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A proposito di test Invalsi

Il testo dell’intervento tenuto da un membro della redazione del collettivo fiorentino CortocircuitO durante un’assemblea della Rete delle scuole fiorentine (un’assemblea che riunisce insegnanti di tutti gli ordini della scuola e genitori) dove si discuteva dei test INVALSI.

Il collettivo CortocircuitO, di cui faccio parte, si occupa, attraverso il proprio sito e non solo, di informazione ed analisi che hanno la pretesa di porsi come antagoniste allo stato di cose presente. Per fare delle buone analisi è senz’altro necessaria una certa preparazione sui temi che si vanno ad analizzare, e quindi ci occupiamo anche di formazione.

Insoddisfatti dalle condizioni delle farie forme di attività politica presenti in città, abbiamo cercato in questi anni di estendere e di condividere le nostre attività di formazione, rivolgendoci in particolar modo agli studenti delle scuole superiori. Nell’ultimo anno abbiamo portato avanti una serie di attività nell’occupazione di via del Leone, cineforum tematici, presentazioni di libri ed altri incontri di approfondimento, a stretto contatto con gli studenti, in particolare quelli del liceo Machiavelli-Capponi, con il preciso scopo di condividere i nostri contenuti con i più giovani.

I test Invalsi rappresentano un po’ tutto ciò contro cui combattiamo con le nostre attività più culturali: l’ossessione per la valutazione quantitativa, l’applicazione di criteri di produttività ai docenti in modo da creare ed allargare sempre di più il divario fra scuole d’eccellenza e scuole spazzatura, l’omologazione, lo studiare, o meglio, l’essere addestrati per rispondere ai test, in modo non dissimile a quanto accade per la patente di guida, sono lo specchio di una concezione dei saperi come dei meri cumuli di nozioni da ingoiare nella speranza di trovare, un giorno, un lavoro ben retribuito. Un modello perfettamente adeguato alle esigenze dell’attuale ordine economico e sociale, ovvero il capitalismo.

L’applicazione di criteri quantitativi di produttività agli insegnanti dei vari livelli della scuola non stupisce, d’altra parte. Criteri del genere, ancora più spietati, esistono da anni in ambito universitario. La validità di un ricercatore, quindi un produttore di sapere, di quello stesso sapere che deve essere trasmesso alle nuove generazioni, viene oggi valutato in base al numero di citazioni che lo riguardano. Questo sistema, come tutte le regole “automatiche”, porta inevitabilmente all’opposto dell’obiettivo desiderato: in questo caso alla creazione di comunità di ricerca sempre più ristrette e settarie, i cui membri si citano fra di loro al mero scopo di far lievitare il proprio “valore accademico”. La decadenza del sapere, in un contesto del genere, è inevitabile, e colpisce non solo i “molli” saperi umanistici, ma proprio il cuore di pietra delle scienze dure e della tecnologia scientifica che sono il vanto della civiltà occidentale ma che sono anche investite più direttamente dai processi di mercificazione del sapere. Tant’è vero che c’è chi addirittura parla di una bolla scientifica e tecnologica pronta ad esplodere non appena il pianeta ci presenterà il conto per l’irresponsabile uso delle risorse fatto fino ad oggi.

Mi sia concesso rimandare, per quanto riguarda la decadenza dei saperi scientifici, ad un eloquente librettino di Lucio Russo, fisico, filologo e storico della scienza (si, avete capito bene, capisce sia le equazioni che il greco antico, un caso più unico che raro in un panorama di parcellizzazione dei saperi): La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, ed. Liguori. Dello stesso autore si può trovare anche Segmenti e bastonicni. Dove sta andando la scuola? ed. Feltrinelli, che che ho l’impressione possa essere una lettura di indubbio interesse per tutti gli insegnanti.

Tornando al test Invalsi, come sempre l’Italia fa la figura del paese di incivili, che introduce i moderni criteri di valutazione quantitativa in ritardo, rimanendo indietro sugli standard europei e altre accuse di questo tipo, che abbiamo ormai imparato a digerire quando si parla di economia. Ma proprio il libro di Russo sulla cultura componibile ci offre uno spunto per inquadrare la situazione del nostro paese nella giusta luce. Anche in ambito universitario i criteri quantitativi sono arrivati tardi in Italia, e se questo ha permesso da una parte la sussustenza di ricercatori e docenti inetti, dall’altra ha permesso anche la sopravvivenza di veri ricercatori che non avendo l’assillo di pubblicare una miriade di inutili articoli per la propria sopravvivenza accademica, ha potuto dedicare tutto il tempo necessario a ricerche più impegnative e significative.

Quando soggetti come Brunetta tirano fuori la retorica dei fannulloni, bisogna ammenttere che non la tirano fuori dal nulla; sappiamo tutti che simili soggetti esistono nel variegato mondo dei dipendenti statali. Ma l’interpretazione della realtà si basa sempre su un punto di vista, che cela interessi ben precisi, anche e soprattutto quando si parla di statistiche. Certi aspetti “conservatori” del nostro paese possono essere stati positivi, se l’innovazione, il “progresso” che ci viene spacciato non è altro che la riduzione degli esseri umani ad automi, ingranaggi di un sistema che se ne frega di loro e persegue unicamente finalità come il profitto o il controllo sociale.

A tutti i livelli dell’istruzione, il messaggio è chiaro: non ci servono teste pensanti, non ci servono persone, ci servono solo docili lavoratori e fedeli consumatori. Per questo spariscono dall’istruzione l’autentica formazione umana, la bildung, e viene lasciato spazio unicamente a saperi “tecnici” o “tecnicizzati”, che dovrebbero servire, con un po’ di fortuna, ad inserirsi in quel limbo che è il mondo del lavoro.

Parlando di bildung, bisogna osservare che la scuola e pure la famiglia arrivano infinitamente in ritardo rispetto ai media, dalla televisione alle pubblicità commerciali, per arrivare al mondo, ambiguo e vasto oltre ogni limite, della rete. Il fenomeno è preso sotto gamba, a mio avviso, dalla maggior parte di coloro che hanno la responsabilità dell’educazione delle nuove generazioni. Su questi temi rimando agli appunti di un seminario di Silvano Cacciari, sociologo che insegna all’Università di Firenze ed animatore del portale di controinformazione Senza Soste, tenuto qualche anno fa presso l’ateneo fiorentino.

Insomma, uomini sempre più simili a macchine, in un mondo dove la macchina è diventata un vero e proprio mito, un modello dal sapore metafisico che curiosamente sta realizzando l’imperativo del Dio biblico (“Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».” Genesi, 1: 28) In questa operazione di “meccanicizzazione” dell’uomo aiuta molto il paradigma terapeutico, (che ritorna nei test “somministrati”, per avere una “diagnosi” dei mali della scuola italiana, per poterla “curare”), il quale a sua volta si appoggia su un paradigma meccanicistico: la vita umana è concepita dalla moderna scienza medica come un meccanismo che a volte si inceppa e che va riparato, per questo ha tanto successo nel curare gli aspetti meccanici (come la frattura di un osso) quanto poco riesce ad aiutarci in quelli non meccanici (depressione, attacchi di panico, ma anche dolori mestruali o allergie). In una recente conferenza tenuta presso il dipartimento di filosofia di Firenze, Arnaldo Benini, professore
 di
 neurochirurgia vertebromidollare
 presso
 l’unversità di Zurigo (è quello che in gergo si chiama un neuroscienziato), ha affermato che in biologia siamo ancora alla concezione di Cartesio, il quale concepiva il corpo umano come una macchina.

Ora, la costituzione italiana dice (Art. 3 comma 2): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”. Purtroppo, un’espressione come “il pieno sviluppo della persona umana” è quello che i teorici del diritto chiamano un “concetto valvola”, ovvero soggetto a più interpretazioni, e che perciò sfugge ad una applicazione meccanica, automatica. E l’interpretazione di un concetto giuridico è sempre politica: questo significa che l’interpretazione vincente sarà quella di chi prevale nei rapporti di forza fra differenti interessi, e oggi questo vuol dire che è quella delle classi dominanti, e a monte della società capitalista che esse incarnano.

Il mio maestro in queste materie, il prof. Luigi Lombardi Vallauri, che ha insegnato per quarant’anni filosofia del diritto alla facoltà di Giurisprudenza di Firenze, vede nell’articolo 3 della Costituzione il vertice dell’intero ordinamento giuridico italiano. E non ha dubbi su quale sia il modello di uomo, “il pieno sviluppo della persona” che ci viene propinato: lo chiama individualista possessivo. I suoi valori, che egli persegue indefinitamente e ciecamente, sono la ricchezza, il potere, il successo e il piacere, con ogni mezzo necessario. Valori incarnati dal politico o dall’imprenditore di successo, ma anche dal mafioso, dal criminale. Per inciso, è questo sistema di valori che provoca a cascata fenomeni come le baby-squillo di Roma salite tristemente agli onori della cronaca nei mesi scorsi e subito seguite da una schiera di epigoni.

I valori dell’individualismo possessivo promuovono una visione sadica, in senso filosofico, dei rapporti sociali, impongono cioè di vedere nel prossimo nient’altro che un mezzo per raggiungere i propri scopi, in una perversa inversione dell’imperativo categorico kantiano nella sua forma più “umana” (“Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.”)

Non posso addentrarmi nella critica che Vallauri svolge a questo aberrante ideale umano: rimando ad un suo intervento tenuto a Cuba ormai una decina di anni fa che abbaimo pubblicato qui. Però mi sembra evidente che il primo scopo di qualunque educatore debba essere impedire con ogni mezzo che l’individualismo possessivo attecchisca sulle nuove generazioni.

Tuttavia vorrei riportare almeno un passo dell’intervento di Vallauri, che mi fornisce il destro per portare a conclusione il discorso che sto svolgendo: “I diritti dell’uomo, se devono essere i diritti di ogni uomo, non possono essere i diritti di un qualsiasi uomo. Non possono essere i diritti dell’uomo individualista possessivo.

Universalizzare i diritti dell’uomo nel senso di estenderli a tutti gli uomini è impossibile, o rischia di essere catastrofico, se l’uomo in questione è l’individualista possessivo o anche solo il consumista. Non è proponibile, per esempio, che tutti gli uomini facciano uso dei loro diritti consumando petrolio e carne quanto uno statunitense.”

Affermazioni del genere, che ritengo giustissime, minano alla base l’idea stessa di diritti universali di cui l’uomo “dovrebbe” godere. E rendono deboli, per le ragioni che ho mostrato sopra, gli appelli alla Costituzione italiana e in generale allo stato di diritto. Quest’ultimo, che si incarna nel modo in cui le norme giuridiche vengono interpretate, non è altro che l’espressione dei rapporti di forza fra interessi contrapposti, quelli della classe dominante e quelli dei subalterni che, ahimè, oggi fatichiamo a chiamare classe, perché non è in grado di esprimere, né a livello locale o nazionale, figuriamoci a livello internazionale, i suoi interessi in maniera coerente, a differenza della controparte.

Che fare, dunque? Quali suggerimenti posso dare a chi si trova a dover insegnare a bambini e ragazzi del ventunesimo secolo? La mia risposta si articola su tre livelli: quello del sapere, quello del lavoro e quello dell’educazione.

Per quanto riguarda il sapere, credo che qualsiasi insegnante, che è sempre un agente del sapere, dovrebbe essere consapevole della decadenza delle conoscenze e delle sue ragioni, e fare quello che può per opporvisi: il sabotaggio dei test Invalsi va principalmente in questa direzione. Oltre a questo, dovrebbe stare meno dietro agli “aggiornamenti” e alle mode passeggere che attraversano la sua disciplina di riferimento e dare il più possibile spazio ai propri intereressi che lo hanno portato a coltivare quella data materia e anche ai fondamenti di essa (che si tratti di Omero o di Euclide).

Per quanto riguarda il lavoro, anche qui è necessaria una presa di coscienza che la lotta di classe è tutt’altro che morta e che continua, almeno dall’alto, e che è ora di reagire. Finché le classi dirigenti non saranno costrette quanto meno ad arretrare, non possiamo che aspettarci un continuo, seppur lento, peggioramento della situazione. Bisogna rendersi conto che è in atto una guerra, e scegliere da che parte stare, se dalla parte dei pochi che stanno portando il mondo alla rovina o dell’intera umanità.

Per quanto riguarda l’educazione, infine, anche qui è in corso una guerra, in parte trasversale a quella precedente, dove gli insegnanti ed i genitori sono in prima linea. Si tratta di una guerra per la nostra stessa umanità, per ciò che ci rende uomini, una guerra contro la meccanicizzazione, l’automazione dell’uomo e contro il modello dell’individualista possessivo. Ed è una guerra innanzi tutto contro sé stessi, o una parte di sé, poiché sono modelli che almeno in parte, in quanto adulti, abbiamo introiettato.

Per contrastare l’individualismo possessivo, gli spunti forniti dal prof. Vallauri sono quanto di meglio ho da offrire. Parlando invece della meccanicizzazione, oltre al sabotaggio dei test Invalsi, è difficile andare oltre ad un generico appello alla sensibilità umana, al cercare quando è possibile un contatto con ambienti non artificiali, all’usare le tecnologie solo quando ce n’è veramente bisogno. C’è una tendenza nefasta del mondo di oggi che io chiamo automazione molesta, il voler far fare alle macchine tutto quanto è possibile, che non può che rendere l’umanità una massa di amebe.

Agli insegnanti posso solo suggerire, almeno a quelli che insegnano nelle scuole superiori, di assecondare gli impulsi degli studenti all’autogestione, sia che si concretizzi nelle forme riconosciute istituzionalmente del forum, sia che si tratti di una rottura con le istituzioni durante un’occupazione. E posso invitarli a riconoscere anche il ruolo di chi, come CortocircuitO, si muove aldifuori della dimensione istituzionale. Questa non vuole essere una difesa a priori di tutto quello che si trova in quella che i giornali chiamano “la galassia dei centri sociali”, o, più bevemente, “gli antagonisti”. Dico solo che posti del genere sono frequentati dai giovani, e anche se ciò avviene spesso più per le feste che per le iniziative culturali, si tratta di situazioni e luoghi dove solitamente esiste una offerta culturale, che deve essere presa in considerazione da chi insegna nelle scuole, perché nella maggior parte dei casi è di certo meglio di ciò che passa la televisione.

Un’ultima parola, per genitori ed insegnanti, sulle occupazioni nelle scuole. Questa, si, sarà una difesa di principio. Molti sottovalutano l’enorme valore formativo che hanno esperienze del genere per un giovane: anche quando si riduce al dormire a scuola, bevendo alcolici e familiarizzando con le sostanze illegali, e cercando le prime esperienze sessuali, si tratta comunque di uno dei pochi spiragli di autentica socialità, estranea agli stereotipi di questa società ma anche di chi cerca di contrastarla, che gli capiteranno nella vita. Per chi volesse approfondire, rimando a questo articolo del nostro sito.

Chiudo con una nota amara, per chi si è spaventato quando ho parlato di sostanze illegali. Se fossimo ancora negli anni novanta del secolo scorso, quando io facevo le superiori, avrei semplicemente detto “farsi le canne”. Invece ho la dolorosa consapevolezza che vi è un sempre maggiore abuso anche delle cosidette droghe pesanti anche fra i giovanissimi. Credo tuttavia che la consapevolezza sia sempre meglio dell’ignoranza, e questo vale per i genitori, per gli insegnanti e per i ragazzi. In questo campo, io propendo per l’approccio della riduzione del danno, con quache cautela. Esso si distingue dall’approccio moralista (“drogarsi è sbagliato”) e da quello terapeutico (“il drogato è un deviante, va curato”). Si potrebbe riassumere così: se proprio vuoi assumere una sostanza illegale, almeno sappi esattamente cosa stai facendo e come farlo per evitare il più possibile danni a te stesso e agli altri. Da anni esiste a Firenze il Centro java, che si inserisce in questo differente modo di vedere il fenomeno delle sostanze. Per CortocircuitO abbiamo intervistato alcuni dei suoi operatori (trovate qui l’intervista completa).

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