Qui di seguito una anticipazione del numero di Limes 8/14 “Cina, Russia e Germania unite da Obama”. Il saggio che pubblichiamo è di un “tecnico” ossia il generale Fabio Mini da tempo convertitosi a commentatore politico e strategico. E’ evidente come ormai siamo nell’epoca in cui le grandi e cresceni contraddizioni globali vengono analizzato meglio dai “tecnici” (e i militari sono tra questi) che dai politici, i quali hanno da tempo rinunciato ad una visione complessiva e strategica per ridursi alle battute del giorno per giorno e ad una visione corta, congiunturale, sostanzialmente suicida. La crisi e il conflitto in Ucraina vedono circolare posizioni ipocrite, nella migliore delle ipotesi, e pericolose nella peggiore. In questo saggio il generale Fabio Mini infila uno dietro l’altro alcuni dati che letti nel loro insieme indicano il preoccupante scenario nel quale Stati Uniti, Unione Europea e Russia stanno infilando il mondo dentro una nuova possibile e drammatica “rottura storica”. E, come sottolinea Mini, non sono solo i neoconservatori a perseguire questo scenario ma anche i “democrat”.
di FABIO MINI
Alle 4 di mattina del 21 maggio, Cina e Russia hanno concluso a Shanghai un contratto sul gas, dopo un decennio di negoziati. Le trattative ferme sulle divergenze di prezzo sono state sbloccate da un fatto prettamente geopolitico: la crisi ucraina ha esposto in tutta la sua crudezza la mancanza di considerazione nei confronti della Russia da parte degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e della Nato.
Lo scontro indiretto fra Russia e occidentali in Ucraina è in pieno svolgimento quando il 19 maggio il presidente russo Vladimir Putin ordina il ritiro delle truppe russe ai confini con l’Ucraina e parte per Shanghai. Le elezioni presidenziali a Kiev, bene accolte da Putin, sono previste per la settimana successiva. Ma Putin si considera ricattato dall’Ucraina, isolato dal mondo occidentale, minacciato dagli americani e preso in giro dall’Europa che da un lato vuole il gas e dall’altro sostiene le pretese ucraine.
L’accordo sul gas con la Cina è molto più di un accordo commerciale, ma già su quel piano è qualcosa di insolitamente grande. Riguarda forniture annuali di 38 miliardi di metri cubi di metano per trent’anni a partire dal 2018. Nel breve termine non avrà alcun impatto sulle forniture russe, ma la Russia fin da ora incrementerà la propria capacità industriale di estrazione e trasporto del gas con la realizzazione di gasdotti per 4 mila km e strutture di stoccaggio e liquefazione che la Cina finanzierà parzialmente con un prestito di 50 miliardi di dollari. Il metano sarà estratto nell’area di Sakhalin sfruttando e potenziando i campi esistenti e liquefatto nei terminali di Jamal’ e Vladivostok. La Russia ha riserve accertate per oltre 3 mila miliardi di metri cubi, sufficienti a soddisfare il mercato interno e l’esportazione per cinquant’anni. Sono state anche avviate le trattative per la costruzione del gasdotto dell’Altaj, 2.600 km, che collegherà i giacimenti della Siberia occidentale alla Cina occidentale, con una portata di 30 miliardi di metri cubi l’anno. Complessivamente l’accordo tra Gazprom e China National Petroleum Corporation (Cnpc) vale 400 miliardi di dollari. A medio-lungo termine le esportazioni alla Cina non intaccheranno quelle europee, che nel 2013 sono state di 161,5 miliardi di metri cubi. L’Europa continuerà ad essere il mercato più favorevole per il gas russo. Tuttavia, già da quest’anno Pechino prevede di aumentare del 20% le importazioni di gas, arrivando a 186 miliardi di metri cubi per ridurre il consumo di carbone. Oltre all’accordo sul gas, sono stati siglati 49 accordi bilaterali riguardanti importanti settori industriali e militari.
Da quando sono cominciate le trattative per la concessione di gas (oltre dieci anni fa) la Cina ha pensato bene di non affidarsi totalmente al gas russo. In effetti ha giocato d’anticipo sulla diversificazione per ottenere migliori condizioni economiche proprio con i russi. Ha concluso accordi con il Turkmenistan e costruito un proprio sistema di gasdotti da quel paese al proprio territorio attraverso Uzbekistan e Kazakistan. Ha poi aggiunto un quarto braccio che passa per Tagikistan e Kirghizistan. Anche la Cina ha cominciato a esplorare le proprie riserve di shale gas, il gas da scisti ottenuto per fratturazione idraulica (fracking) degli strati di argilla e rocce nelle cui falde sono imprigionati vari idrocarburi. Nella fretta di chiudere con Pechino, Putin ha dovuto cedere sul prezzo, che pare si aggiri sui 350 dollari per mille metri cubi. È un prezzo al limite inferiore di quello di mercato. Non è «politico», come era il prezzo applicato all’Ucraina di Janukovych (265 dollari), quando faceva la «brava» e rifiutava i compromessi con l’Ue; ma è ben al di sotto del prezzo di mercato europeo di 485 dollari applicato anche all’Ucraina «cattiva» a partire da aprile. La valenza industriale del contratto sta nell’apertura del canale dell’esportazione di gas russo nell’area di maggiori consumi e migliori prospettive di sviluppo. È la scelta del partner commerciale più importante, con il quale la Russia ha un interscambio di 90 miliardi di dollari, che prevede di portare a 200 nei prossimi dieci anni. Vladivostok avvicina il gas russo ai maggiori consumatori asiatici, come il Giappone e la Corea del Sud, finora legati al mercato controllato dagli Stati Uniti.
La valenza geopolitico-strategica dell’accordo sta nella volontà dei partner di contrastare la supremazia americana per evitare lo strangolamento economico e l’accerchiamento strategico-militare che entrambi i paesi percepiscono. Lo stesso 20 maggio, il presidente cinese ha espresso chiaramente la volontà di creare un asse asiatico di collaborazione per la sicurezza collettiva che dovrebbe comprendere Russia, Cina e Iran. Xi Jinping, dopo aver definito la Nato una «struttura obsoleta», residuo bellico della guerra fredda, nata per tutelare determinati paesi lasciando nell’incertezza gli altri, ha pesantemente criticato gli Stati Uniti per gli interventi militari in Medio Oriente. Il leader cinese non ha usato mezzi termini. Secondo lui, chiunque decida di non piegarsi alle pressioni di Washington viene attaccato con pretesti discutibili quali «problemi di sicurezza nazionale », o «protezione dei civili». Musica per le orecchie di Putin che era lì proprio per resistere alle minacce e alle pressioni degli americani e dei loro «lacchè» europei applicando gli stessi metodi usati nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa: soft power, destabilizzazione e interventi armati. Nell’ordine.
L’accordo ha fatto sobbalzare il mondo politico-industriale. Ma per poco. Le analisi degli esperti si sono rivolte all’aspetto più ovvio della questione, il gas, e hanno concluso che tutto sommato non cambia niente per l’Europa, è ininfluente per la Cina e quasi inutile per la Russia. Si è speculato sui motivi commerciali dell’accordo e si è concluso che la Russia è corsa in Cina per paura della concorrenza dell’Australia e del Nordamerica. La prima dovrebbe diventare il più grande esportatore di gas naturale liquefatto (gnl) entro il 2020, sorpassando l’attuale numero uno, il Qatar. Nello stesso periodo anche il Nordamerica – Canada e Stati Uniti – dovrebbe esportare gnl in quantità tali da generare un’offerta maggiore della domanda in Asia. Un altro motivo potrebbe essere la prospettiva russa di fare a meno del mercato europeo nei prossimi cinque anni. Un’eventualità che altri commentatori ritengono talmente improbabile da considerare tutto l’accordo un bluff di Putin in risposta alle sanzioni contro la Russia decise dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. […]
Ovviamente si è anche detto che l’accordo è destinato a fallire per l’incompatibilità storica fra Russia e Cina. O che è l’espansione aggressiva dell’aquila russa in Cina. Ancora, lo si è illustrato come il consolidamento della partnership strategica che segnerà la geopolitica dei prossimi decenni. Infine, si è affermato che la Cina sarebbe il cliente di comodo che rende più forte la Russia con la sua leva nei confronti dell’anello debole della catena occidentale: l’Europa. Sono tutte considerazioni che hanno un certo senso logico, ma riguardano la tattica di gioco industriale piuttosto che la strategia geopolitica. Fra l’altro, tutti i protagonisti tendono a essere rassicuranti: la Russia si è affrettata a dichiarare che il gas sarà ancora disponibile per l’Europa per molto tempo, che i prezzi non aumenteranno e che le forniture alla Cina non sottraggono un metro cubo di gas alle disponibilità europee. La Cina ha ammesso che il contratto non risolve i suoi problemi energetici e comunque non altera i rapporti commerciali con tutti i partner sia europei sia asiatici. Gli stessi americani si sono lasciati sfuggire che la mossa russo-cinese non costituisce una minaccia per l’approvvigionamento energetico statunitense che da qualche anno è indipendente dalle importazioni. Anzi negli ultimi cinque anni gli Usa sono quasi completamente autonomi per i fabbisogni interni, grazie allo shale gas. La legge americana prevede che tali risorse siano riservate ai fabbisogni interni in modo da diminuire e perfino azzerare il volume delle importazioni, che è un peso finanziario, ma soprattutto geopolitico, con paesi arabi e produttori vari di petrolio e gas, che oltre ai dollari in contanti pretendono assistenza, quando va bene, e connivenza, quando va male, vale a dire quasi sempre. Se la produzione interna dovesse salire a coprire il fabbisogno nazionale, gli americani avrebbero accesso a quote sostanziose di mercato del gas. In questo caso dovrebbero sottrarre mercati e clienti alla Russia, al Qatar e alle repubbliche centroasiatiche. Facendo poi cartello con i fidi australiani e con i canadesi, un po’ meno fidi ma egualmente ricattabili, potrebbero essere i veri monopolisti di tale risorsa.
Occorre però che America e Australia facciano presto, se ne hanno veramente la capacità. Un effetto niente affatto collaterale dell’accordo è che India, Giappone e Corea del Nord sono già in fila per accordi commerciali con la Russia. La Cina, che si è guadagnata la priorità, sarà determinante nei futuri accordi in Asia.
L’uso strategico del gas non è una novità. […]. In termini numerici la quota russa di forniture di circa il 25% è molto lontana da quella che la renderebbe monopolista, ma la leva geopolitico-economica russa è ugualmente fortissima per due ragioni: l’impatto del 25% sull’economia europea e la carenza di rifornimenti d’emergenza. Non per colpa dei russi, il valore del 25% sull’economia europea è molto rilevante. Il bilancio produttivo e lo stile di vita europei sono direttamente proporzionali alla disponibilità energetica, con un limitato margine di flessibilità. Il taglio del 25% di gas comporterebbe un abbassamento significativo di pil e fiducia. Si possono prevedere una forte recessione e una conseguente instabilità politica e sociale in tutta l’Unione. Inoltre, l’Europa ha scorte di gas per sei mesi, ma non ha alternative che possano compensare eventuali carenze croniche. Anche il ricorso a forniture d’emergenza da altre fonti o dagli stessi americani sarebbe problematico. La legge del mercato reagirebbe alla maggiore domanda con un rialzo drammatico dei prezzi e un salasso insostenibile di valuta. Anche in questo caso ci sarebbero recessione e crisi. L’Occidente già in bilico per la corrente crisi sarebbe travolto e i paesi da tempo sull’orlo del baratro (come l’Italia) vi cadrebbero senza speranza.
Né la Russia può permettersi di sospendere completamente le forniture verso l’Europa. La metà delle entrate statali viene dal commercio d’idrocarburi. La Russia non può rinunciare ai gasdotti ucraini attraverso i quali passano ben 100 miliardi di metri cubi all’anno. L’eventualità che Mosca, d’iniziativa o per rappresaglia, chiuda i rubinetti del gas all’Europa è remota. Sarebbe una sorta di autocastrazione. Ma una volta accertato che non è interesse né europeo né russo bloccare le forniture o usare il gas come leva politica, rimane da vedere perché la Russia proprio in piena crisi ucraina abbia deciso di chiudere, a condizioni meno favorevoli, l’accordo con la Cina, e perché la Cina abbia accettato.
Una delle possibili risposte è che la Russia teme di essere costretta, con la forza o per disperazione, a interrompere le forniture all’Europa. E una costrizione di questo genere sarebbe già un atto di guerra. O almeno, gli Stati Uniti e l’Europa fanno di tutto per convincere i russi di essere sul piede di guerra. Quella vera, per provocare i russi e far precipitare la situazione. A questo punto la domanda da porsi non è cosa fare se la Russia decidesse lo stop alle forniture di gas per l’Ucraina. Semmai: come evitare che la Russia si senta così minacciata e provocata da vedersi costretta a chiudere i rubinetti per l’Europa e contestualmente imbracciare i fucili? Cosa fare per evitare un’azione di forza politica o militare concertata con la Cina contro gli Stati Uniti e contro l’Europa?
Russia e Cina sono vecchi imperi risorti dalle proprie ceneri. E degli imperi hanno ereditato la sensibilità politica e la consapevolezza delle proprie vulnerabilità. Putin sa benissimo che la peggiore condizione del grande impero è sempre stata l’isolamento. Un impero esteso su due continenti, largamente burocratizzato e quindi rigidamente suddiviso è vulnerabile solo alla periferia. E questa è generalmente attaccata da nemici anche di piccole dimensioni disposti a divorarne i brandelli. Oggi la periferia russa maggiormente in pericolo è quella europea. E l’impero americano preme ai suoi margini per ridurla in brandelli. La partita ucraina è la più difficile ma anche quella essenziale. Se perde questa, la Russia può dire addio non solo al proprio prestigio e alle sue ricchezze ma alla sua integrità territoriale.
Anche la Cina ha una vulnerabilità periferica. Grazie all’intesa con la Russia ha guadagnato sicurezza nella parte continentale dell’Asia. Rimane però esposta sulle coste delle province ricche e produttive, sulle rotte marittime di rifornimento e commercio e sulle isole come Taiwan, sugli scogli delle Spratly, delle Paracelso e delle Diaoyu (Senkaku). In questi settori è soggetta sia ai mastini taiwanesi, giapponesi e sudcoreani sia alla pressione militare di contenimento americana. Per entrambi, Russia e Cina, uno smacco anche piccolo in periferia mette a rischio il potere centrale. Il grado di flessibilità russo e cinese nelle rispettive aree periferiche è veramente limitato.
Quanto alla politica americana, non solo non è flessibile, ma gli Stati Uniti non avendo mai dovuto confrontarsi con una vera invasione sul proprio territorio, si sono specializzati nella guerra oltremare e non si sono mai curati di sviluppare una capacità di risoluzione delle crisi senza interventi militari. Pur rendendosi conto che tali interventi non sono affatto risolutivi e anzi aggravano i problemi esistenti e ne aggiungono altri, ogni presidente americano non ha mai visto altre vie per mantenere la dignità nazionale se non quella di assecondare la voglia di tutti gli americani di mostrare i muscoli e venire alle mani. Ogni presidente americano si è dovuto misurare con la guerra non tanto e non solo da combattere quanto da coltivare come ideologia nazionale. La guerra e le invasioni all’estero sono la «costante geopolitica degli Stati Uniti», come disse Dean Rusk, segretario di Stato sotto Kennedy. Ormai gli americani ci hanno abituato a verificare che ogni balzana idea di guerra viene puntualmente messa in pratica. Ciò che appariva rispetto per l’Ucraina prima dell’accordo Russia-Cina era la volontà degli Stati Uniti di mettere in crisi l’Europa nei suoi rapporti con Mosca, far fallire Gazprom e quindi tutta la Russia, rifornire a caro prezzo il minimo di risorse per non far tracollare l’Europa, assimilare il capitale russo di riserve e di strutture estrattive e di trasporto a prezzo stracciato. La crisi ucraina non é stata affatto un movimento spontaneo di piazza e una lotta per la libertà, e nemmeno un colpo di Stato nazifascista, ma una ben organizzata serie di destabilizzazioni alla ricerca di un assetto favorevole agli interessi statunitensi piuttosto che a quelli ucraini.
L’accerchiamento della Russia non è mai stato uno scopo esclusivamente neocon. Tale geopolitica ha fautori in diversi schieramenti e il sostegno di nazionalisti vecchio stampo, di liberal della guerra fredda, dei falchi di Hillary Clinton e della maggior parte del gruppo di consiglieri per la sicurezza di Obama.
Ma le provocazioni occidentali in Ucraina sono apparse immediatamente controproducenti, dando a Putin l’opportunità di attuare il putsch pro-russo in Crimea e scatenare i propri cani da guardia. Putin pensava da tempo a come reagire all’accerchiamento, ma fino a quando la leva del gas teneva non era una priorità. Le provocazioni e l’atteggiamento di chiusura europeo lo hanno indotto ad assumere il ruolo di vero nazionalista russo, che lo rende ancor meno conciliante. E gli hanno consentito di utilizzare liberamente lo strumento vecchio come il mondo di tutti i tiranni, il plebiscito lampo, perché, come disse Stalin, «non conta chi vota, ma chi conta i voti». Oggi, dopo l’accordo Russia-Cina, le mire statunitensi appaiono più sfumate. Il nuovo presidente Porošenko, re del cioccolato e della televisione grazie all’acquisizione a prezzi stracciati di strutture di Stato e ai finanziamenti stranieri, non sembra volere lo scontro. Ma esegue comunque gli ordini e qualsiasi sua intemperanza non potrà essergli addebitata. Inoltre, l’ombra della Cina e dei suoi soldi (tra cui quelli già elargiti all’Ucraina di Janukovych) incombe sul teatro operativo, mentre l’Europa sta a guardare aspettando ordini e fornendo un argomento in più a coloro che preferirebbero appartenere ad un’Unione più piccola, ma più coesa e indipendente.
* anteprima del n. 8/14 di Limes
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