C’è chi dirige lo sguardo verso il mercato creditizio, chi verso il cosiddetto “mercato del lavoro”, altri su quello dei prodotti, altri ancora sulle imprese. Ma non c’è niente da fare: nessuno che si ponga la questione di come creare domanda. La soluzione per loro è il mercato extra-eurozona, facendo intendere che la nostra area economica avrà nei prossimi anni andamenti dei consumi anemici se non in ulteriore diminuzione.
Bontà loro puntano anche sugli investimenti, ma se la domanda interna europea è calante da un bel pezzo, con conseguente crollo dell’utilizzo della capacità produttiva, non si vede come ciò possa succedere. Eppure è su questo che puntano sia Visco che Draghi. Nella stessa giornata, il 25 marzo scorso, i due banchieri centrali europei invitano i governi e le imprese a puntare sugli investimenti: per il primo, addirittura, assieme alle “riforme strutturali”, sarebbero un tale volano di sviluppo che si arriverebbe ad una crescita nominale pari al 3% che, in un contesto di pareggio strutturale di bilancio, farebbe sì che non necessiterebbero le draconiane manovra da 50 miliardi l’anno per rispettare a partire dal 2016 il Fiscal Compact.
Il secondo, in una conferenza a Parigi, afferma più o meno le stesse cose, aggiungendo che se tutti fanno la pur “necessaria” deflazione salariale, il gioco sarebbe a somma zero o negativa, mentre se i membri dell’eurozona puntassero tutti sugli investimenti il gioco sarebbe a somma positiva. Per far sì che gli investimenti ritornino ad essere volano di crescita, entrambi parlano di riforme strutturali, dal mercato del lavoro alla giustizia civile, dalla governance istituzionale alla riduzione della spesa pubblica, o meglio, ad una sua ricomposizione a favore del capitale attraverso la leva fiscale. Ciò non basta perché per Visco le imprese devono “ristrutturarsi” ed adeguarsi al nuovo contesto del mercato mondiale, sia utilizzando il capitale umano, da qui spesa in istruzione e ricerca, sia innovando prodotti e processi.
Allargando lo sguardo ad altri economisti sulle colonne dei quotidiani, la musica non cambia: tutti indirizzati dal lato dell’offerta, mentre quando si tratta di parlare di sbocchi di mercato, dunque di “domanda”, l’accento si pone sulle esportazioni, come se un mercato interno di 350 milioni di persone – da questi è costituita l’eurozona – non esistesse affatto, secondo la dottrina mercantilista tedesca. Si dia il caso però che il dumping sociale, vale a dire la deflazione salariale attraverso le “riforme strutturali”, lo stanno applicando tutti i paesi dell’eurozona a tal punto che l’output gap, il differenziale tra crescita reale e potenziale si è ampliato notevolmente per tutti i paesi europei, ad un livello tale da far affermare a non pochi uomini della finanza e dell’industria che con questo andazzo tra vent’anni non esisterà nessun paese europeo degno della scena mondiale, compresa la Germania.
Questo è il risultato dell’unione monetaria messa in piedi da tedeschi e francesi nel 1972 con il Piano Werner, che prevedeva deflazione salariale e mercantilismo proiettato sulla scena mondiale. Non avevano previsto però che il mondo si sarebbe industrializzato e molti paesi, non solo la triade occidentale, sarebbero diventati antagonisti nel mercato mondiale. Ciò colpisce paesi come i Pigs, ma la stessa Francia e altri paesi core.
Il Piano Werner è talmente deflazionista che non solo oggi l’eurozona presenta un tasso di inflazione pari allo 0,7%, molto distante da quel pur infimo livello del 2% deciso con l’unione monetaria, ma dal lato dell’offerta creditizia la restrizione presenta livello inimmaginabili in altri contesti mondiali, con la massa monetaria m3 che cresce mediamente dell’1,2%, soffocando l’economia dell’eurozona.
Ecco perché tutti i leader europei cercano canali di sbocco o negli USA o nei “paesi emergenti”, Cina in testa: dopo 22 anni di deflazione reale con il trattato di Maastricht semplicemente non esiste più la domanda interna nell’eurozona e gli unici segni positivi si vedono nella bilancia commerciale dei vari paesi, compreso il nostro, ma più che altro per il crollo dell’import. L’eurozona sta esportando deflazione in tutto il mondo, il fantasma nero di Maastricht ha portato questo risultato. In tale contesto c’è da chiedersi chi potrà mai fare investimenti con un prodotto potenziale abbassatosi quasi ovunque nell’eurozona a livelli infimi.
Certo, Schumpeter e “distruzione creativa”, come vuole Draghi attraverso il canale bancario, ma chi rimane siamo sicuri che sia propenso agli investimenti avendo una capacità produttiva inutilizzata enorme? Finora in Italia si è perso il 25% della capacità industriale: quanto ancora dovrà perdere prima di riavviare gli investimenti? Questo Visco non lo spiega, esortando le imprese a “modernizzarsi”. Ma visto che non hanno voluto, potuto o saputo farlo negli anni delle vacche grasse, lo faranno adesso? Si dubita molto di ciò, ecco perché torna d’attualità la richiesta di un intervento pubblico nell’economia, altrimenti non se ne esce.
Per ora i nostri banchieri centrali italiani, disconoscendo Baffi, operano le leve della supply side economy. Forse occorrerà aspettare un altro po’ di anni per vederli cambiare opinione. Ma a quella data la situazione sarebbe compromessa del tutto, stante così le cose. Fuoriuscire dalla cappa deflazionista europea alla ricerca di nuovi partner economici: questa sarebbe la ricetta che nessuno osa affermare. Per il momento teniamoci l’austerian Padoan, un altro che crede ancora nella “politica dell’offerta”. Non si legge mai su i giornali qualcuno che dica: ok, va bene, ma a chi vendiamo?
Questa domanda se la porrebbero persino i bambini, ma da un’analista economico o da un cronista di fatti economici non ci si può attendere che questi abbiano la fantasia e la curiosità dei bambini. Sono troppo intenti a partecipare al pasto nel divorare il proletariato dei vari paesi europei….
da Marx21.it
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