Intervista a Alessandro De Giorgi, professore associato del Dipartimento di Justice Studies della San José State University e membro del comitato editoriale di Social Justice , sui riot di Ferguson.
Dopo due settimane, i fatti relativi all’esecuzione di Michael Brown sono ormai stati riportati numerose volte sia dai media mainstream sia da quelli indipendenti, nonostante l’iniziale muro di omertà eretto dalla polizia locale di Ferguson e il ritardo con cui è giunto il video dell’uccisione, dovuto alla paura dell’autrice.
Iniziamo proprio da questo, dalla necessità di molti articoli a voler riassumere i fatti, mappare le informazioni e le sue fonti: ciò non avviene semplicemente per dovere di cronaca o per l’entusiasmo dell’analisi politica, ma è soprattutto l’esito di una sinfonia di cinguettii e click, video e immagini che si moltiplica incessantemente da quando “big Mike” è stato freddato in un sobborgo statunitense. La rappresentazione del maschio nero, pericoloso e criminale – storicamente costruita e intensamente diffusa nella società statunitense – è da giorni inflazionata attraverso immagini e discorsi che da molti luoghi degli USA si susseguono sui social network, nelle strade, sui media e sulle bocche dei commentatori: poliziotti bianchi che uccidono giovani neri, madri che piangono i figli caduti nella guerra metropolitana, poteri forti che distribuiscono il loro diritto alla morte altrui, un sistema legale minuziosamente costruito sulla discriminazione razziale. Al violento silenzio delle istituzioni è stata opposta un’incessante presa di parola, alla stigmatizzazione del corpo afro-americano è stata opposta la visibilità del comportamento quotidiano della polizia. Non a caso la flebile voce del presidente nero è stata udita solo per dire “non gridate”: troppe notizie che sfuggivano da tutte le parti, troppa luce nelle strade di Ferguson, troppi giorni a mani alzate gridando “non sparate”. Non a caso i media mainstream discutono del possibile uso delle telecamere sui caschi dei poliziotti, che sia per vedere meglio gli autori dei looting o supervisionare l’operato della polizia sarebbe da verificare, ma la prima ipotesi è certamente la più realistica.
Di fronte alla consolidata immagine del criminale nero è divenuta ben visibile quella trasformazione interna degli Stati Uniti che, a seguito di un processo iniziato circa 35 anni fa, ha visto il suo apice nell’ultimo decennio. La guerra a bassa intensità sperimentata lungo il confine con il Messico sin dal 1978, tra militarizzazione e retorica proibizionista, è stata riportata con forza all’interno del territorio statunitense e poi implementata attraverso l’uso di nuove tattiche e armi da guerra nel post 9/11. I droni uccidono i bambini del Pakistan, così come identificano i migranti che oltrepassano il confine e inseguono i neri nelle strade degli States.
Al contempo, neri e latinos riempiono le galere facendone uno dei più grandi business del paese. I registri dicono microcriminalità e spaccio di sostanze stupefacenti, in altre parole, proibizionismo e monopolio delle droghe unito a un sistema carcerario che è sempre più un regime di controllo sociale diffuso. La militarizzazione interna degli States è stata così affiancata alla proliferazione del sistema carcerario oltre le sue mura e fino al confine del paese, dove migliaia di latinos sono rinchiusi in attesa di essere deportati. Black e brown, criminale e illegale, poveri e amputati dei loro desideri.
In questo paesaggio di violenza, occorre allora guardare alle luci che hanno qui una “qualità particolarissima”, come scriveva Faulkner, una “fulgida e nitida” luce d’agosto in cui s’intrecciano razza e classe sociale, “come se venisse non dall’oggi, ma dall’età classica”. Un’età della segregazione che è il metodo della gerarchia, un’età con cui gli Stati Uniti non smettono mai di fare i conti.
Michael Brown è l’ennesimo caso di omicidio che si ripete con lo stesso copione?
Se si osserva la storia recente della interazione tra le comunità marginali negli Stati Uniti e, in particolare, degli afro-americani con la polizia, Ferguson non dice nulla di nuovo o di insolito nell’evento in sé. Ciò che è relativamente nuovo è la reazione a questo ennesimo episodio di “assassinio legittimo”, come viene chiamato in gergo dalla polizia, di un civile da parte di un poliziotto.
In realtà, episodi di questo tipo hanno scandito i momenti legati alla questione di classe e di razza più significativi delle rivolte in questo Paese: pensiamo al Black Panther Party, nato nel 1966 come gruppo di autodifesa armata contro la violenza della polizia, e ancora la rivolta di Los Angeles del 1992, piuttosto che Oakland nel 2009 dopo l’omicidio di Oscar Grant. Negli Stati Uniti, la polizia compie mediamente quattrocento omicidi l’anno: significa più di uno al giorno e, di questi morti, una proporzione significativa sono afro-americani. Secondo un recente rapporto dell’FBI, dal 2008 al 2012 sono deceduti una media di due afro-americani al giorno in seguito a “incontri” con poliziotti bianchi. Quanto successo a Ferguson quindi, non è né un caso estremo o fuori luogo per gli US.
Come leggere la questione razziale che emerge da Ferguson con la segregazione sociale che la popolazione afro-americana vive negli US, in particolare dopo la crisi del 2007?
Considerare i fatti di Ferguson come riot razziali in senso stretto è profondamente fuorviante, perché negli US la questione razziale e quella di classe sono inscindibilmente legate tra loro. Quanto è avvenuto in questi giorni ha piuttosto svelato l’ipocrisia e l’illusione del cosiddetto black progress, esemplificata in maniera forte dalla elezione di Barack Obama, quando da più parti si è acclamato a una società post-razziale.
Questo è ancora più evidente se si osserva la situazione degli afro-americani a partire dalla fine della rivoluzione dei diritti civili che coincide con la messa in piedi di un’enorme macchina penale e di controllo per replicare il sistema di stratificazione razziale del Paese una volta venuta meno la possibilità costituzionale di farlo in maniera chiara, con categorie esplicitamente razziali di tipo segregazionista.
Ma oltre al sistema penale, è in realtà la macchina americana nel suo complesso con le scuole, i quartieri, i luoghi di consumo e le aree residenziali che continua a fagocitare generazioni su generazioni di giovani afro-americani e, nel farlo, riproduce condizioni di disuguaglianza strutturale che si aggravano nei periodi di crisi.
Un cittadino afro-americano su tre, di età compresa trai 18 e i 40 anni, è in galera, per non parlare di quelli in libertà vigilata o sottoposti ad altre forme di controllo. Questo tipo di “stoccaggio di massa” di giovani afro-americani e latinos, soprattutto di sesso maschile, nasconde di fatto la situazione di povertà e di marginalizzazione di una parte dei cittadini americani.
Secondo alcuni studi, se gli afroamericani e i latinos in carcere fossero conteggiati nelle statistiche socio-economiche del Paese, la disoccupazione aumenterebbe di due punti percentuali e di circa sette punti solo tra gli afroamericani; anche i salari medi, che vengono misurati sulla popolazione in libertà, di fatto sono innalzati artificialmente nascondendo oltre due milioni di cittadini che non vengono presi in considerazioni in questo calcolo.
La stessa partecipazione al voto degli afroamericani, plaudita durate le elezioni di Obama nel 2008 e 2012, nasconde il dato inquietante di circa 4 milioni di afro-americani esclusi dal voto perché hanno riportato condanne penali. Questo è dovuto al fatto che in US ci sono diversi Stati che impediscono il diritto di voto anche a chi ha pienamente scontato la propria pena. Tutto questo rivela l’illusione, su cui è stato coltivato gran parte del dibattito americano negli ultimi sei o sette anni, di una progressiva uguaglianza e superamento della questione razziale.
La crisi del 2008 ha sicuramente peggiorato la situazione: il conservatorismo fiscale e i tagli hanno ulteriormente tagliato i pochi servizi a questa popolazione, ancor più penalizzata. In media, negli US ci sono circa 1600 scarcerazioni al giorno: dopo aver trascorso diversi anni in galera con privazioni di ogni genere, questa popolazione viene riversata nei quartieri dove era stata prelevata qualche anno prima e le alternative possibili sono o di entrare nelle fila dei “poveri laboriosi”, ovvero di chi lavora a basso salario, oppure di reintrodursi nell’economia illegale con l’elevata probabilità di ritornare in galera piuttosto rapidamente.
Come leggere la protesta dei giovani afro-americani a Ferguson di questi giorni?
I saccheggi che ci sono stati a Ferguson, già visti in maniera più significativa a Los Angeles nel 1992, sono un comportamento che può sembrare autodistruttivo, ovvero la distruzione del ghetto stesso dove questa popolazione è costretta a vivere, e non possono essere compresi se non attraverso i pregiudizi con cui questa popolazione viene stigmatizzata in maniera costante.
La tendenza di alcuni giovani afro-americani di reagire in maniera rabbiosa esprime la loro interpretazione dello stigma che gli è stato impresso, estremizzandolo e avverando, in un certo qual modo, le profezie espresse nei loro confronti dalla società, cercando di ribaltarle e di rispedire al mittente la stigmatizzazione in modo ancora più estremo. I saccheggi di Ferguson sono perfettamente comprensibili e paragonabili a quelli dei giovani della banlieue parigina del 2005, o di alcuni quartieri profondamente segregati di Londra: si tratta della reazione a una società che è strutturalmente organizzata per opprimere e discriminare. Al di la della nostra capacità, piuttosto limitata, di dare una lettura immediatamente politica a questi comportamenti, – limite che condividono anche i protagonisti dal momento che non esistono forme organizzate di looting – queste azioni hanno degli effetti politici nella sua immediatezza.
Quanto stiamo osservando Ferguson accadrà in maniera più insistente nel prossimo futuro, per almeno tre motivi. Anzitutto grazie all’enorme ingranaggio penale che fagocita i giovani afroamericani, ma anche attraverso la trasformazione di altre istituzioni come le scuole pubbliche, oggi una sorta di centri di smistamento pre-carcercario. Michael Brown ha frequentato una scuola superiore di Saint Luis per il 98% afro-americana, con un tasso di abbandono di oltre il 25% dove quasi il 40% degli studenti è stato sottoposto a misure e provvedimenti disciplinari. Siamo di fronte a un continuum di repressione, stigmatizzazione e contenimento a danno di queste fasce di popolazione.
L’essere sospetto per come si veste o si parla da parte della polizia è solo l’apice di una serie di pratiche marginalizzanti e degradanti che un giovane afro-americano sperimenta quotidianamente, all’interno e all’esterno del ghetto. Questo diffuso atteggiamento di sospetto e allarme preventivo, lo si può respirare in qualunque liquor store: questi negozi, che adesso vengono saccheggiati, sono muniti di vetro antiproiettile e telecamere. Tutto ricorda, nella loro struttura, quell’ambiente carcerario che un terzo di questi giovani sperimenterà nella propria vita.
Il secondo motivo per cui è possibile prevedere un’intensificazione di questi episodi, è il vigoroso processo di ri-segregazione del territorio statunitense che sta avendo luogo negli ultimi anni. Originariamente, la segregazione razziale urbana vedeva le minoranze afro-americane e latine concentrate nei centri urbani, nella cosiddetta inner city progressivamente abbandonati, negli anni Sessanta e Settanta, dai bianchi di classe media verso i sobborghi e le città giardino lontano dai centri sempre più degradati. Da qualche anno a questa parte, invece, è possibile osservare un processo contrario: una nuova generazione di bianchi, giovani e creativi, stanno rientrando nella città verso il centro, aiutati dal mercato immobiliare e sostenuti da progetti di riqualificazione urbana che in realtà non sono altro che ristrutturazioni di edifici per aumentarne il valore sul mercato (la cosiddetta gentrification). Tutto questo sta spingendo una quota sempre maggiore di afro-americani fuori dal centro urbano: interi quartieri si stanno “sbiancando” di settimana in settimana e sempre più famiglie sono costrette ad abbandonare dove hanno vissuto per decenni. I sobborghi segregati come Ferguson, al contrario dei centri urbani segregati che sono l’immagine storica dell’isolamento, diventeranno sempre più frequenti.
Infine, il terzo fattore è legato all’imponente migrazione di ritorno di afro-americani dalle città e dai centri industriali del Nord-est e Nord-ovest, dove si erano riversati nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, verso il sud che avevano lasciato e che è rimasto profondamente segregazionista, con toni decisamente più acuti rispetto agli Stati delle coste o del nord.
Resta da vedere cosa diventerà il caso Ferguson, con il sostegno interessato dei media e dell’amministrazione Obama, che sta diventando sempre più una mobilitazione su una singola questione con toni piuttosto moraleggianti e individualistico che caratterizza il dibattito pubblico negli US. Ferguson è descritta come un semplice riot razziale, cancellandone di fatto aspetti generali di altro tipo. Un fatto razziale su cui si è innestata la distinzione tra pacifici e violenti.
Obama, in quanto presidente afro-americano, sembra non avere quella libertà di parlare su ciò che sta avvedendo rispetto a quanta, paradossalmente, ne potrebbe avrebbe un presidente bianco. La sensazione è che Obama sia sicuramente un presidente molto prudente, ambivalente, per certi versi ipocrita nelle sue scelte politiche e molto timido su alcune questioni. L’inchiesta federale avviata dal Dipartimento di Giustizia riscontrerà l’effettivo livello di segregazione del dipartimento di polizia di Ferguson come inaccettabile, imporrà delle misure di integrazione razziale e magari altre linee guida per i dipartimenti della zona, o poco più. Ma questa carneficina continuerà.
Alessandro De Giorgi è professore associato del Dipartimento di Justice Studies della San José State University (Oakland, California) e membro del comitato editoriale di Social Justice
Fonte: http://www.dinamopress.it/
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