Se credevate che l’Italia fosse un cattivo affare per le compagnie petrolifere, dovrete presto ricredervi. Dalla fine dell’800 a oggi, sono stati perforati 7.010 pozzi e più di 1.000, tra mare e terraferma, sono attualmente funzionanti. Al 31 dicembre 2011 la produzione di greggio si è attestata su 5.283.866 tonnellate di greggio, quasi 40 milioni di barili, l’84% della produzione nazionale di greggio proviene dalla terraferma, il 16% dal mare. Questi numeri spiegano come l’Italia sia posizionata, tra i Paesi europei produttori, al quarto posto per produzione petrolifera (nonché la prima per il costo della benzina). Il libro “Trivelle d’Italia” spiega il motivo di tale interesse: “percentuali di compensazione ambientale” tra le più basse al mondo; spese d’ingresso irrisorie; commercializzazione rapida e legislazioni permissive.
Con una solida analisi sostenuta dai dati e dai fatti, Dommarco ci svela una realtà sconosciuta ai più, e cioè come viene sfruttato il territorio, e per quali ragioni e con quali scopi si perfora la terra e il mare. Scopriamo che le regioni maggiormente interessate dalle trivellazioni sono la Sicilia e, sopratutto, la Basilicata che con la firma del decreto ministeriale 12 settembre 2013, vedrà raddoppiare le estrazioni petrolifere su tutto il territorio lucano. Ma si registrano trivellazioni in cerca di petrolio, anche minimo, e gas un po’ in tutta Italia. Questo perché nel nostro Paese, le società cedono solo il 4% dei ricavati per le estrazioni in mare e il 10% per quelle sulla terraferma, suddivise tra Stato, Regioni e Comuni (che non ricevono nulla nel caso delle estrazioni in mare). Non solo, tali “royalties” vengono erogate solo se la produzione di barili supera una certa franchigia. Insomma, profitto assicurato per le compagnie petrolifere mentre ai territori e alle popolazioni che lo vivono viene lasciato il resto: devastazioni ambientali e malattie per i lavoratori. Il libro infatti, racconta anche la storia delle aree interessate dalle trivellazioni e la vita delle persone vicino agli impianti di raffinazione, tra la paura di incidenti, inquinamento ambientale e un preoccupante aumento di patologie tumorali. Nella zona di Priolo, in Sicilia, il 35% dei decessi avviene per tumore, principalmente quello ai polmoni, ma cifre simile si riscontrato in tutte le popolazioni vicine agli impianti.
Ma quali sono le argomentazioni che i politici e le lobby del petrolio usano per giustificare queste operazioni ad alto impatto ambientale? Diremmo le solite promesse da marinaio di un grande futuro occupazionale e di importanti risvolti economici per l’economia del Paese e per i territori che ospitano tali impianti, a cui si aggiungono le stanche retoriche su “la riduzione delle importazioni di gas e petrolio” e la “riduzione dei prezzi per benzina e gas”.
“Trivelle d’Italia” sfata questi falsi miti, descrivendo il lavoro precario e pericoloso degli operai, delle compensazioni ambientali che non sono altro che briciole rispetto alla devastazioni causate dalle trivellazioni: tra fanghi inquinati, agenti chimici e potenziali fenomeni sismici. Anche la leggenda della riduzione delle importazioni di combustibili fossili ha vita breve. Tutto il lavoro di perforazioni ed estrazione è infatti servito per soddisfare il fabbisogno di petrolio del paese per soli 3-4 mesi!
Ed il gas? L’ambizione della classe dirigente italiana è quella di trasformare la penisola nel mercante di gas dell’Europa del sud, costruendo tutta una serie di infrastrutture per comprare gas a poco prezzo, immagazzinarlo e rivenderlo a prezzo maggiorato ai clienti europei. Entro la fine del 2012 dovremmo produrre internamente 9 miliardi di metri cubi di gas (su un fabbisogno stimato in 85 miliardi di metri cubi). Nel 2011, invece, sono stati estratti poco più di 8 miliardi da 129 concessioni di coltivazione, 82 in terraferma e 47 in mare. Numeri destinati a crescere, perché per rendere l’Italia il “magazzino” di gas per tutta l’Europa servono, appunto, nuove infrastrutture, oltre che un ulteriore sostentamento all’elettricità nazionale. Oggi, infatti, il gas copre oltre il 40% della produzione di energia delle centrali termoelettriche, caso unico nel vecchio continente. Nella testa di chi vuole riprogettare la strategia energetica nazionale, si devono costruire nuovi rigassificatori, nuove estrazioni, nuovi campi di stoccaggio e disponibilità ad ospitare gasdotti intercontinentali. Migliaia di chilometri di tubi ed impianti che sconvolgerebbero entroterra, coste e mare. Scendendo nel dettaglio, i rigassificatori dovrebbero passare dagli attuali due a 9, altre 21 concessioni per lo stoccaggio sotterraneo e la costruzioni di nuovi gasdotti. Tra questi c’è il gasdotto “Rete Adratica”: 687 chilometri di tubo, da Brindisi a Minerbio, che dovrebbe attraversare 10 regioni, 3 parchi nazionali, un parco regionale e 21 aree protette dalla Ue. Inoltre, molte compagnie energetiche stanno strizzando l’occhio allo “shale gas”, una nuova frontiera per il mondo energetico, messo sotto accusa negli USA per la tecnica con cui si estrarre tale materia prima, il fracking. Questa tecnica detta “fratturazione idraulica” pone i territori a forte rischio sismico e ambientale, a causa della contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell’aria. In alcuni paesi l’uso di questa tecnica è stata sospesa o addirittura vietata. Se questi progetti dovessero realizzarsi in toto (solo due rigassificatori, tra cui quello di Livorno, peraltro non in funzione, si sono aggiunti a quelli attuali), sarebbe un’ecatombe ambientale. Tutto per il profitto di pochi a svantaggio di molti, una formula comune del capitalismo nostrano e internazionale messa perfettamente a nudo da Dommarco, fornendo agli attivisti e ai comitati territoriali ulteriori argomentazioni scientifiche per contrastare la devastazione e il saccheggio del proprio territorio. Un ottimo antidoto contro le velenose menzogne e le ipnotizzanti retoriche dei signori del petrolio.
Sull’argomento è recentemente intervenuto, sulle pagine de “Il Messaggero”, l’ex-premier Romano Prodi, affermando che:
“L’Italia non è povera di petrolio e di metano, ma assurdamente, preferisce importarli piuttosto che aumentare la produzione interna. Nell’ultimo decennio abbiamo pagato all’estero 500 miliardi di euro per procurarci la necessaria energia. Un lusso che non possiamo più permetterci”
Qui potrete trovare un sintetico ed efficace articolo in risposta all’articolo di Prodi
da http://www.inventati.org/cortocircuito
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