Borbera, vicino ad Arquata Scrivia, fu giustificata da Caselli con la soffiata di un infiltrato, che aveva dedotto da una frase del partigiano che egli conosceva Renato Curcio. Lazagna si farà quindi la prigione, poi due anni di confino a Rocchetta Ligure (perdendo il lavoro che gli dava da vivere) e infine verrà assolto dalle accuse. L’uomo che l’aveva accusato (Silvano Girotto), era stato inviato ad infiltrarsi nelle Brigate Rosse per conto del generale dalla Chiesa, e riuscì infine a permettere l’arresto, a Pinerolo nel 1975, di Curcio e di un altri dirigente dell’organizzazione, Franceschini. Caselli si trovò faccia a faccia con quest’ultimo per l’interrogatorio e, nonostante all’epoca le BR non avessero ancora ucciso nessuno, quando l’arrestato pretese di essere qualificato agli atti come rivoluzionario di professione, Caselli perse l’autocontrollo e sbottò urlando “Lei è solo un assassino!”, e si prese un ceffone dal ragazzo che lo fece quasi cadere per terra. L’anno successivo, quando le BR uccisero un magistrato di Genova e dichiararono che avrebbero ancora attaccato la magistratura che li combatteva, il procuratore capo di Torino affiancò a Caselli altri due magistrati, Luciano Violante e Mario Griffey (si aggiungeranno poi Maurizio Laudi e Marcello Maddalena): tutti avrebbero seguito, in modo coordinato, le indagini sui gruppi sovversivi, affinché l’eventuale omicidio di uno di loro non vanificasse il lavoro di gruppo (gruppo che venne denominato col tempo “pool”). Iniziò un periodo (1976-1982) in cui lo scontro non tra lo stato e i gruppi armati, ma tra lo stato e tutti i movimenti che volevano un cambiamento radicale della società – di cui i gruppi armati non erano che una parte tra tante altre, anche perché le loro idee apparivano a molti, nei movimenti stessi, inadeguate e astratte – divenne durissimo, cambiando per sempre i connotati dell’Italia. Le più grandi proprietà del paese operarono ristrutturazioni della produzione a vari livelli, per impedire l’organizzazione pratica degli operai e la riuscita degli scioperi, licenziando migliaia di lavoratori che si erano distinti nell’organizzazione delle lotte di fabbrica. Lo stato, invece, agì compattando l’alleanza tra le sue forme “tradizionali”, legate all’eredità militarista e fascista, e quelle “costituzionali” create dal Pci nel dopoguerra per propiziare la propria penetrazione istituzionale: al pool di Caselli si affiancarono così carabinieri e poliziotti che impedivano le manifestazioni e sparavano uccidendo i manifestanti, funzionari di stato e responsabili d’impresa che facevano licenziare gli individui politicamente sgraditi, militari che apprestavano organi occulti legati all’esercito (come Gladio o la Rosa dei Venti) per reprimere l’evoluzione sociale quando si fosse spinta troppo in avanti, e poi politici, giornalisti, generali e agenti segreti organizzati in una struttura, la “loggia p2”, volta a controllare le istituzioni senza l’intralcio della legge e delle elezioni; né si esitò ad utilizzare l’estrema destra per colpire i movimenti o l’intera popolazione (come avvenne a Bologna con la bomba alla stazione del 1980, in cui morirono 84 persone e ne restarono ferite 200), o a usare la stessa criminalità organizzata contro i movimenti attraverso l’intimidazione, l’assassinio (si pensi al caso di Fausto e Iaio a Milano, nel 1978) e la distribuzione capillare di sostanze che, diffondendosi tra i giovani, ne avrebbero reso impossibile l’azione politica (ad esempio l’eroina). Caselli sapeva perfettamente da che parte stava, e di essere inserito in questo grande quadro nazionale di repressione, in cui era necessario che i magistrati democratici si alleassero anche con chi democratico non era, o era tutto il contrario, come il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa o il capitano Mario Mori, il primo già coinvolto in dure repressioni di piazza e in una strage di detenuti nel carcere di Alessandria, il secondo… lo ritroveremo in seguito. Ciononostante, profondamente convinto che se prevarrà la legalità repubblicana la società diventerà migliore, e lui stesso potrà eliminare l’ingiustizia e l’abuso dall’interno della macchina statale, assieme ai suoi colleghi magistrati, si impegnò anima e corpo a estirpare la malapianta dell’azione rivoluzionaria, sempre rivendicando l’intenzione di combattere la sovversione esclusivamente “dentro le aule dei tribunali”, ossia senza cedimenti all’autoritarismo o al militarismo: un’idea smentita non soltanto dalla natura dell’apparato di cui si servì e dal contesto istituzionale che rese possibile la sua opera di repressione, ma dalle stesse, terribili dinamiche che avrebbero portato ai successi investigativi suoi e dei magistrati impegnati nello stesso fronte. Terrorismo di massa e torture Non si trattò di un’azione volta contro i soli militanti armati, come si legge sui libri di storia sulla base di un semplicismo interessato e censorio, bensì di un’operazione vasta e spietata, che in pochi anni passò come un rullo compressore su ogni forma di espressione sociale, politica e culturale che, a sinistra, non rientrasse nei ranghi della mediazione parlamentare. Si usò l’omicidio (si pensi agli studenti Francesco Lo Russo e Giorgiana Masi, uccisi dalla polizia nel 1977) e fu utilizzata la censura (con la chiusura delle radio libere, come Radio Alice chiusa dai carabinieri a Bologna, o la radio di Peppino Impastato a Cinisi, Radio Aut, chiusa da Cosa Nostra, i cui vertici fin dal dopoguerra operavano contro i movimenti per conto dello stato, con l’ausilio dei carabinieri), ma soprattutto gli arresti di massa, che furono il principale strumento di intimidazione e messa fuori gioco di quella generazione. Migliaia di persone furono rinchiuse in cella per mesi o per anni senza essere giudicati, sulla base di semplici “sospetti” sbandierati come fondati da magistrati come Calogero a Padova o Caselli e Violante a Torino, che si riveleranno in moltissimi casi del tutto pretestuosi e parte di un disegno squisitamente politico di repressione generalizzata. Ciononostante, la storiografia ufficiale vuole oggi che Caselli abbia combattuto una “lotta contro il terrorismo”, e chiunque avanzi dubbi su questa ricostruzione (si tratti di chi ha vissuto quegli anni o di chi, nato successivamente, ne ascolta o legge i racconti) viene a sua volta bollato come una sorta di “terrorista” di ritorno. Indubbiamente diversi gruppi compirono in quegli anni la scelta della lotta armata, praticata con diverse forme e diverse intensità o strategie, e con diverse concezioni politiche; ed è vero che della repressione specifica dei movimenti giovanili e studenteschi si occupò soprattutto la procura di Padova (anche se non esclusivamente), mentre Caselli concentrò le sue attenzioni sulle organizzazioni Brigate Rosse e Prima Linea, che tra il 1976 e il 1988 usarono in molte occasioni le armi da fuoco, uccidendo magistrati, politici, poliziotti, fascisti e persino un sindacalista del Pci che li aveva denunciati alla polizia. Si trattò d’altra parte di una divisione dei compiti su scala nazionale, non di una scelta dettata da un’analisi diversa: per Caselli, come per Calogero e Violante, non si trattava di impedire omicidi, ma di impedire l’opera complessiva di tipo rivoluzionario, venisse o meno portata avanti con l’uso di armi. Si può ben parlare, quindi, di lotta alla sovversione politica e alla lotta armata, ma l’azione della magistratura guidata da Caselli non può essere storicamente qualificata come “lotta al terrorismo” – come invece avviene regolarmente – per almeno tre motivi. Il primo è che la lotta armata, così come veniva praticata in quegli anni da alcuni gruppi di sinistra, non può essere tacciata di terrorismo (se non con riferimento, puramente tautologico, alla legge) poiché l’intenzione non fu mai quella, propria del “terrorista”, così come è concepito nella psicologia collettiva, di colpire nel mucchio, creando panico e terrore indistinto: le vittime delle azioni furono sempre mirate, e per quanto questo non rendesse affatto più tranquille le potenziali vittime, ne restringeva enormemente il cerchio, escludendo chi non prestava i propri servizi alle istituzioni politiche o repressive. Per ciò che riguarda la nostra concezione dell’azione antagonista non ci riconosciamo in quel tipo di scelta politica, tanto meno siamo interessati a proporne una rivalutazione nostalgica o anacronistica, anche perché crediamo che ciò che di meglio emerse dai movimenti sociali di quegli anni non si espresse attraverso organizzazioni fortemente gerarchizzate e compartimentate, come le Brigate Rosse, o propense a identificare la forza del conflitto sociale con il numero di morti provocati nel campo avversario, come Prima Linea. Non condividere quelle scelte non può, tuttavia, giustificare in alcun modo il presentarle per quello che non sono state; perché in quegli anni il terrorismo esisteva davvero, con le bombe sui treni e nelle piazze, e non fu mai opera di chi agiva dentro o a lato dei movimenti, ma di fascisti e uomini dello stato, costantemente coperti ai livelli più alti delle istituzioni repubblicane. La seconda ragione per cui non è possibile accettare la denominazione di “lotta al terrorismo” per quella fase della carriera di Caselli è che, anche in relazione alle indagini sulle BR e su Prima Linea (che non rappresentavano certo l’insieme del movimento di quegli anni, che anzi praticava per lo più lo scontro in forme completamente diverse), tra il 1976 e i primi anni Ottanta non furono perseguiti soltanto gli appartenenti ai gruppi armati, ma anche molte persone che di essi non facevano parte, accusate di avere con i militanti relazioni umane che, nella logica di Violante, Laudi e Caselli, rendevano evidente una complicità nei reati o una sorta di complicità “morale”; né valeva per i sospettati dire che non sapevano che i loro conoscenti fossero parte di un’organizzazione clandestina e quindi segreta: si ritrovavano comunque in carcere, talvolta in forme molto dure, sulla base della presunzione di colpevolezza di Caselli o dei suoi collaboratori. Per questo si parlò all’epoca, giustamente, di “caccia alle streghe”, e ancora oggi a Torino un’intera generazione ricorda gli anni in cui, di fatto, si aveva paura anche soltanto a dire cosa si pensava, perché qualsiasi cosa, di qualsiasi genere, detta in qualsiasi direzione poteva essere utilizzata contro le persone “troppo critiche” e quindi “sospette”. Caselli, infine, non portò avanti una lotta al terrorismo poiché non soltanto l’apparato statale di cui era parte, ma lui stesso non disdegnò che venisse usato il terrore pur di ottenere i suoi obiettivi, se è vero che gli organi di polizia penitenziaria e giudiziaria da cui dipendevano molte delle informazioni che riuscì a ottenere torturarono gli arrestati per estorcere quelle informazioni sul variegato mondo della ribellione sociale che la società si ostinava a non fornire. Nel 1978, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro, la polizia politica fu trasformata in Digos (divisione per le operazioni speciali) e posta sotto il coordinamento dell’Ucigos (analogo acronimo, ma nazionale), alla cui direzione venne messo, tra gli altri, Nicola Ciocia, che verrà soprannominato dai colleghi Dottor De Tormentis a causa del suo ruolo, che era quello di comandare una squadra di cinque uomini noti in polizia come “i cinque dell’Ave Maria”, che si muovevano per l’Italia torturando e seviziando i giovani, gli studenti o gli operai arrestati al fine di estorcere informazioni da usare nelle operazioni di polizia e da consegnare alla magistratura inquirente. Visto che l’attività investigativa di Caselli e soci non aveva dato alcun frutto fino a quell’anno – se è vero che tra il 1973 e il 1978 le organizzazioni comuniste armate si moltiplicarono e raggiunsero migliaia di aderenti da nord a sud e fino in Sardegna – l’opzione della tortura fu resa sistematica, e non estemporanea, per debellare il fenomeno, con buona pace per l’ipocrisia circa un’azione “legale”, “costituzionale” o “democratica” delle autorità investigative in quegli anni. Tutto questo fu denunciato immediatamente dai movimenti (e anche dai gruppi armati dell’epoca). Ai militanti che denunciarono di aver subito torture furono aumentate le pene (aggiungendo il reato di calunnia agli altri reati contestati). Inutile dire che Caselli non ha mai parlato di nulla di tutto questo, continuando a ripetere che tutto si è svolto nell’alveo della costituzione, anche se è il primo a sapere perfettamente che non è così. Non l’ha fatto neanche quando la denuncia e la memoria dei reduci sono diventate, dal 2009, rivelazione giornalistica (grazie alle ammissioni di uno dei torturatori, Salvatore Genova, a Chi l’ha visto?, cui è seguita la vera e propria rivendicazione politica delle torture da parte del Dottor De Tormentis, Nicola Ciocia, tuttora vivente e residente a Napoli). Nel 2013, tra l’altro, l’esistenza di quelle torture è addirittura diventata verità di stato (l’unica che Caselli riconosca, anche se certo non è l’unica che conosce) a causa di una sentenza che ha riabilitato uno dei brigatisti torturati e accusati di calunnia all’epoca, Enrico Triaca, giudicando in via definitiva che tortura ci fu e fu sistematica. Del resto, il primo e più fruttuoso successo di Caselli fu l’arresto di Patrizio Peci (che diede indicazioni su dove arrestare i propri compagni), arresto la cui dinamica non fu mai chiarita da Caselli e dal generale Dalla Chiesa, protagonisti dell’episodio; quel che è certo è che i carabinieri di Dalla Chiesa andarono ad uno degli indirizzi forniti da Peci, in via Fracchia a Genova e uccisero nel sonno tutti coloro che vi dormivano. Le BR accusarono il fratello di Peci di essere coinvolto nell’arresto e lo rapirono, annunciando che sarebbe stato liberato se la famiglia del “pentito” avesse detto in Rai ciò che sapeva sulle dinamiche del suo “pentimento”; i familiari chiesero di parlare in Rai, ma il direttore Sergio Zavoli lo impedì, e il fratello di Peci, Roberto, fu ucciso. Sergio Zavoli non nominò questo e altri episodi nella sua ricostruzione televisiva di quegli anni (La notte della Repubblica); né lo fece Caselli, naturalmente, da lui intervistato in quella trasmissione. Nella quale, a pochi anni dalla caccia alle streghe, ebbe buon gioco a ripetere che lo stato era stato superiore ai sovversivi, perché li aveva battuti senza infrangere la legge, senza tema di essere smentito (anche perché molti tra coloro che avrebbero potuto smentirlo erano morti o in galera). La guerra sporca di Caselli e dei suoi colleghi, unita alle politiche portate avanti in quegli anni dal Pci e dal sindacato, riuscirono ad azzerare sostanzialmente l’opposizione sociale nel paese già agli inizi degli anni Ottanta, producendo il vuoto culturale che dal craxismo avrebbe portato direttamente al berlusconismo. Proprio negli anni dell’ascesa berlusconiana Caselli volle tentare la sua guerra “pulita” contro Cosa Nostra in Sicilia, l’unica per la quale vorrebbe essere ricordato, nella totale amnesia (o distorsione storica) rispetto ai suoi anni precedenti; ma proprio in Sicilia la guerra in cui il procuratore sarà immerso rivelerà tutta la sporcizia possibile immaginabile, propria degli apparati autoritari di cui si era servito contro chi aveva lottato per una società diversa – come vedremo, in dettaglio, nella prossima puntata.
To be continued
da
Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli
Gli inizi di carriera
Caselli, nato ad Alessandria e cresciuto a Torino, in Borgo San Paolo, si laureò negli anni Sessanta con una tesi in Storia del diritto e divenne assistente universitario. Pochi anni dopo, nel dicembre 1967, decise di cambiare lavoro e passò il concorso come magistrato, pochi giorni dopo l’occupazione dell’Università da parte degli studenti; e venne nominato giudice istruttore nel 1969, poco dopo la rivolta di corso Traiano, a Mirafiori, dove gli operai in sciopero si scontrarono per ore con la polizia contro le indicazioni del sindacato e del partito comunista, con a fianco gli studenti (a loro volta estranei al sindacato e al partito) che li avevano raggiunti. Questi episodi giungevano dopo due decenni di tensioni nel mondo comunista italiano. Il Pci del dopoguerra, su ordine dell’URSS di Stalin, aveva chiesto vent’anni prima, ai suoi militanti operai e partigiani, di deporre le armi e lavorare pacificamente per la ricostruzione dell’Italia nelle consuete forme dello sfruttamento capitalistico, che in verità il partito era nato per distruggere. L’accettazione della costituzione scritta con la Dc nel 1948, e quindi di una democrazia rappresentativa di tipo liberale, venne spiegata agli operai con l’idea che la democrazia parlamentare sarebbe stata l’anticamera del socialismo.
Questo sfondo politico è la radice profonda della scelta di Caselli di abbandonare la ricerca scientifica nell’ambito della storia e della giurisprudenza per sposare un ruolo del tutto diverso, dove al posto di un uso possibilmente critico e aperto dell’intelligenza è richiesta la subordinazione delle proprie facoltà intellettuali a un’autorità esterna, costituita dal corpus giuridico e dal giuramento di fedeltà all’istituzione che ne è fonte, lo stato. Ma cosa può c’entrare la politica del Pci del dopoguerra con la scelta di Caselli? Molto perché, sebbene egli fosse credente, non era un conservatore. Occorre rimarcare che l’idea della democrazia come anticamera di una trasformazione e di una società migliore, propugnata dal Pci, aveva maturato nel 1967 – quando Caselli entrò in magistratura – connotati diversi da quelli originari. Negli anni Cinquanta, per giustificare il compromesso costituzionale con la Dc, i dirigenti del partito raccontavano ai militanti che esso non era che una strategia di breve durata, in attesa di mutamenti sul piano internazionale; entro pochi anni avrebbero fatto scattare il segnale per “l’ora x”, ossia per l’insurrezione, con una presa violenta del potere sul modello russo.
Nella diversa fase degli anni Sessanta, in un momento in cui gli sforzi operai nell’industria e nell’edilizia avevano permesso un’evoluzione economica, tecnica e urbanistica che passò alla storia come “boom economico” (una rivoluzione essa stessa, sul piano delle abitudini di vita, dei consumi e dei costumi) il Pci lasciò gradualmente cadere la promessa insurrezionale e teorizzò sempre più apertamente un’evoluzione graduale anziché violenta. I dirigenti diffusero l’idea che l’Italia sarebbe sì diventata uno stato socialista, ma con metodi diversi e meno violenti di quelli russi, cinesi o jugoslavi. Si sarebbe trattato di costruire un’egemonia politica e culturale graduale nella società, soprattutto dentro le istituzioni nate nel 1948, e infine provvedere a una trasformazione legale dei rapporti sociali in senso socialista. Questa evoluzione fece serpeggiare forti perplessità in gran parte della popolazione che si era identificata nel Pci, facendo nascere in alcuni l’idea che per riprendere un’azione rivoluzionaria fosse necessario creare nuove proposte politiche dentro o fuori il partito e il sindacato; fece invece nascere un forte interesse in chi, interessato a un’idea di progresso ma fino ad allora ostile al Pci a causa della sua dubbia fedeltà alle istituzioni repubblicane, iniziò a vedere in questa politica un’occasione di innovazione istituzionale per il paese, ancora molto arretrato e non depurato delle eredità autoritarie.
Caselli incontrò la magistratura in questo clima, per una scelta che giustificherà in questi termini: attraverso l’ingresso di uomini diversi, più progressisti, nelle istituzioni (anche e soprattutto quelle repressive, tradizionalmente legate a personalità reazionarie) la società potrà cambiare. Il Pci intendeva penetrare nelle istituzioni anzitutto attraverso i settori legislativo, scolastico/accademico e giudiziario; e per quest’ultimo settore formò una corrente organizzata di magistrati (la costituzione lo permetteva), che Caselli contribuì a fondare alla fine degli anni Sessanta: Magistratura Democratica. Il potere giudiziario che la repubblica ereditava dalla prima unità nazionale e dal fascismo era composto da individui usi a perseguire i reati secondo una logica squisitamente di classe: il giudice era una figura altolocata e conservatrice il cui compito era riempire le carceri di povera gente e dissidenti politici (tra il 1938 e il 1943, anche di perseguitati razziali). La maggior parte dei magistrati italiani, quando fu fondata MD, obbedivano ancora completamente a questa logica e a questa concezione di fondo del proprio compito. I magistrati democratici intendevano prendere sul serio la rottura storica rappresentata dalla fine del fascismo e della monarchia e dall’adozione della carta costituzionale; come dirà Caselli stesso più volte, l’obiettivo era “realizzare” la costituzione, affinché la lettera scritta non restasse lettera morta, ma si incarnasse nei provvedimenti di autorità rinnovate nella composizione del loro personale.
In prima linea contro i movimenti sociali
Il primo compito che Caselli si trovò ad affrontare, tuttavia, non fu la difesa dei diritti civili calpestati da secoli di oppressione, bensì l’attacco ai movimenti sociali esplosi a Torino nel 1967 e propagatisi in tutto il paese nell’anno successivo. Il programma riformistico del Pci non trovava molti adepti tra gli operai e gli studenti. I primi erano molto cambiati dagli anni Cinquanta, proprio nel senso che il genere di persona che si trovava a lavorare nella grande fabbrica del nord non era più l’operaio qualificato nato e cresciuto sul luogo, ma il giovane sradicato dalle sue terre (spesso le terre colonizzate del sud, dove lo stato era percepito come pura oppressione) che condivideva con migliaia di suoi simili un lavoro ripetitivo e spersonalizzato. Giovani che non avevano sentito parlare dell’ora x, e che alle promesse di un futuro radioso grazie alla lenta azione istituzionale dei dirigenti di un partito a loro estraneo preferivano occuparsi di cose concrete come il proprio salario e la durata dell’orario di lavoro. Gli studenti, dal canto loro, proprio perché studiavano, notavano la differenza profonda tra la linea del Pci e le strategie delle forze comuniste del passato, e del presente in altri paesi (anzitutto in Asia, in Africa, in Sudamerica); e ritenevano per lo più che fosse una chimera riformare lo stato in senso socialista, poiché esso disponeva di apparati militari che, come stava accadendo in Grecia e sarebbe presto accaduto in Cile, non avrebbero permesso un mutamento graduale e legale contrario agli interessi del capitale.
Caselli venne delegato in quegli anni, come giudice istruttore, a perseguire i reati commessi nell’ambito delle attività di questa “nuova sinistra”, che non diede vita a un movimento unitario o a un nuovo soggetto, ma a diversi soggetti che si rivelarono ben presto poco utili a dare uno sbocco organizzativo alle diverse ed eterogenee ondate di ribellione, in cui il Pci e la Cgil non ebbero alcun ruolo, ripiegando sempre più nelle istituzioni dello stato. Così, se i magistrati democratici speravano di poter volgere la legge contro gli abusi del potere e i residui del passato, si trovarono in prima linea contro la novità sociale e politica dell’epoca, ossia i movimenti portatori di una loro autonomia. Il loro obiettivo furono i militanti che organizzavano strutture politiche apertamente rivoluzionarie: mostrando la propria fedeltà allo stato (che pur in quegli anni rispondeva ai movimenti con le stragi nelle piazze, le bombe sui treni, l’organizzazione di forze paramilitari; tutte cose organizzate, dentro le istituzioni, proprio da chi non aveva digerito il 25 aprile) erano convinti di maturare un credito professionale che sarebbe stato speso in seguito per la costituzione, quando l’emergenza delle “contestazioni” fosse stata superata.
Rispetto ad altri magistrati dell’epoca, Caselli comprese meglio la situazione di quegli anni, dove chi decideva di contrapporsi alle istituzioni, non disdegnando – come in ogni tentativo rivoluzionario – l’illegalità e talvolta le armi, si trovava immerso in una società che si era fortemente spostata, dopo il fascismo, verso idee di progresso sociale, una società nuova che procurava ai ribelli solidarietà e simpatie diffuse. Se i militanti del Pci e della Cgil identificarono a giusto titolo i rivoluzionari come il principale nemico, gli elettori del Pci, gli iscritti al sindacato e i tanti non iscritti vedevano invece in essi, generalmente, persone perbene che si sacrificavano per una società più giusta. Caselli decise quindi di orientarsi su due fronti per estirpare il fenomeno: da un lato i militanti e le organizzazioni, armate ma non solo, dall’altro il mare in cui essi nuotavano, ossia la vasta rete di persone e movimenti che per essi simpatizzavano.
Il primo arresto del magistrato è quello di Giambattista Lazagna, nel 1974, un partigiano di Genova accusato di banda armata e addirittura di essere dirigente delle Brigate Rosse, un’organizzazione che in quegli anni si inseriva nelle vertenze contrattuali delle fabbriche con intimidazioni verso gli imprenditori; intimidazioni tanto più preoccupanti, per i magistrati, perché davano risultati concreti in favore degli operai. L’incriminazione di Lazagna, noto e rispettato in tutta la Liguria e il basso Piemonte per aver comandato, a soli vent’anni, la divisione partigiana Pinan-Cichero nella battaglia contro i nazisti detta “del ponte rotto”, in Val Borbera, vicino ad Arquata Scrivia, fu giustificata da Caselli con la soffiata di un infiltrato, che aveva dedotto da una frase del partigiano che egli conosceva Renato Curcio. Lazagna si farà quindi la prigione, poi due anni di confino a Rocchetta Ligure (perdendo il lavoro che gli dava da vivere) e infine verrà assolto dalle accuse.
L’uomo che l’aveva accusato (Silvano Girotto), era stato inviato ad infiltrarsi nelle Brigate Rosse per conto del generale dalla Chiesa, e riuscì infine a permettere l’arresto, a Pinerolo nel 1975, di Curcio e di un altri dirigente dell’organizzazione, Franceschini. Caselli si trovò faccia a faccia con quest’ultimo per l’interrogatorio e, nonostante all’epoca le BR non avessero ancora ucciso nessuno, quando l’arrestato pretese di essere qualificato agli atti come rivoluzionario di professione, Caselli perse l’autocontrollo e sbottò urlando “Lei è solo un assassino!”, e si prese un ceffone dal ragazzo che lo fece quasi cadere per terra. L’anno successivo, quando le BR uccisero un magistrato di Genova e dichiararono che avrebbero ancora attaccato la magistratura che li combatteva, il procuratore capo di Torino affiancò a Caselli altri due magistrati, Luciano Violante e Mario Griffey (si aggiungeranno poi Maurizio Laudi e Marcello Maddalena): tutti avrebbero seguito, in modo coordinato, le indagini sui gruppi sovversivi, affinché l’eventuale omicidio di uno di loro non vanificasse il lavoro di gruppo (gruppo che venne denominato col tempo “pool”). Iniziò un periodo (1976-1982) in cui lo scontro non tra lo stato e i gruppi armati, ma tra lo stato e tutti i movimenti che volevano un cambiamento radicale della società – di cui i gruppi armati non erano che una parte tra tante altre, anche perché le loro idee apparivano a molti, nei movimenti stessi, inadeguate e astratte – divenne durissimo, cambiando per sempre i connotati dell’Italia.
Le più grandi proprietà del paese operarono ristrutturazioni della produzione a vari livelli, per impedire l’organizzazione pratica degli operai e la riuscita degli scioperi, licenziando migliaia di lavoratori che si erano distinti nell’organizzazione delle lotte di fabbrica. Lo stato, invece, agì compattando l’alleanza tra le sue forme “tradizionali”, legate all’eredità militarista e fascista, e quelle “costituzionali” create dal Pci nel dopoguerra per propiziare la propria penetrazione istituzionale: al pool di Caselli si affiancarono così carabinieri e poliziotti che impedivano le manifestazioni e sparavano uccidendo i manifestanti, funzionari di stato e responsabili d’impresa che facevano licenziare gli individui politicamente sgraditi, militari che apprestavano organi occulti legati all’esercito (come Gladio o la Rosa dei Venti) per reprimere l’evoluzione sociale quando si fosse spinta troppo in avanti, e poi politici, giornalisti, generali e agenti segreti organizzati in una struttura, la “loggia p2”, volta a controllare le istituzioni senza l’intralcio della legge e delle elezioni; né si esitò ad utilizzare l’estrema destra per colpire i movimenti o l’intera popolazione (come avvenne a Bologna con la bomba alla stazione del 1980, in cui morirono 84 persone e ne restarono ferite 200), o a usare la stessa criminalità organizzata contro i movimenti attraverso l’intimidazione, l’assassinio (si pensi al caso di Fausto e Iaio a Milano, nel 1978) e la distribuzione capillare di sostanze che, diffondendosi tra i giovani, ne avrebbero reso impossibile l’azione politica (ad esempio l’eroina).
Caselli sapeva perfettamente da che parte stava, e di essere inserito in questo grande quadro nazionale di repressione, in cui era necessario che i magistrati democratici si alleassero anche con chi democratico non era, o era tutto il contrario, come il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa o il capitano Mario Mori, il primo già coinvolto in dure repressioni di piazza e in una strage di detenuti nel carcere di Alessandria, il secondo… lo ritroveremo in seguito. Ciononostante, profondamente convinto che se prevarrà la legalità repubblicana la società diventerà migliore, e lui stesso potrà eliminare l’ingiustizia e l’abuso dall’interno della macchina statale, assieme ai suoi colleghi magistrati, si impegnò anima e corpo a estirpare la malapianta dell’azione rivoluzionaria, sempre rivendicando l’intenzione di combattere la sovversione esclusivamente “dentro le aule dei tribunali”, ossia senza cedimenti all’autoritarismo o al militarismo: un’idea smentita non soltanto dalla natura dell’apparato di cui si servì e dal contesto istituzionale che rese possibile la sua opera di repressione, ma dalle stesse, terribili dinamiche che avrebbero portato ai successi investigativi suoi e dei magistrati impegnati nello stesso fronte.
Terrorismo di massa e torture
Non si trattò di un’azione volta contro i soli militanti armati, come si legge sui libri di storia sulla base di un semplicismo interessato e censorio, bensì di un’operazione vasta e spietata, che in pochi anni passò come un rullo compressore su ogni forma di espressione sociale, politica e culturale che, a sinistra, non rientrasse nei ranghi della mediazione parlamentare. Si usò l’omicidio (si pensi agli studenti Francesco Lo Russo e Giorgiana Masi, uccisi dalla polizia nel 1977) e fu utilizzata la censura (con la chiusura delle radio libere, come Radio Alice chiusa dai carabinieri a Bologna, o la radio di Peppino Impastato a Cinisi, Radio Aut, chiusa da Cosa Nostra, i cui vertici fin dal dopoguerra operavano contro i movimenti per conto dello stato, con l’ausilio dei carabinieri), ma soprattutto gli arresti di massa, che furono il principale strumento di intimidazione e messa fuori gioco di quella generazione. Migliaia di persone furono rinchiuse in cella per mesi o per anni senza essere giudicati, sulla base di semplici “sospetti” sbandierati come fondati da magistrati come Calogero a Padova o Caselli e Violante a Torino, che si riveleranno in moltissimi casi del tutto pretestuosi e parte di un disegno squisitamente politico di repressione generalizzata.
Ciononostante, la storiografia ufficiale vuole oggi che Caselli abbia combattuto una “lotta contro il terrorismo”, e chiunque avanzi dubbi su questa ricostruzione (si tratti di chi ha vissuto quegli anni o di chi, nato successivamente, ne ascolta o legge i racconti) viene a sua volta bollato come una sorta di “terrorista” di ritorno. Indubbiamente diversi gruppi compirono in quegli anni la scelta della lotta armata, praticata con diverse forme e diverse intensità o strategie, e con diverse concezioni politiche; ed è vero che della repressione specifica dei movimenti giovanili e studenteschi si occupò soprattutto la procura di Padova (anche se non esclusivamente), mentre Caselli concentrò le sue attenzioni sulle organizzazioni Brigate Rosse e Prima Linea, che tra il 1976 e il 1988 usarono in molte occasioni le armi da fuoco, uccidendo magistrati, politici, poliziotti, fascisti e persino un sindacalista del Pci che li aveva denunciati alla polizia. Si trattò d’altra parte di una divisione dei compiti su scala nazionale, non di una scelta dettata da un’analisi diversa: per Caselli, come per Calogero e Violante, non si trattava di impedire omicidi, ma di impedire l’opera complessiva di tipo rivoluzionario, venisse o meno portata avanti con l’uso di armi.
Si può ben parlare, quindi, di lotta alla sovversione politica e alla lotta armata, ma l’azione della magistratura guidata da Caselli non può essere storicamente qualificata come “lotta al terrorismo” – come invece avviene regolarmente – per almeno tre motivi. Il primo è che la lotta armata, così come veniva praticata in quegli anni da alcuni gruppi di sinistra, non può essere tacciata di terrorismo (se non con riferimento, puramente tautologico, alla legge) poiché l’intenzione non fu mai quella, propria del “terrorista”, così come è concepito nella psicologia collettiva, di colpire nel mucchio, creando panico e terrore indistinto: le vittime delle azioni furono sempre mirate, e per quanto questo non rendesse affatto più tranquille le potenziali vittime, ne restringeva enormemente il cerchio, escludendo chi non prestava i propri servizi alle istituzioni politiche o repressive.
Per ciò che riguarda la nostra concezione dell’azione antagonista non ci riconosciamo in quel tipo di scelta politica, tanto meno siamo interessati a proporne una rivalutazione nostalgica o anacronistica, anche perché crediamo che ciò che di meglio emerse dai movimenti sociali di quegli anni non si espresse attraverso organizzazioni fortemente gerarchizzate e compartimentate, come le Brigate Rosse, o propense a identificare la forza del conflitto sociale con il numero di morti provocati nel campo avversario, come Prima Linea. Non condividere quelle scelte non può, tuttavia, giustificare in alcun modo il presentarle per quello che non sono state; perché in quegli anni il terrorismo esisteva davvero, con le bombe sui treni e nelle piazze, e non fu mai opera di chi agiva dentro o a lato dei movimenti, ma di fascisti e uomini dello stato, costantemente coperti ai livelli più alti delle istituzioni repubblicane.
La seconda ragione per cui non è possibile accettare la denominazione di “lotta al terrorismo” per quella fase della carriera di Caselli è che, anche in relazione alle indagini sulle BR e su Prima Linea (che non rappresentavano certo l’insieme del movimento di quegli anni, che anzi praticava per lo più lo scontro in forme completamente diverse), tra il 1976 e i primi anni Ottanta non furono perseguiti soltanto gli appartenenti ai gruppi armati, ma anche molte persone che di essi non facevano parte, accusate di avere con i militanti relazioni umane che, nella logica di Violante, Laudi e Caselli, rendevano evidente una complicità nei reati o una sorta di complicità “morale”; né valeva per i sospettati dire che non sapevano che i loro conoscenti fossero parte di un’organizzazione clandestina e quindi segreta: si ritrovavano comunque in carcere, talvolta in forme molto dure, sulla base della presunzione di colpevolezza di Caselli o dei suoi collaboratori. Per questo si parlò all’epoca, giustamente, di “caccia alle streghe”, e ancora oggi a Torino un’intera generazione ricorda gli anni in cui, di fatto, si aveva paura anche soltanto a dire cosa si pensava, perché qualsiasi cosa, di qualsiasi genere, detta in qualsiasi direzione poteva essere utilizzata contro le persone “troppo critiche” e quindi “sospette”.
Caselli, infine, non portò avanti una lotta al terrorismo poiché non soltanto l’apparato statale di cui era parte, ma lui stesso non disdegnò che venisse usato il terrore pur di ottenere i suoi obiettivi, se è vero che gli organi di polizia penitenziaria e giudiziaria da cui dipendevano molte delle informazioni che riuscì a ottenere torturarono gli arrestati per estorcere quelle informazioni sul variegato mondo della ribellione sociale che la società si ostinava a non fornire. Nel 1978, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro, la polizia politica fu trasformata in Digos (divisione per le operazioni speciali) e posta sotto il coordinamento dell’Ucigos (analogo acronimo, ma nazionale), alla cui direzione venne messo, tra gli altri, Nicola Ciocia, che verrà soprannominato dai colleghi Dottor De Tormentis a causa del suo ruolo, che era quello di comandare una squadra di cinque uomini noti in polizia come “i cinque dell’Ave Maria”, che si muovevano per l’Italia torturando e seviziando i giovani, gli studenti o gli operai arrestati al fine di estorcere informazioni da usare nelle operazioni di polizia e da consegnare alla magistratura inquirente. Visto che l’attività investigativa di Caselli e soci non aveva dato alcun frutto fino a quell’anno – se è vero che tra il 1973 e il 1978 le organizzazioni comuniste armate si moltiplicarono e raggiunsero migliaia di aderenti da nord a sud e fino in Sardegna – l’opzione della tortura fu resa sistematica, e non estemporanea, per debellare il fenomeno, con buona pace per l’ipocrisia circa un’azione “legale”, “costituzionale” o “democratica” delle autorità investigative in quegli anni.
Tutto questo fu denunciato immediatamente dai movimenti (e anche dai gruppi armati dell’epoca). Ai militanti che denunciarono di aver subito torture furono aumentate le pene (aggiungendo il reato di calunnia agli altri reati contestati). Inutile dire che Caselli non ha mai parlato di nulla di tutto questo, continuando a ripetere che tutto si è svolto nell’alveo della costituzione, anche se è il primo a sapere perfettamente che non è così. Non l’ha fatto neanche quando la denuncia e la memoria dei reduci sono diventate, dal 2009, rivelazione giornalistica (grazie alle ammissioni di uno dei torturatori, Salvatore Genova, a Chi l’ha visto?, cui è seguita la vera e propria rivendicazione politica delle torture da parte del Dottor De Tormentis, Nicola Ciocia, tuttora vivente e residente a Napoli). Nel 2013, tra l’altro, l’esistenza di quelle torture è addirittura diventata verità di stato (l’unica che Caselli riconosca, anche se certo non è l’unica che conosce) a causa di una sentenza che ha riabilitato uno dei brigatisti torturati e accusati di calunnia all’epoca, Enrico Triaca, giudicando in via definitiva che tortura ci fu e fu sistematica.
Del resto, il primo e più fruttuoso successo di Caselli fu l’arresto di Patrizio Peci (che diede indicazioni su dove arrestare i propri compagni), arresto la cui dinamica non fu mai chiarita da Caselli e dal generale Dalla Chiesa, protagonisti dell’episodio; quel che è certo è che i carabinieri di Dalla Chiesa andarono ad uno degli indirizzi forniti da Peci, in via Fracchia a Genova e uccisero nel sonno tutti coloro che vi dormivano. Le BR accusarono il fratello di Peci di essere coinvolto nell’arresto e lo rapirono, annunciando che sarebbe stato liberato se la famiglia del “pentito” avesse detto in Rai ciò che sapeva sulle dinamiche del suo “pentimento”; i familiari chiesero di parlare in Rai, ma il direttore Sergio Zavoli lo impedì, e il fratello di Peci, Roberto, fu ucciso. Sergio Zavoli non nominò questo e altri episodi nella sua ricostruzione televisiva di quegli anni (La notte della Repubblica); né lo fece Caselli, naturalmente, da lui intervistato in quella trasmissione. Nella quale, a pochi anni dalla caccia alle streghe, ebbe buon gioco a ripetere che lo stato era stato superiore ai sovversivi, perché li aveva battuti senza infrangere la legge, senza tema di essere smentito (anche perché molti tra coloro che avrebbero potuto smentirlo erano morti o in galera).
La guerra sporca di Caselli e dei suoi colleghi, unita alle politiche portate avanti in quegli anni dal Pci e dal sindacato, riuscirono ad azzerare sostanzialmente l’opposizione sociale nel paese già agli inizi degli anni Ottanta, producendo il vuoto culturale che dal craxismo avrebbe portato direttamente al berlusconismo. Proprio negli anni dell’ascesa berlusconiana Caselli volle tentare la sua guerra “pulita” contro Cosa Nostra in Sicilia, l’unica per la quale vorrebbe essere ricordato, nella totale amnesia (o distorsione storica) rispetto ai suoi anni precedenti; ma proprio in Sicilia la guerra in cui il procuratore sarà immerso rivelerà tutta la sporcizia possibile immaginabile, propria degli apparati autoritari di cui si era servito contro chi aveva lottato per una società diversa – come vedremo, in dettaglio, nella prossima puntata.
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